sabato 31 luglio 2010

La politica dell'amore?

 Ci viene spontaneo intervenire sulla situazione politica attuale. In questi giorni si sta consumando una vera e propria crisi di governo che ha condotto all'allontanamento di dissidenti dal partito del Popolo della Libertà. Alcuni mesi or sono, questi signori si erano autodefiniti membri del partito dell'amore. Tutti noi pensavamo fosse una cosa buona, peccato che il partito dell'amore è una mini bufala che si è trasformata nel partito dell'odio e del rancore.

Una cosa ci viene spontanea da sottolineare: perchè questo disgregamento? A vedere bene i fatti c'è da piangere: il motivo dell'allontanamento consta nel aver protetto la legalità? Ho visto il Presidente della Camera Gianfranco Fini, mettersi di traverso su questioni importanti come il rispetto della legalità, il diritto di stampa, il diritto di cronaca, il rispetto delle istituzioni (cose che anche noi, quando abbiamo potuto, abbiamo difeso). Allora mi son chiesto perchè allontanare qualcuno che difende i valori per cui il partito è nato? E' paradossale che venga "cacciato" chi difende i valori mentre si difende a spada tratta chi delinque e corrompe. Così può passare l'idea malsana che la politica ami difendere la corruzione perchè su di essa è fondata. E' questa un idea brutta, ma che si va diffondendo in mezzo ad un popolo sempre più sconcertato e privo di punti di riferimento a livello politico. Se questa deve essere la politica dell'amore, perchè il popolo è abbandonato a sé stesso? Perchè nessuno si interessa dei poveri cassintegrati? Perchè il peso delle crisi lo devono sopportare i poveri mentre i ricchi continuano a sfoggiare lusso e ricchezza? Perchè si continuano ad approvare leggi di cui il popolo non sente il minimo bisogno? A queste domande, ci piacerebbe ricevere risposta da chi dice di essere difensore dei valori e del popolo.

Vista la nostra vicinanza al quotidiano dei Vescovi "Avvenire", ecco uno stralcio del loro intervento sulla situazione: "Un terremoto politico del quale è difficile per ora valutare appieno le conseguenze". Sul quale si possono trarre già alcune conclusioni: "Si sta disgregando il progetto di un sistema politico bipartitico, mentre si attenua anche la concezione del bipolarismo basata sull'autosufficienza, spesso esibita con una certa arroganza verbale poi smentita dai numerosi scivoloni parlamentari". La maggioranza di centrodestra appare oggi esplicitamente friabile, mentre le opposizioni divergono sulla soluzione da dare a un'eventuale crisi formale del governo. Il rischio maggiore è quello di una soluzione di paralisi".

Tutto questo ci porta a riflettere: è proprio vero che l'unico partito e l'unica politica dell'amore sono Gesù Cristo e la Sua Chiesa ...

di Angel 

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martedì 27 luglio 2010

In difesa della libertà del web

In questi giorni, è sotto minaccia anche la libertà di chi come noi, gestisce siti internet o blog di vario genere. SI parla di imbavagliare il web per eliminare la verità anche da queste pagine. Siamo consci che probabilmente ci vorrebbe uno strumento di controllo della Rete che però non si trasformi in un bavaglio, ma in un semplice prevenire e reprimere reati previsti come tali dalla legge.  Per questo motivo aderiamo al passaparola di questi giorni, per mostrare la nostra contrarietà al disegno di legge che limita la libertà del web. Quanto segue è un articolo tratto da "il Fatto Quotidiano ", che mostra in termini tecnici di cosa si tratta:

""Il nostro Premier non ama la Rete e questo non è né un mistero né una notizia.

Perché mai, d’altra parte, il Signore dell’oligopolio dell’informazione italiana ed il Re del TELE-COMANDO dovrebbe guardare anche solo con interesse ad uno strumento come la Rete che consente a chiunque di dire la sua a pochi click di distanza dal sito internet di RAI UNO che pubblica i video promo del prode Minzolini?

In un mondo che guarda al web – eccezion fatta per qualche regime totalitario – come ad una straordinaria risorsa democratica ed ad un diritto fondamentale dell’uomo e del cittadino, la radicale assenza, da parte di questo Governo, di qualsivoglia politica dell’innovazione è di per sé un fatto preoccupante.

Difficile sentirsi sereni e cittadini di un Paese moderno quando il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta – mentre il resto d’Europa investe milioni di euro per promuovere la diffusione della banda larga per uscire dalla crisi – ti dice che noi investiremo in banda larga solo dopo che – non è dato sapere come – saremo usciti dalla crisi o, piuttosto, quando il Ministro dell’Innovazione nel promuovere un progetto vecchio di cinque anni e anti-innovativo come la PEC, destinata a far la gioia solo di Poste Italiane aggiudicataria – non certo a sorpresa – di una concessione da 50 milioni di euro l’anno, lo battezza “la più grande rivoluzione culturale mai prodotta in questo Paese” nonché “la migliore riforma italiana dal dopoguerra ad oggi” .

Negli ultimi mesi, tuttavia, sta accadendo qualcosa di più.

C’è un disegno nel Palazzo che ha per obiettivo quello di imbavagliare anche l’informazione libera online e consegnare la Rete nelle mani dei Signori dell’informazione di un tempo perché la utilizzino come una grande TV.

Nessuna teoria complottista ma solo l’analisi dei fatti.

L’ormai celebre – nel senso dello strangolatore di Boston e non certo di un premio nobel per la pace – DDL intercettazioni, tra le tante disposizioni liberticida, contiene un art. 29 che estende a tutti i gestori di siti informatici – e dunque all’intera blogosfera italiana – l’obbligo di rettifica previsto dalla vecchia legge sulla Stampa datata 1948 e scritta dai padri costituenti quando Internet non esisteva neppure nell’immaginario degli scrittori di fantascienza.

All’indomani dell’approvazione del DDL, se un blogger ricevuta una richiesta di rettifica non provvederà entro 48 ore sarà passibile di una sanzione pecuniaria fino a 12 mila e 500 euro: una pena accettabile per un editore tradizionale ma di gran lunga superiore agli utili di un lustro di uno dei tanti blog che popolano la blogosfera italiana, garantendo quell’informazione libera che solo pochi giornali e poche TV hanno potuto e saputo sin qui assicurare.

Il malcelato obiettivo perseguito dal Palazzo con questa disposizione, ancora una volta, non ha niente a che vedere con la tutela della privacy dei cittadini e risponde, piuttosto, alla finalità di disincentivare i non professionisti dell’informazione ad occuparsi di informazione in modo tale che, anche nell’era di internet, l’informazione, in Italia, possa essere controllata esercitando pressioni politiche ed economiche su un numero quanto più limitato possibile di persone.

Nei giorni scorsi due emendamenti al comma 29 dell’art. 1 del DDL intercettazioni presentati, in Commissione Giustizia alla Camera, al fine di “ammorbidire” l’impatto della disposizione sull’ecosistema Internet, sono stati, addirittura, dichiarati – del tutto inspiegabilmente – inammissibili dal Presidente, Giulia Bongiorno .

La Rete ha reagito con una lettera aperta indirizzata al Presidente Fini ed a tutti i deputati italiani, ma, naturalmente, le chance che il testo del comma 29 venga modificato nella discussione in aula appaiono prossime allo zero.

Frattanto – ed è proprio questa coincidenza e sovrapposizione di eventi a non consentire più di giustificare quanto sta accadendo sulla base del fatto che il Palazzo sia abitato da dinosauri che non conoscono la Rete – l’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni ha pubblicato, nell’ambito di una consultazione pubblica, gli schemi di due Regolamenti volti a disciplinare la diffusione di contenuti audiovisivi a mezzo internet in ossequio all’ormai famoso Decreto Romani.

Tutte le web tv ed i video blogger italiani, in forza degli emanandi regolamenti, dovranno chiedere all’Agcom un’autorizzazione – o almeno indirizzarle una dichiarazione di inizio attività -, versare 3000 euro per il rimborso delle spese di istruttoria (quali?) e, soprattutto, finiranno assoggettati, tra gli altri al solito obbligo di rettifica, sempre entro 48 ore e sempre sotto la minaccia di una sanzione fino a 12 mila e 500 euro .

L’obiettivo dell’ultimo scellerato progetto di Palazzo sembra evidente: ora che il Cavaliere si accinge a sbarcare in Rete avendone forse, almeno, subodorato le enormi potenzialità, la vuole tutta per lui, per i suoi amici e per i soli suoi nemici che ha, comunque, la garanzia di poter controllare almeno in termini economici.""

FONTE
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sabato 24 luglio 2010

Chiusa indagine su mons. Zollitsch: totalmente estraneo ai fatti.

Forse non è la sezione più appropriata, ma ci sentiamo di comunicare una notizia che i mass media hanno in larga parte, preferito ignorare o quasi: a seguito di indagine da parte delle autorita' tedesche, l'arcivescovo di Friburgo, Robert Zollitsch e' risultato totalmente estraneo al reato di complicita'/favoreggiamento nei confronti di un sacerdote accusato di pedofilia.  Il testo che segue è tratto dal sito dell'UCCR: Unione Cristiani Cattolici Razionali:

"Ai laicisti è andata male un'altra volta: dopo essersi esaltati perché qualche sacerdote ha compiuto atti pedofili su dei bambini, hanno provato anche ad incastrare il presidente dei vescovi tedesco. Ma l'accusa si è rivelata, anche questa, totalmente infondata. L'arcivescovo di Friburgo, Robert Zollitsch, non si infatti reso complice del sacerdote che negli anni Sessanta avrebbe (sarà vero o anche qui è una montatura??) abusato sessualmente di un minore. L'archiviazione dell'inchiesta è stata chiesta dalla Procura di Costanza. Non si ritiene infatti che mons. Zollitsch abbia mai coperto o in qualche modo agevolato il religioso. Secondo la presunta vittima degli abusi, mons. Zollitsch -- che all'epoca era responsabile del personale della Chiesa friburghese -- sarebbe stato a conoscenza degli abusi e nonostante ciò avrebbe confermato al suo posto il religioso cistercense. La Procura, tuttavia, ha concluso che in quello stesso lasso di tempo non si era a conoscenza degli abusi e che dunque ciò fa decadere qualsiasi responsabilità da parte dell'attuale presidente dei vescovi tedeschi. Fin da subito, 2 giugno 2010, l'arcidiocesi di Friburgo aveva parlato di totale estraneità, ricordando le stesse conclusioni a cui è giunta ora la procura tedesca. La notizia è riportata su Radio Vaticana e su Kath.net."

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lunedì 19 luglio 2010

Paolo Borsellino e la sconfitta dello Stato

Anche nell'angolo politico, oggi diamo il giusto tributo a Paolo Borsellino. E voglio farlo pubblicando un post scritto da Antonio Di Pietro, leader dell'Italia dei Valori, poiché si sofferma su un fatto molto importante e su cui lo stesso Borsellino si era concentrato fino alla morte e cioè le collusioni mafia-politica:

"Sono a Palermo per ricordare Paolo Borsellino e la sua scorta, a diciotto anni da quel giorno funesto, in via D'Amelio.
In via D’Amelio e a Capaci saltarono in aria i valori dello Stato, non soltanto le macchine investite dalle esplosioni.
Aveva ragione Antonino Caponnetto, fondatore del pool antimafia di cui facevano parte Borsellino e Falcone, quando, ripreso a caldo dalle telecamere, disse con la voce strozzata dal dolore: «E' finito tutto, è finito tutto»
.
Borsellino, così come Falcone e molti altri dopo di loro tra forze dell’ordine e fedeli servitori dello Stato, furono uccisi da facce ancora senza volto che sappiamo essere oggi nelle istituzioni.
Celebrare questa giornata è un dovere morale per un Paese in cui la legalità sembra essersi dissolta nell'acido, ascoltando le sentenze e le testimonianze registrate nei processi degli ultimi anni.
Un senatore della Repubblica che definisce "veri pentiti" due assassini come i fratelli Graviano (guarda il video), può bastare per farci capire chi siede oggi in Parlamento.
Dov’è la legalità? La legalità rappresenta ancora un valore per gli italiani? O è rimasto solo un gruppo di cosiddetti “manettari” a difenderla?
Se Borsellino fosse tra noi, oggi, avrebbe un gran da fare, forse. Certamente, però, sarebbe ancora vivo.
Nel XXI secolo la criminalità non ha più bisogno di uccidere, poiché elegge i suoi rappresentanti in Parlamento, li colloca nella magistratura, nelle Forze dell’Ordine, nell’imprenditoria.
E se Paolo fosse arrivato a scoprire realtà scomode, allora sarebbe stato semplicemente rimosso dall’incarico come è successo con de Magistris, Apicella, Forleo. Ma sarebbe ancora vivo.
Borsellino è morto nel '92 perché rappresentava gli italiani che non volevano trattare con la criminalità.
Oggi essere un rappresentante della criminalità organizzata significa essere importanti e muovere le sorti del Paese. Oggi avere rapporti con la criminalità ti garantisce un posto in prima fila, un posto da senatore o addirittura da sottosegretario. Un posto al sole, insomma.
Oggi la criminalità è arrogantemente presente in ogni settore ed è la prima industria del Paese.
E’ presente più dello Stato tra la popolazione, offre lavoro, appalti, soldi e fortuna, e celebra anche lei la morte di Borsellino distruggendone le icone che lo ricordano.
Le sculture dei due giudici danneggiate a Palermo ricordano uno Stato contrapposto alle mafie, una contrapposizione superata dal dialogo e dalla collusione odierni.
Se Paolo fosse riuscito a portare a termine il suo lavoro, tenendo lontano lo Stato dalle mafie, vivremmo in un'Italia diversa.
Borsellino aveva gli strumenti per cambiare le cose, e intorno a lui c’era una popolazione che lo sosteneva. Nel cuore dei cittadini lui era un eroe, mentre coloro che lo volevano ammazzare erano topi che si muovevano all’ombra delle fogne.
Oggi gli incontri tra politici e criminali avvengono alla luce del sole. I topi sono usciti allo scoperto e sono entrati in Parlamento.
Paolo in quel 19 luglio non aveva intorno solo la sua scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina) ma tutti gli italiani.
Per questo con l'uccisione di Borsellino ha perso l'Italia intera.
Le agende rosse innalzate in cielo, oggi a Palermo, devono essere un punto da cui ripartire. Gli italiani, in questo giorno di ricordo, hanno una grande occasione per riflettere. I vari Dell’Utri, Cuffaro, Cosentino sono il prodotto di una deriva democratica per cui diversi servitori dello Stato hanno perso la vita negli anni '90.
Il miglior omaggio alla memoria di Borsellino che i cittadini possano fare è quello di assumersi l’impegno di rigettare i topi nelle fogne. E con loro chi gli ha aperto i tombini."

 
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venerdì 16 luglio 2010

La verità viene sempre a galla...

Questa mattina su Repubblica è apparso un articolo molto drammatico contenente i risultati delle intercettazioni in stile cupola mafiosa degli uomini di "Cesare", il nome col quale si allude al premier.

Di seguito l'articolo che invito a leggere a voi tutti perché sappiate che l'Italia sta scivolando in una buca dittatoriale dove chi decide non è più il popolo ma i politici. La democrazia sta soffrendo pesanti fendenti sul suo seno da parte di "Cesare". Stavolta chi subisce le ventitré pugnalate non è "Cesare", al contrario è lui che le infligge alla sovranità del popolo.


L'avevamo capito dal momento in cui la politica italiana non si è più occupata dei bisogni del cittadino ma dei propri interessi. Se così fosse, e sembrerebbe proprio che le cose stiano così, "Cesare" con il suo sorriso a trentadue denti non fa altro che gettare fumo negli occhi per occultare le sue magagne compiute dietro alle spalle del popolo italiano il quale è vittima di un sistema politico alla stregua della criminalità organizzata.

Ci auguriamo si faccia chiarezza, ma più di tutto ci appelliamo alla Giustizia Divina che metta in ordine le cose con la Sua destra.

di Mikhael
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martedì 13 luglio 2010

Intervista al Cardinal Angelo Bagnasco

Eccoci di ritorno, in questo spazio, per pubblicare un interessante intervista al Cardinal Angelo Bagnasco, che dà un forte ritratto dell'attuale situazione politica italiana e che condividiamo totalmente:

Intervista al cardinale Angelo Bagnasco presidente della Conferenza episcopale italiana





 Testimoni credibili in una società in crisi

Da Benedetto XVI un'immensa forza rinnovatrice per una nuova generazione di laici

di Marco Bellizi

La questione sollevata dalla controversa sentenza della Corte di Strasburgo che vieta l'esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche da affrontare con un pizzico di buon senso; la malintesa e pervicace forma di laicità, che ignora il fatto religioso e anzi esplicitamente lo esclude; la necessità di un'autoriforma e di una purificazione della Chiesa indicata da Benedetto XVI; l'esigenza di una nuova generazione di politici cattolici auspicata già dal Papa e dal suo segretario di Stato; il persistere della crisi economica; l'anniversario dell'unità d'Italia come occasione per ritrovare coesione e convergenza secondo l'auspicio, tra gli altri, del presidente della Repubblica; il federalismo come intuizione già presente nella dottrina sociale della Chiesa; la bellezza, la gioia e la responsabilità dell'essere preti come frutti dell'Anno sacerdotale. Sono i questi i temi della lunga intervista che il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo metropolita di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) ha rilasciato al nostro giornale. Che ha espresso alla fine una convinzione: "Questi mesi difficili cederanno il passo a una rinnovata passione per l'annuncio di Dio con le parole e le opere. Di Dio, infatti, l'uomo contemporaneo sente forte il bisogno in un mondo confuso e incerto, ma pur sempre alla ricerca del senso della vita terrena e della felicità piena".

Eminenza, il 30 giugno si è tenuta presso la Corte di Strasburgo l'udienza per il ricorso presentato dal Governo italiano contro la sentenza del novembre scorso che vieta l'esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche. Che aspettative ha rispetto a questa decisione? A quali conseguenze porterebbe una conferma della precedente sentenza?

A dire la verità, mi aspetterei solo un pizzico di buon senso. È strano infatti che proprio oggi, quando il confronto interculturale si fa più esigente, a motivo della crescente mobilità, si pretenda poi di censurare una delle matrici fondamentali della storia del nostro continente. Ipotizzare, come taluni fanno, che il crocifisso leda la laicità dello Stato, il quale non dovrebbe inclinare verso nessuna opzione religiosa o confessionale, significa dimenticare che ben prima dello Stato vi è la gente; esiste infatti un humus profondo che identifica il sentire comune della gran parte della popolazione italiana. Nella scelta di mettere tra parentesi un segno come il crocifisso colgo peraltro una scarsa considerazione di quel principio di sussidiarietà per cui ciascuno Stato, nel contesto europeo, presenta una peculiare radice che merita rispetto e considerazione. Del resto, a essere sinceri, a chi mai è venuto in mente di eliminare festività nazionali che hanno una chiara impronta religiosa nel nostro o in altri Paesi del mondo? Volere eliminare le caratteristiche tradizioni culturali e religiose di un Paese, specie quelle legate agli ambienti di vita - siano essi la scuola o i luoghi di aggregazione giovanile - significa rinunciare proprio a quella ricchezza delle culture che si vorrebbe per altri versi tutelare e difendere.

Sono stati in molti a ravvisare dietro alla precedente sentenza della Corte un'ispirazione culturale molto vicina a sentimenti di cristianofobia. Lo stesso si è detto a proposito degli attacchi subiti dalla Chiesa, come per esempio è avvenuto in Belgio. Da dove nasce tutta questa ostilità?

Più semplicemente - ma vorrei dire ancora più gravemente - esiste una malintesa e pervicace forma di laicità, che sarebbe meglio definire laicismo; questa ignora il fatto religioso, anzi esplicitamente lo esclude. Si tratta in realtà di una grave amputazione del senso dello Stato, che ovviamente non ha competenze in campo religioso né persegue finalità religiose, ma deve riconoscere, rispettare e anzi promuovere la dimensione religiosa. Dietro la libertà religiosa infatti si cela la più decisiva esperienza della libertà umana, senza la quale è a rischio non solo la fede, ma ancor prima la democrazia. Dietro la cosiddetta neutralità dello Stato è presente un pregiudizio, tardo a morire, verso il quale giustamente Benedetto XVI da tempo va concentrando la sua riflessione: quello cioè di confinare Dio al di fuori dello spazio pubblico, riducendolo a una questione privata. Per quel che riguarda l'Europa, poi, si trascura il fatto che la nostra civiltà - delle cui conquiste relative alla libertà, all'uguaglianza, ai diritti individuali e sociali tutti godono - germoglia proprio dal crocifisso, riconosciuto come il suo simbolo più qualificato e universale.

Benedetto XVI ha affermato che il pericolo più grande per la Chiesa è al suo interno. Come si affronta questa minaccia?

Il Santo Padre chiama tutti i cattolici a un'opera di autoriforma e spinge tutta la Chiesa a compiere un cammino di purificazione. Questa indicazione è senza dubbio una provocazione non solo per il mondo ecclesiale, ma per la stessa società civile. Tale linea di marcia non è affatto "spiritualista", come afferma qualcuno; al contrario, racchiude un'immensa forza rinnovatrice, una forza di concretezza e di azione che la storia già conosce. In una stagione in cui tendenzialmente tutti cercano di difendere se stessi e, all'occorrenza di denigrare gli altri, il Papa invita a battersi il petto e a non guardare alle colpe altrui, chiamando in causa la coscienza individuale perché dinanzi a Dio ognuno si riconosca nella verità. È evidente che l'insidia maggiore nasce sempre dal di dentro e non dal di fuori. Ciò che fa vacillare, infatti, non sono gli attacchi, anche virulenti, che possono esserci da parte di chi nutre pregiudizi o ostilità nei riguardi della fede, ma quelli da parte di chi alla fede si appella, rinnegandola poi nel concreto con l'insipienza e lo scandalo dei suoi comportamenti. La minaccia dall'interno dunque è più subdola e chiede di essere smascherata attraverso un lineare riconoscimento dei fatti, seguendo un rigoroso percorso di penitenza che non ammette ritardi o attenuanti. Nel caso degli abusi su minori, che hanno coinvolto dolorosamente alcuni ecclesiastici, occorre aggiungere che l'accertamento dei fatti, nelle sedi e nei modi dovuti, garantisce alla giustizia i colpevoli di questi terribili delitti. Se, come credo, la crisi che si sta attraversando ha un senso, esso consiste proprio nel ritornare con umiltà alle sorgenti del Vangelo, che chiama ogni generazione di cristiani a dare ragione della propria speranza con le parole e con la vita.

La questione educativa è da tempo indicata come elemento centrale dell'azione pastorale. In Italia, la Chiesa l'ha messa al centro degli orientamenti pastorali per il prossimo decennio. C'è un momento, o un processo, a partire dal quale, nella società civile, si può ravvisare l'inizio di questa emergenza?

Come ricorda di frequente Benedetto XVI, ogni generazione è chiamata a raccogliere la sfida della libertà, e così a imparare sempre di nuovo cosa significhi essere liberi. Certamente ai nostri giorni esiste una serie di elementi che hanno reso più difficile l'esercizio di questa libertà, a fronte di un'aspirazione diffusa che la vede come un diritto e non anche come una responsabilità. In particolare, il mondo degli adulti ha smesso di generare alla vita. Ognuno di noi, infatti, cresce non tanto ascoltando quanto vedendo qualcuno. In concreto, genera alla vita chi si lascia sorprendere dalla vita e attraversare da essa. Ciò vuol dire che per essere generativi bisogna accettare il fatto che non si è all'origine della vita, ma che ci si fa attraversare da essa e con essa si dialoga. Diversamente si resta accecati e imprigionati dalla volontà di potenza e si finisce per distruggere il mondo. Credo che avere perso il senso dell'anteriorità, cioè di Dio, abbia prodotto mancanza di autorevolezza, e finito col creare una società senza padri, cioè fatalmente senza testimoni. La capacità di generare peraltro implica sempre una trasformazione personale, fatta di dedizione, di impegno, di passione, di successo e di fallimento. Fa parte dell'accoglienza della vita anche il sapere rinunciare a qualcosa di sé per gli altri. Mi sembra che questa serie elementare di atteggiamenti sia scomparsa dalla scena pubblica per dare adito a comportamenti per lo più narcisistici, quando non addirittura adolescenziali.

Benedetto XVI, già nel 2008, ha fatto riferimento alla necessità di una nuova generazione di politici cattolici, messaggio rilanciato dal suo segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, e da lei in occasione del Consiglio permanente della Cei dello scorso gennaio. Generalmente questo messaggio viene inteso come una chiamata ad assumere iniziative politiche conseguenti alla propria coscienza di cristiani. È questa l'interpretazione corretta?

Il Papa a Cagliari ha auspicato una nuova generazione di politici cattolici e il suo segretario di Stato, il cardinale Bertone, gli ha fatto doverosamente eco, per segnalare una urgenza che è sotto gli occhi di tutti. L'affezione per la cosa pubblica sta scemando e sempre più rarefatto è il consenso intorno al bene comune, privilegiando ciascuno beni di piccolo cabotaggio e senza prospettiva alcuna. Per questa ragione anch'io ho fatto riferimento a un "sogno" per evocare una direzione di marcia verso cui camminare. Nella prolusione mi riferivo appunto a "una generazione nuova di italiani e di cattolici che, pur nel travaglio della cultura odierna e attrezzandosi a stare sensatamente dentro ad essa, sentono la cosa pubblica come importante e alta, in quanto capace di segnare il destino di tutti, e per essa sono disposti a dare il meglio dei loro pensieri, dei loro progetti, dei loro giorni". Penso che attorno a questo tema nevralgico della nostra società, che chiama in causa la testimonianza della Chiesa, occorra il concorso attivo di tutti. Come vescovi italiani ci impegneremo a una specifica riflessione in merito.

Sui temi etici, in quasi tutti i partiti italiani si registrano al momento posizioni eterogenee. Esiste oggi un problema di rappresentanza politica delle posizioni cattoliche in Italia?

Più che un problema di rappresentanza politica esiste un problema di coerenza personale. Credo che sempre più siano necessari fedeli laici capaci di imparare a vivere il mistero di Dio, esercitandosi ai beni fondamentali della libertà, della verità, della coscienza. Come detto nella citata prolusione dello scorso gennaio, "cresce l'urgenza di uomini e donne capaci, con l'aiuto dello Spirito, di incarnare questi ideali e di tradurli nella storia non cercando la via meno costosa della convenienza di parte comunque argomentata, ma la via più vera, che dispiega meglio il progetto di Dio sull'umanità, e perciò capaci di suscitare nel tempo l'ammirazione degli altri, anche di chi è mosso da logiche diverse".

L'Italia, come il resto del mondo, sta vivendo un difficile passaggio economico. Ritiene che il peggio si possa considerare ormai superato o gli effetti della crisi devono ancora rivelarsi pienamente?

Per quel che vedo con i miei occhi, c'è ancora molta disoccupazione. E non scorgo concreti e sicuri segnali di inversione di tendenza, anche in grandi realtà industriali della mia Genova. Serpeggiano tra la gente preoccupazioni serie e pungenti. Non mi riferisco ovviamente a un discorso di macroeconomia per il quale non ho le competenze. Semplicemente constato che se gli strateghi possono rassicurare sul medio periodo, ritenendo che la strada giusta sia stata imboccata, come vescovo vedo molta gente senza lavoro e sono turbato da tanta sofferenza e insicurezza su come arrivare alla fine del mese. Un certo assestamento c'è stato perché le famiglie si sono adattate, utilizzando meglio le risorse ed evitando gli sprechi. Però c'è una fascia che aveva ben poco da risparmiare e che obiettivamente è in affanno.

Le misure che si stanno prendendo in risposta alla crisi stanno creando diverse tensioni fra parti sociali e contrasti a livello politico. Quali criteri dovrebbero essere seguiti nella previsione di interventi che si preannunciano molto severi?

Credo che il criterio dell'equità economica sia quello da seguire, dovendo ciascuno dare in rapporto alle proprie capacità. Sta poi a chi ha la responsabilità politica affrontare in concreto la situazione, declinando l'equità economica dentro a una cornice di libertà politica e di coesione sociale. Solo così i tre valori in gioco - la libertà politica, la giustizia economica, la coesione sociale - si salvaguardano insieme.

Da alcune parti, di frequente anche dal Quirinale, si osserva come il Paese stia perdendo il senso della coesione nazionale. La Chiesa in Italia condivide questa sensazione?

L'anniversario dell'unità d'Italia è una provvidenziale occasione per ritrovare le comuni radici che hanno fatto il nostro Paese, ben prima del suo riconoscimento come Stato. Proprio riandando indietro nel tempo, si scopre che quando a prevalere sono state logiche di campanile e ci si è contrapposti in nome del proprio "particolare" si è registrata una battuta d'arresto. Al contrario, quando si è innescato il meccanismo virtuoso della cooperazione, allora le forze culturali, sociali, economiche e spirituali, si sono sommate e non annullate. Penso che la crisi in atto debba dunque spingere l'Italia a ritrovare se stessa. Per questo apprezzo lo sforzo di quanti, innanzitutto il presidente della Repubblica, invitano continuamente a ritrovare la coesione e la convergenza, al di là delle legittime differenze.

Al Mezzogiorno la Cei ha dedicato un importante documento. La crisi, secondo gli osservatori, sembra aver aggravato ulteriormente il divario con il resto del Paese. Si discute anche dell'impatto del decentramento fiscale. Il federalismo è un pericolo o un'opportunità?

Il federalismo non è una ricetta magica, ma rappresenta un'intuizione ben presente nella dottrina sociale della Chiesa, che sin dai tempi di Pio XI chiama in causa il principio di sussidiarietà - poi introdotto a Maastricht - per sottolineare che quel che può essere fatto dalle realtà intermedie non deve essere avocato a sé dall'istanza centrale. Infatti più si è vicini alla realtà, più la si può accompagnare con efficienza e oculatezza. Ciò posto, il principio suddetto va coniugato con quello di solidarietà per evitare che chi sta indietro resti ancora più arretrato.

Dal 14 al 17 ottobre si terrà a Reggio Calabria la Settimana sociale dei cattolici italiani, con la quale si vuole proporre un'"agenda di speranza". È la speranza che manca maggiormente al Paese?

L'agenda è un termine entrato nel linguaggio comune per richiamare concretezza di obiettivi e aderenza alla realtà. In quella preparata in vista della settimana di Reggio Calabria si elenca una serie di questioni non più rinviabili - come creare impresa, educare, includere nuove presenze nel nostro Paese, introdurre i giovani nel mondo del lavoro e della ricerca, compiere la transizione istituzionale - che oggi definiscono in modo puntuale il volto del bene comune, che solo garantisce la tenuta unitaria dell'Italia e la ripresa economica. Certamente è la speranza cristiana che fa da sfondo, e ancor prima da movente, a questa rinnovata stagione di impegno dei cattolici italiani dentro la società di oggi.

Si è da poco concluso l'Anno sacerdotale. Cosa ha significato per i sacerdoti italiani, quale è l'eredità di questa iniziativa?

L'Anno sacerdotale è stato, per volontà di Benedetto XVI, un'occasione straordinaria per riscoprire la bellezza, la gioia e la responsabilità del sacerdozio e del ministero pastorale. E per mettersi di più in gioco nella santità che richiede. La vocazione sacerdotale è infatti un dono inestimabile che non cancella la consapevolezza dei limiti umani, ma esalta la scelta del Signore Gesù, il quale si fa prossimo a ogni uomo attraverso il servizio discreto e fedele di tanti parroci e preti; e questi, attraverso il Vangelo e i sacramenti, aprono il mondo a Dio e rendono più umano il nostro territorio. Credo che l'eredità dell'Anno sacerdotale sia l'impegno a una testimonianza di vita che deve farsi ancor più trasparente per l'amore a Dio e alla sua Chiesa.

"Per crucem ad lucem": ha usato più volte questa espressione per descrivere il momento che sta vivendo la Chiesa. Il tempo della croce sarà ancora molto lungo?

Ogni momento di sofferenza, quando accolto con senso di responsabilità, prelude sempre a una rinascita. Sono convinto che anche questi mesi difficili cederanno il passo a una rinnovata passione per l'annuncio di Dio con le parole e le opere. Di Dio, infatti, l'uomo contemporaneo sente forte il bisogno in un mondo confuso e incerto, ma pur sempre alla ricerca del senso della vita terrena e della felicità piena.

(©L'Osservatore Romano - 14 luglio 2010)



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