giovedì 31 marzo 2011

La piaga della mafia - Intervista ad Antonio Ingroia

Il nostro approfondimento sulla piaga della mafia continua con un'intervista ad Antonio Ingroia, magistrato cresciuto seguendo l'esempio di Paolo Borsellino (e che, come vi abbiamo detto la settimana scorsa, oggi è attaccato da molti esponenti di governo per aver "osato" dire la sua ad una manifestazione). L'intervista risale al 2002, cioè dieci anni dopo la strage di Via D'Amelio ed è stata pubblicata da l'unità:

Borsellino, il mio amico impopolare

Intervista
a cura di
Saverio Lodato

15.07.2002


Antonio Ingroia ha imparato il «mestiere», quello di magistrato s'intende, sotto la guida e a fianco di Paolo Borsellino. Era giovane, molto giovane, quando iniziò ad occuparsi di mafia, prima al Tribunale di Palermo, poi alla Procura di Marsala. Fa parte di quel gruppo di giovani giudici palermitani che furono attratti alla professione da personalità forti e stimate come Falcone, Borsellino e Caponnetto. Erano altre stagioni della lotta a Cosa Nostra. Oggi Ingroia non è più giovane.
Ha sulle spalle inchieste e processi, lunghi anni di vittorie e speranze, sconfitte e delusioni, ma soprattutto anni di tenacia che in lui non è mai venuta meno. Per Paolo Borsellino, che lo stimava molto, ha sempre nutrito una venerazione particolare. Se lo vide morire quasi accanto, all'indomani di un ultimo incontro, di un ultimo colloquio.
È uno dei due pubblici ministeri al processo per mafia intentato dalla Procura di Palermo contro il senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri.
Dottor Ingroia, cosa resta dell'insegnamento di Paolo Borsellino?
«Il suo è un tesoro perduto sul fondo dell'oceano. È ricoperto da acque troppo limacciose».
Per responsabilità di chi il tesoro Paolo Borsellino è andato perduto?
«Preferisco rispondere con parole di Paolo Borsellino. In un dibattito, Borsellino disse che il vero nodo della lotta alla mafia è un nodo politico. E intendeva dire che se non vi fosse stata una reale assunzione di responsabilità da parte della politica su questo fronte, la battaglia sarebbe stata perduta. Definì di corto respiro ogni strategia imperniata sulla delega a magistrati e forze dell'ordine. Mi chiedo dunque: c'è stata in questi anni un'effettiva assunzione di responsabilità da parte della politica? Direi proprio di no. Negli anni dell'emergenza, si è riproposta la delega a magistrati e forze dell'ordine; negli anni invece della pax mafiosa i magistrati e rappresentanti delle forze dell'ordine da una parte sono stati abbandonati, dall'altra sono stati aggrediti, attaccati, delegittimati e quasi disarmati».
In questo senso, il governo sta facendo un buon lavoro per ricacciare in fondo alle acque il tesoro Borsellino. O no?
«Gli attacchi all'indipendenza e all'autonomia della magistratura, che negli ultimi tempi sono sotto gli occhi di tutti, certamente ai mafiosi non dispiacciono. Così come non dispiacciono certe dichiarazioni sfuggite ad un ministro che parlava della necessità di convivere con la mafia. Intanto, i mafiosi detenuti, premono dal carcere con manifestazioni di protesta. Il vero snodo sarà costituito dalle prossime decisioni sul 41 bis».
Paolo Borsellino avrebbe voluto il carcere duro a vita per i mafiosi...
«Non ho dubbi».
Dottor Ingroia, chi era Paolo Borsellino?
«Un uomo delle istituzioni che, anche nei momenti più difficili e di grande amarezza, trovava dentro di sé la forza di fare il proprio dovere senza tentennamenti. Anche a costo di sfidare impopolarità e i peggiori attacchi».
In quale occasione Paolo Borsellino si rese impopolare?
«In tanti momenti della sua vita. Un momento che mi è rimasto molto impresso, anche perché avvenne nel periodo in cui ero da poco entrato in magistratura, si verificò nell'estate '88, quando uscendo dal riserbo, in un pubblico dibattito ad Agrigento, denunciò il grave calo di tensione nella lotta alla mafia che si era registrato nella società e nelle istituzioni, comprese quelle giudiziarie».
Perché Paolo Borsellino si rese impopolare?
«Perché lanciò il suo sasso nello stagno contro uno spirito di convivenza con la mafia che pericolosamente tornava a prevalere dopo gli anni della grande sfida, della grande illusione».
Paolo Borsellino fu uno dei grandi sfidanti di Cosa Nostra, ma anche un grande illuso? È questo che vuole dire?
«No. Borsellino era ben consapevole di quanto fosse lunga la strada da percorrere. Sicuramente non fu un illuso. Fu, semmai, un uomo spesso deluso che - lo ricordo bene - lasciò esplodere le sue delusioni e le sue amarezze in un altro famoso suo intervento pubblico. Era l'estate del 1992».
Quando Paolo Borsellino commemorò Giovanni Falcone ormai assassinato?
«Esattamente. Quando decise di puntare il dito contro le resistenze, anche istituzionali, al lavoro del "pool" antimafia e con amarezza ricordò tante resistenze e persino qualche tradimento».
Paolo Borsellino quali Giuda chiamò in causa per la strage di Capaci?
«Fece specifico riferimento alla vicenda della bocciatura della candidatura di Falcone a prendere il posto di Caponnetto alla direzione dell'ufficio istruzione. Quella fu una battuta d'arresto nelle indagini che pesò per anni».
Torniamo a Paolo Borsellino. È lecito dire che non fu mai una "diplomatico" nella lotta alla mafia?
«In un certo senso sì. Era indubbiamente un uomo sincero, che parlava in modo diretto, senza eccessive prudenze, quando era necessario. Ma anche pronto a buttarsi a capofitto nel lavoro senza risparmiarsi anche nei momenti di maggiore difficoltà, applicando la legge senza davvero guardare mai in faccia nessuno».
Si dice che Paolo Borsellino avesse una resistenza straordinaria al lavoro. Conferma?
«Ricordo benissimo che quando io ero un suo sostituto a Marsala - e abitavamo nello stesso palazzo, sullo stesso pianerottolo - e gli bussavo alle otto e mezzo per invitarlo a prendere il caffè, lo trovavo fra una montagna di fascicoli. Era già sveglio e al lavoro da almeno tre ore. E non è una leggenda».
Può farmi l'esempio di un Paolo Borsellino che applicava la legge non guardando in faccia nessuno?
«Era il 1991. Nell'ufficio di Borsellino, a Marsala, erano ancora lontani i tempi di Mani Pulite, e l'incriminazione di un uomo politico provocava strepiti e polemiche. Ero andato a trovarlo per esporgli le risultanze di una mia indagine per voto di scambio fra un parlamentare locale e alcuni mafiosi del Trapanese. Gli dissi che era inevitabile notificare un'informazione di garanzia. Ci fu un momento di silenzio. E poi, Borsellino mi disse con voce grave una frase che non dimenticherò mai: mi tremano le vene ai polsi al pensiero delle polemiche che si scateneranno ma è nostro dovere e non abbiamo scelta. Invia l'informazione di garanzia».
E di un Paolo Borsellino pronto a buttarsi a capofitto nel lavoro?
«Era l'estate del 1992. Si era già verificata la strage di Capaci. Borsellino avvertiva l'incombenza della tragedia su di lui. Aveva quindi fretta di scoprire gli assassini degli amici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. In quei giorni, per la prima volta, mi capitò di trovare la porta del suo ufficio chiusa e, dopo aver citofonato, sentirmi rispondere da lui: scusami Antonio, sto facendo una cosa urgente, al momento non ti posso ricevere».
Sono i suoi ultimi incontri con Paolo Borsellino?
«Gli ultimi due incontri sono forse i più significativi. Tutti e due avvenuti il 15 luglio del 1992. Avevo deciso di concedermi qualche giorno di ferie con la mia famiglia. E quella mattina mi recai nell'ufficio di Borsellino, al Tribunale di Palermo, per salutarlo. Appena gli diedi la notizia, Borsellino cambiò di umore, mi trattò malissimo, quasi mi mise alla porta. E disse: "vai in ferie, vai in ferie", senza neanche salutarmi. Ma non me la sentivo di andare in ferie così. E tornai di pomeriggio in ufficio per avere un chiarimento con Paolo. Lo trovai da solo, in un Palazzo di Giustizia quasi deserto. Era il giorno di Santa Rosalia, un giorno festivo per i palermitani. Gli spiegai che ero tornato solo per salutarlo e allora capì il mio disagio e mi disse che quell'estate lui aveva intenzione di non andare in ferie. Aggiunse che mi "concedeva" solo qualche giorno di riposo con l'accordo che la settimana successiva sarei rientrato e lui mi avrebbe affidato un'importante inchiesta della quale si stava già occupando».
Paolo Borsellino le disse di che si trattava?
«Mi anticipò che si trattava dello sviluppo delle rivelazioni di un nuovo collaboratore di giustizia. Un'indagine alla quale - secondo lui - avremmo dovuto dedicare l'intera estate. Non ebbi il tempo di rientrare da quei quattro giorni di ferie, perché la domenica successiva si sarebbe verificata la strage di via D'Amelio. Mi è sempre rimasto il rammarico di quell'appuntamento mancato».
Dottor Ingoia perché è stato assassinato Paolo Borsellino?
«È un altro mio rammarico. Quello di non avere contribuito, insieme agli altri colleghi, a fare piena luce sui tanti perché di quella strage. Sono stati condannati vari imputati in tanti processi per l'esecuzione e l'organizzazione dell'agguato in via D'Amelio. Ma anche in quelle sentenze di condanna i giudici pongono interrogativi rimasti senza risposta e ammettono l'esistenza di zone d'ombra tutt'ora non evidenziate. Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, voleva aiutare gli investigatori a scoprire la verità. Ma il suo percorso di verità venne bruscamente interrotto da un'autobomba. Noi, che gli eravamo stati vicini, abbiamo provato a riprendere il suo intero percorso investigativo. Purtroppo, dieci anni dopo, questo percorso resta incompiuto».
Paolo Borsellino fu ucciso perché - come si disse in quei giorni - stava indagando in maniera seria sull'uccisione di Falcone?
«Lo affermano le sentenze. E io ne ho un ricordo personale. Mi disse: "andrò a testimoniare davanti ai colleghi di Caltanissetta quando avrò la certezza sul perché della strage". E avviò una specie di indagine parallela, interpellando colleghi, investigatori, consultando documenti, cercando di interpretare le annotazioni dei cosiddetti diari di Falcone. Il tutto per trovarvi una chiave di lettura. Disse anche: "potrei farmi applicare alla Procura di Caltanissetta per seguire personalmente le indagini". Ma disse anche che preferiva agire più liberamente per scoprire la verità e poi portarla da testimone alla procura competente».
Paolo Borsellino pensava che il diario di Falcone si riducesse alle due pagine pubblicate dal "Sole 24 Ore"?
«Non lo so. So però che riteneva preziose quelle brevi annotazioni e che se Falcone se le era appuntate significava che erano davvero importanti».
Nel libro intervista "I miei giorni a Palermo", Antonio Caponnetto mi raccontò di un'agenda di pelle rossa in cui Paolo Borsellino annotava tutto e che non venne mai ritrovata dopo l'attentato di Via D'Amelio. Secondo lei che fine ha fatto?
«È uno dei tanti buchi neri della verità sulla strage di via D'Amelio, rimasti tali nonostante l'impegno profuso dai colleghi di Caltanissetta. Nei grandi delitti e nelle grandi stragi mafiose, le agende e i diari delle vittime non si trovano mai».

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Alla ricerca del feto perfetto

Il nostro Osservatorio oggi si sofferma sul grido d'allarme lanciato da un articolo de ilsussidiario-net che ci mostra come sia in dirittura d'arrivo una tecnica di diagnosi prenatale genetica: tale tecnica permetterà di sapere sin da subito se il bambino sarà affetto da malattie o malformazioni, portando così la maggior parte delle donne a scegliere l'aborto, stroncando così una vita solo perchè non è come la desideriamo. Il titolo non è casuale: il feto perfetto è quello che questa società cerca: ciò significa eliminare l'imperfezione, l'errore genetico; stranamente tutto questo ricorda i tempi del nazismo, quando un folle uomo di nome Adolf Hitler decise che gli ebrei, gli storpi, gli omosessuali, gli handicappati dovevano esser sterminati perchè deboli esseri inferiori, errori della natura che bisognava eliminare. Cosa cambia tra la mentalità nazista e questa tecnica diagnostica? Chi approfondisce vedrà che le differenze vere sono risibili perchè entrambi portano (o meglio, vorrebbero portare) all'eliminazione di ciò che la società ritiene imperfetto. Ma scopriamo di cosa stiamo parlando, attraverso l'articolo di Carlo Bellieni, pubblicato su ilsussidiario.net: 

Quel supermercato della genetica dove si vende il feto "perfetto"
La rivista Nature del 20 gennaio 2011 lancia un grido d’allarme: “Siamo pronti per la inondazione di test genetici?”. Infatti, tra pochi anni sarà disponibile sul mercato un nuovo metodo per eseguire la diagnosi prenatale genetica: non più quella indiretta con valore probabilistico, che si fa con le ecografie e il rilievo di alcuni parametri nel sangue materno - il cosiddetto “triplo-test” o il “quadri-test; neppure andrà più tanto l’amniocentesi, che conta i cromosomi del feto andandoli a prendere dal feto stesso proprio nel pancione materno. Basterà fare un’analisi del sangue della mamma, per sapere non la “probabilità” della malattia fetale, ma la certezza, con l’analisi delle tracce dei cromosomi fetali nel sangue materno.

Ora ci troviamo di fronte a un paradosso: gli stessi media che mai o davvero di rado hanno ammesso che l’amniocentesi porta dei gravi rischi (dieci feti ogni mille amniocentesi muoiono come effetto collaterale, scusate se è poco!), adesso sono lì a raccontarli perché non vedono l’ora di aprire a questa innovazione. Temevano forse che la gente avrebbe pensato che il gioco non valeva la candela?

E c’è un altro paradosso: la diagnosi prenatale genetica finisce per essere uno screening, cioè non una diretta richiesta dell’interessata, ma routine, quasi automatica: chi tra le donne italiane non l’ha fatta nella forma del triplo test, o della misurazione della plica nucale o dell’amniocentesi? E questo è strano, perché uno screening si fa a tutta la popolazione quando c’è una convenienza economica o sociale, cioè una convenienza per lo Stato; ma che convenienza per lo Stato c’è nell’individuare i bambini Down prima della nascita, dato che non c’è terapia e che la maggior parte finisce in aborti?

La rivista Nature lancia un allarme: quando non sarà più così evidente per la complicatezza delle manovre - ad esempio, come nell’amniocentesi -, che si sta facendo un’operazione eticamente delicata, cioè da discutere approfonditamente, che marea di richieste verrà, e quali malattie verranno screenate, cioè ricercate a tappeto, con quello che qualcuno chiama “effetto retata”(Social Science and Medicine, novembre 2005)?
Il problema basilare si era posto anni fa, ma nessuno gli aveva dato importanza: la privacy del feto. Già, perché se di un bambino possiamo conoscere tutti i segreti genetici prima che nasca, un esito può essere che venga abortito; l’altro, che nasca e non abbia più segreti genetici, suo malgrado, cioè che il suo DNA sia pubblico, almeno ai genitori, senza che lui lo abbia richiesto. E i suoi genitori sapranno di cosa si ammalerà, e magari quali saranno le sue predisposizioni, dato che alcune sono legate proprio a tratti genetici. Vi sembra un’intromissione di poco conto, si domandano vari studiosi?

Ma anche fermandosi alle malattie, quali verranno ricercate con questo sistema? Solo quelle gravissime? E chi decide quali sono? E non pensate a come si sentiranno i malati di quelle malattie che vedono che esiste un decreto che impone di andare a cercare “quelli come loro” per non farli nascere, facendoli sentire come degli “sbagli della natura” o almeno come delle “imprudenze dei loro genitori”, comunque facendoli sentire “indesiderati”, fuori posto, dei “clandestini genetici”? Ma se invece si lascia carta bianca, dobbiamo sapere che si apre al supermercato della genetica, in cui chiunque potrà testare (ed eliminare) il figlio per ogni banale affezione, magari senza significato clinico.

Che società è quella che trasforma le donne, violentemente loro malgrado, in “sceriffi genetici”, in guardacoste che vigilano sull’accesso alla vita postnatale, respingendo gli indesiderati? Solo perché (la società) non vuole prendersi la bega di operare un’eugenetica esplicita? Nature spiega che questo sistema di diagnosi genetica può servire “a ridurre la sofferenza”, ma anche essere “un passo verso una regressione eugenetica”. Ma questo è il futuro. Già oggi il ricorso massiccio alla diagnosi genetica prenatale, che non serve a curare, ma a entrare nei segreti del DNA, e che finisce in aborto nella maggior parte dei casi di riscontro di anomalie, è un problema etico di non poco peso: sia per il diritto alla vita, ma anche perché quasi surclassa il diritto delle donne a scegliere, spingendole forzosamente dentro un meccanismo più forte di loro.

FONTE
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mercoledì 30 marzo 2011

Carità e Verità: Caritas in Veritate - XVI

Continuiamo la lettura della nuova Enciclica di Papa Benedetto XVI "Caritas in veritate". Proseguiamo l'analisi del terzo capitolo e vediamo che continua ad essere al centro dell'attenzione il sistema economico mondiale. Il punto su cui si sofferma oggi Benedetto XVI è la globalizzazione: la sua analisi è davvero illuminante perchè ci invita a guardare la globalizzazione non come un pericolo o come qualcosa che non possiamo controllare. Egli è riuscito a vedere laddove molti non vedono e cioè che l'uomo ha la capacità di orientare la globalizzazione nel senso giusto: soprattutto il mondo politico e la comunità internazionale dovranno ascoltare queste parole perchè non si può pensare di restare spettatori inerti dinanzi ai problemi che il processo di globalizzazione sta provocando, come molti esponenti politici vanno affermando continuamente. Seguendo il discorso di Benedetto XVI, c'è la possibilità di guidare questo processo e di orientarlo in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione:

CAPITOLO TERZO

FRATERNITÀ, SVILUPPO ECONOMICO
E SOCIETÀ CIVILE

42. Talvolta nei riguardi della globalizzazione si notano atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana [102]. È bene ricordare a questo proposito che la globalizzazione va senz'altro intesa come un processo socio-economico, ma questa non è l'unica sua dimensione. Sotto il processo più visibile c'è la realtà di un'umanità che diviene sempre più interconnessa; essa è costituita da persone e da popoli a cui quel processo deve essere di utilità e di sviluppo [103], grazie all'assunzione da parte tanto dei singoli quanto della collettività delle rispettive responsabilità. Il superamento dei confini non è solo un fatto materiale, ma anche culturale nelle sue cause e nei suoi effetti. Se si legge deterministicamente la globalizzazione, si perdono i criteri per valutarla ed orientarla. Essa è una realtà umana e può avere a monte vari orientamenti culturali sui quali occorre esercitare il discernimento. La verità della globalizzazione come processo e il suo criterio etico fondamentale sono dati dall'unità della famiglia umana e dal suo sviluppo nel bene. Occorre quindi impegnarsi incessantemente per favorire un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza, del processo di integrazione planetaria.

Nonostante alcune sue dimensioni strutturali che non vanno negate ma nemmeno assolutizzate, « la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno » [104]. Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti, procedendo con ragionevolezza, guidati dalla carità e dalla verità. Opporvisi ciecamente sarebbe un atteggiamento sbagliato, preconcetto, che finirebbe per ignorare un processo contrassegnato anche da aspetti positivi, con il rischio di perdere una grande occasione di inserirsi nelle molteplici opportunità di sviluppo da esso offerte. I processi di globalizzazione, adeguatamente concepiti e gestiti, offrono la possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto; se mal gestiti, possono invece far crescere povertà e disuguaglianza, nonché contagiare con una crisi l'intero mondo. Bisogna correggerne le disfunzioni, anche gravi, che introducono nuove divisioni tra i popoli e dentro i popoli e fare in modo che la ridistribuzione della ricchezza non avvenga con una ridistribuzione della povertà o addirittura con una sua accentuazione, come una cattiva gestione della situazione attuale potrebbe farci temere. Per molto tempo si è pensato che i popoli poveri dovessero rimanere ancorati a un prefissato stadio di sviluppo e dovessero accontentarsi della filantropia dei popoli sviluppati. Contro questa mentalità ha preso posizione Paolo VI nella Populorum progressio. Oggi le forze materiali utilizzabili per far uscire quei popoli dalla miseria sono potenzialmente maggiori di un tempo, ma di esse hanno finito per avvalersi prevalentemente gli stessi popoli dei Paesi sviluppati, che hanno potuto sfruttare meglio il processo di liberalizzazione dei movimenti di capitali e del lavoro. La diffusione delle sfere di benessere a livello mondiale non va, dunque, frenata con progetti egoistici, protezionistici o dettati da interessi particolari. Infatti il coinvolgimento dei Paesi emergenti o in via di sviluppo, permette oggi di meglio gestire la crisi. La transizione insita nel processo di globalizzazione presenta grandi difficoltà e pericoli, che potranno essere superati solo se si saprà prendere coscienza di quell'anima antropologica ed etica, che dal profondo sospinge la globalizzazione stessa verso traguardi di umanizzazione solidale. Purtroppo tale anima è spesso soverchiata e compressa da prospettive etico-culturali di impostazione individualistica e utilitaristica. La globalizzazione è fenomeno multidimensionale e polivalente, che esige di essere colto nella diversità e nell'unità di tutte le sue dimensioni, compresa quella teologica. Ciò consentirà di vivere ed orientare la globalizzazione dell'umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione.


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L'inganno dell'eutanasia legalizzata

Ancora oggi continua un estenuante battaglia da parte di chi vorrebbe una legge per legalizzare il ricorso all'eutanasia. In una società capace di costruirsi una morale al giorno, è facile che si diffondano idee apparentemente giuste, ma che in realtà nascondono un sentore di morte. La vita è un dono prezioso che non può essere manipolato come vogliamo: il caso Englaro ha dimostrato come si possa giustificare un vero e proprio omicidio sulla base della presunzione che l'ammalata voleva morire e questo, oltre ad essere un obbrobrio giuridico, è anche un obbrobrio naturale. Ma c'è di più: sembrerebbe infatti che ci potrebbe essere anche un abuso della pratica d'eutanasia e oggi vogliamo scoprire proprio quest'inganno attraverso un articolo di Giuliano Guzzo, tratto da Libertaepersona.org e pubblicato lo scorso 1 marzo 2011:

Ma il diritto di morire non dovrebbe riguardare, semmai, solo i “casi limite”? Domanda ovvia, si potrebbe rilevare. Il punto è che sono anni che i fautori dell’autodeterminazione ci rassicurano sul fatto che mai e poi mai l’eutanasia, una volta legalizzata, potrebbe sconfinare in abusi, mentre, purtroppo per loro (e per noi), la realtà dice ben altro.

Nella civilissima Olanda, il Rapporto Remmelink, primo rapporto ufficiale commissionato dal Governo sulla “dolce morte”, rivelò che almeno un terzo dei 5.000 pazienti ai quali, già nel lontano ‘91, era stata somministrata la “dolce morte”, non aveva dato alcun esplicito consenso e ben 400 ammalati non avevano neppure accennato alla questione con il loro medico personale. Scusate, e l’autodeterminazione? Dettagli, evidentemente.
Analogamente non si capisce perché si insita nel parlare di “casi limite” per quanto riguarda la possibilità di chiedere di essere aiutati a morire. Non lo si capisce perché basterebbe dare un’occhiata a quel che succede, per dire, nella vicina Svizzera, dove il suicidio assistito è legale e dove, giusto poche settimane fa, Andrè Rieder, uomo di 56 anni afflitto da sindrome maniaco-depressiva, è stato ucciso e pure ripreso, mentre spirava, per un documentario in programma alla televisione svizzera tedesca. Una morte in diretta in piena regola, insomma. Caso limite anche il suo?

Adesso ci mettiamo ad ammazzare i depressi? Sarebbe bene chiarirci su questo punto, perché sono anni che si recano mortalmente in Svizzera persone che, pur non essendo affatto incurabili, vengono aiutate a morire. Un paio di anni fa il quotidiano The Guardian ottenne un elenco di 114 persone inglesi recatesi in terra elvetica per morire: tra queste, alcune erano malate all’addome, altre al fegato, altre ancora di artrite. Di malati terminali, insomma, neppure l’ombra.

E c’è poco di che stupirsi: una volta che s’inizia a discettare del diritto a morire per alcuni, rarissimi “casi limite”, anche se lo si fa in Paesi di proverbiale efficienza come l’Olanda, si finisce inevitabilmente per inaugurare scenari inquietanti. Per diffondere una vera e propria cultura della morte. Se così non fosse non ci si spiegherebbe come mai proprio in Olanda, al St Pieters en Bloklands, un centro anziani di Amerfott, si sia deliberatamente deciso di non rianimare i pazienti al di sopra di 70 anni. Né si potrebbe comprendere come mai si sia affermato, sempre in terra olandese guarda caso, Per volontà propria, un movimento che si batte per chiedere ed ottenere il “suicidio assistito” per quanti, superati i 70 anni, si sentissero “stanchi di vivere”.

La tendenza è talmente grave e crescente che Lucien Israël, luminare francese non credente, osservando gli scenari contemporanei, pochi anni fa, nel corso di un’intervista, ebbe ad avvertire: «Se questa tendenza continua […] gli anziani dovranno difendersi dai giovani. Ma non solo: dovranno anche difendersi da medici e infermieri. Forse si comporteranno come gli anziani olandesi che, oggi, vengono a cercare protezione in Francia e in Italia. Può darsi che un giorno i nostri anziani saranno costretti a cercare rifugio nel Benin» (Contro l’eutanasia, Lindau, Torino 2007, p.86).

Domanda: se anche non credenti come Israel hanno capito e denunciato l’inganno eutanasico, cosa stiamo aspettando a ribellarci contro la "dolce morte"? Perché insistiamo con la tiritera dell’autodeterminazione e ne trascuriamo gli effetti collaterali? E' davvero il caso di ascoltare altre prediche di Roberto Saviano in materia?

E dire che basterebbe volgere lo sguardo nella vicina Svizzera per aprire gli occhi...

Quest'articolo ci ha mostrato cosa potrebbe significare l'introduzione di una legge pro-eutanasia: guardiamoci dunque dall'aver dubbi sull'argomento e soprattutto combattiamo sempre in difesa della vita allontanando da noi ogni cultore della morte facile.
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martedì 29 marzo 2011

Difendere la famiglia

Torniamo a riflettere sul valore della famiglia attraverso le parole del Santo Padre Benedetto XVI. I tempi che stiamo vivendo minano l'integrità della famiglia voluta da Dio, per questo è necessario impegnarsi perché non venga distrutto ciò che il Signore ha creato e posto nell'ordine.


Il seguente articolo è tratto come solito dalla sezione italiana di Radio Vaticana:


Povertà e false ideologie contro la famiglia. Il Papa: non possiamo restare indifferenti



"Non possiamo rimanere indifferenti" di fronte agli attacchi che subisce oggi la famiglia, cellula fondamentale della società: è quanto afferma Benedetto XVI nel messaggio in occasione dell’incontro in corso a Bogotà, in Colombia, dei vescovi responsabili delle Commissioni episcopali della Famiglia e della Vita in America Latina e nei Caraibi. Il servizio di Amedeo Lomonaco:

La famiglia è il “valore più desiderato” dai popoli dell’America Latina. Ma molte famiglie – sottolinea il Santo Padre - soffrono a causa di molteplici "situazioni avverse provocate da rapidi mutamenti culturali, dall’instabilità sociale, dai flussi migratori, dalla povertà, da programmi di educazione che banalizzano la sessualità e da false ideologie". Di fronte ad un simile scenario, "non possiamo rimanere indifferenti". "Nel Vangelo – aggiunge il Papa nel messaggio letto dal cardinale Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia - troviamo la luce per rispondere a queste sfide senza scoraggiarci". Sarà importante, quindi, qualsiasi impegno volto a sostenere la "famiglia, fondata sull’unione indissolubile tra un uomo e una donna", in modo che "svolga la sua missione di cellula viva della società, sorgente di virtù, scuola di convivenza costruttiva e pacifica, strumento di concordia e ambito privilegiato in cui, con gioia e responsabilità, sia accolta e protetta la vita umana dal suo inizio fino alla sua fine naturale”. Si deve anche continuare ad incoraggiare i genitori “nel loro diritto e responsabilità fondamentale di educare le nuove generazioni alla fede e ai valori che nobilitano l’esistenza umana”. Il Papa si dice quindi certo che che la Missione Continentale promossa ad Aparecida possa rilanciare, nei Paesi dell'America Latina e dei Caraibi, la pastorale familiare. Le famiglie cristiane – conclude il Pontefice – sono chiamate ad essere “un vero soggetto di evangelizzazione e di apostolato” e a "prendere coscienza della loro preziosa missione nel mondo".


Intervenendo all’incontro, il cardinale Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, ha ricordato che non si può prescindere dalla formazione, in ogni parrocchia, di un nucleo di famiglie esemplari e consapevoli della loro missione nella Chiesa e nella società civile. Senza queste famiglie - ha sottolineato - non è possibile sviluppare attività incisive nell’educazione all’amore e alla valorizzazione della sessualità, nella preparazione dei fidanzati al matrimonio, nella vicinanza alle convivenze irregolari. E’ necessario – ha concluso il porporato – “che noi come famiglia di Dio siamo uniti, anche in questi giorni, nell’amore reciproco e invochiamo insistentemente nella preghiera il dono dello Spirito Santo per tutte le famiglie dell’America Latina”.
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La questione operaia - Rerum Novarum - Conclusione

Torniamo ad immedesimarci nella questione operaia, attraverso la lettura dell'Enciclica Rerum Rovarum, di Papa Leone XIII. Oggi concludiamo l'analisi di quest'Enciclica che ci ha offerto moltissimi spunti di riflessione in una materia così ardua come quella del lavoro subordinato. Oggi leggiamo l'appello finale di Leone XIII il quale è stato in parte accolto dai nostro Padri Costituenti, ma poi letteralmente inaccolto dai governi che si sono susseguiti, soprattutto dall'ultima parte del Novecento fino ai giorni nostri. Importante è anche il richiamo alla carità definite come regina delle virtù sociali: infatti, solo attraverso un vero spirito caritatevole si può giungere a risolvere un problema così spinoso come quello del lavoro subordinato: al giorno d'oggi tal richiamo va effettuato ai governi, ai dirigenti aziendali, agli imprenditori e a tutti coloro che hanno la possibilità di incidere sul futuro degli operai e dei lavoratori subordinati in generale; c'è bisogno di riscoprire quel senso di solidarietà sorto nel secondo dopoguerra e poi lentamente accantonato per far spazio ad esigenze lucrative e affaristiche. Se vogliamo sconfiggere il precariato e la continua sottrazione di diritti dei lavoratori, c'è bisogno di una grande spinta riformista che coinvolga tutti i settori della società e che tale spinta sia animata da un forte senso di carità e solidarietà, capace di far mettere da parte gli aspetti prettamente lucrativi, pur di venir incontro alle esigenze delle classi subalterne:

CONCLUSIONE 

La carità, regina delle virtù sociali

45. Ecco, venerabili fratelli, da chi e in che modo si debba concorrere alla soluzione di sì arduo problema. Ciascuno faccia la parte che gli spetta e non indugi, perché il ritardo potrebbe rendere più difficile la cura di un male già tanto grave. I governi vi si adoperino con buone leggi e saggi provvedimenti; i capitalisti e padroni abbiano sempre presenti i loro doveri; i proletari, che vi sono direttamente interessati, facciano, nei limiti del giusto, quanto possono; e poiché, come abbiamo detto da principio, il vero e radicale rimedio non può venire che dalla religione, si persuadano tutti quanti della necessità di tornare alla vita cristiana, senza la quale gli stessi argomenti stimati più efficaci, si dimostreranno scarsi al bisogno. Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mancare mai e in nessun modo l'opera sua, la quale tornerà tanto più efficace quanto più sarà libera, e di questo devono persuadersi specialmente coloro che hanno il dovere di provvedere al bene dei popoli. Vi pongano tutta la forza dell'animo e la generosità dello zelo i ministri del santuario; e guidati dall'autorità e dall'esempio vostro, venerabili fratelli, non si stanchino di inculcare a tutte le classi della società le massime del Vangelo; impegnino le loro energie a salvezza dei popoli, e soprattutto alimentino in sé e accendano negli altri, nei grandi e nei piccoli, la carità, signora e regina di tutte le virtù. La salvezza desiderata dev'essere principalmente frutto di una effusione di carità; intendiamo dire quella carità cristiana che compendia in sé tutto il Vangelo e che, pronta sempre a sacrificarsi per il prossimo, è il più sicuro antidoto contro l'orgoglio e l'egoismo del secolo. Già san Paolo ne tratteggiò i lineamenti con quelle parole: La carità è longanime, è benigna; non cerca il suo tornaconto: tutto soffre, tutto sostiene (40). Auspice dei celesti favori e pegno della nostra benevolenza, a ciascuno di voi, venerabili fratelli, al vostro clero e al vostro popolo, con grande affetto nel Signore impartiamo l'apostolica benedizione.

Dato a Roma presso san Pietro, il giorno 15 maggio 1891, anno decimoquarto del nostro pontificato.

LEONE PP. XIII

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lunedì 28 marzo 2011

Un nuovo cammino - La Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica - XVIII

Continua il percorso di studio della Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica: un valore importantissimo e valido per tutti gli uomini di buona volontà, il che lo rende molto trasversale e utile alla causa generale. Oggi ci addentriamo nel secondo paragrafo del Cap. II sulla natura della dottrina sociale, in particolare nel primo sottoparagrafo che tratta la conoscenza illuminata dalla fede:


CAPITOLO SECONDO

MISSIONE DELLA CHIESA E DOTTRINA SOCIALE

II. LA NATURA DELLA DOTTRINA SOCIALE

a) Un conoscere illuminato dalla fede

72 La dottrina sociale non è stata pensata da principio come un sistema organico, ma si è formata nel corso del tempo, attraverso i numerosi interventi del Magistero sui temi sociali. Tale genesi rende comprensibile il fatto che siano potute intervenire alcune oscillazioni circa la natura, il metodo e la struttura epistemologica della dottrina sociale della Chiesa. Preceduto da un significativo accenno nella « Laborem exercens »,100 un chiarimento decisivo in tal senso è contenuto nell'enciclica « Sollicitudo rei socialis »: la dottrina sociale della Chiesa « appartiene... non al campo dell'ideologia, ma della teologia e specialmente della teologia morale ».101 Essa non è definibile secondo parametri socio-economici. Non è un sistema ideologico o prammatico, teso a definire e comporre i rapporti economici, politici e sociali, ma una categoria a sé: essa è « l'accurata formulazione dei risultati di un'attenta riflessione sulle complesse realtà dell'esistenza dell'uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo scopo principale è di interpretare tali realtà, esaminandone la conformità o difformità con le linee dell'insegnamento del Vangelo sull'uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente; per orientare, quindi, il comportamento cristiano ».102

73 La dottrina sociale, pertanto, è di natura teologica, e specificamente teologico-morale, « trattandosi di una dottrina indirizzata a guidare la condotta delle persone »: 103 « Essa si situa all'incrocio della vita e della coscienza cristiana con le situazioni del mondo e si manifesta negli sforzi che singoli, famiglie, operatori culturali e sociali, politici e uomini di Stato mettono in atto per darle forma e applicazione nella storia ».104 La dottrina sociale riflette, di fatto, i tre livelli dell'insegnamento teologico-morale: quello fondativo delle motivazioni; quello direttivo delle norme del vivere sociale; quello deliberativo delle coscienze, chiamate a mediare le norme oggettive e generali nelle concrete e particolari situazioni sociali. Questi tre livelli definiscono implicitamente anche il metodo proprio e la specifica struttura epistemologica della dottrina sociale della Chiesa.

74 La dottrina sociale trova il suo fondamento essenziale nella Rivelazione biblica e nella Tradizione della Chiesa. A questa sorgente, che viene dall'alto, essa attinge l'ispirazione e la luce per comprendere, giudicare e orientare l'esperienza umana e la storia. Prima e al di sopra di tutto sta il progetto di Dio sul creato e, in particolare, sulla vita e sul destino dell'uomo chiamato alla comunione trinitaria.

La fede, che accoglie la parola divina e la mette in pratica, interagisce efficacemente con la ragione. L'intelligenza della fede, in particolare della fede orientata alla prassi, è strutturata dalla ragione e si avvale di tutti i contributi che questa le offre. Anche la dottrina sociale, in quanto sapere applicato alla contingenza e alla storicità della prassi, coniuga insieme « fides et ratio » 105 ed è espressione eloquente del loro fecondo rapporto.

75 La fede e la ragione costituiscono le due vie conoscitive della dottrina sociale, essendo due le fonti alle quali essa attinge: la Rivelazione e la natura umana. Il conoscere della fede comprende e dirige il vissuto dell'uomo nella luce del mistero storico-salvifico, del rivelarsi e donarsi di Dio in Cristo per noi uomini. Questa intelligenza della fede include la ragione, mediante la quale essa, per quanto possibile, spiega e comprende la verità rivelata e la integra con la verità della natura umana, attinta al progetto divino espresso dalla creazione,106 ossia la verità integrale della persona in quanto essere spirituale e corporeo, in relazione con Dio, con gli altri esseri umani e con le altre creature.107

La centratura sul mistero di Cristo, pertanto, non indebolisce o esclude il ruolo della ragione e perciò non priva la dottrina sociale di plausibilità razionale e, quindi, della sua destinazione universale. Poiché il mistero di Cristo illumina il mistero dell'uomo, la ragione dà pienezza di senso alla comprensione della dignità umana e delle esigenze morali che la tutelano. La dottrina sociale è un conoscere illuminato dalla fede, che — proprio perché tale — esprime una maggiore capacità di conoscenza. Essa dà ragione a tutti delle verità che afferma e dei doveri che comporta: può trovare accoglienza e condivisione da parte di tutti.
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Il sogno di Asia Bibi

Continuiamo a parlare della nostra carissima sorella cristiana Asia Bibi la quale si trova in questo momento in carcere senza aver commesso crimini, ma solo per aver parlato secondo verità, una verità scomoda per gli estremisti islamici, accecati da un odio ingiustificato. Attraverso un articolo di Radio Vaticana, leggiamo la speranza, il sogno, l'esempio di questa grande donna di fede che nonostante tutto continua ad aver fiducia in Gesù Cristo.


Al termine dell'articolo tratto della sezione italiana di Radio Vaticana, pubblichiamo una nostra preghiera per la liberazione della nostra sorella Asia Bibi.


Pakistan. Appello di Asia Bibi: “sogno di incontrare il Papa”


Dal carcere di Sheikupura, dove è rinchiusa in cella di isolamento, Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte per blasfemia, lancia al mondo un appello per realizzare un sogno: quello di incontrare il Papa. Asia, come confida all’agenzia Fides il marito Ashiq, che l’ha visitata di recente, si trova in condizioni di estrema prostrazione fisica e psicologica. Ashiq e gli avvocati della “Masihi Foundation”, che si occupano del caso, temono per la sua salute, aggravata dal digiuno quaresimale che, per ragioni spirituali, la donna sta portando avanti “con coscienza e convinzione”. “Un incontro con il Papa sarebbe per lei come una Risurrezione, dopo la dolorosa esperienza della croce”, spiegano alla “Masihi Foundation”. “Sono frustrata e penso che la mia vita sia ad un punto morto. Sto disperatamente aspettando di uscire da questa prigione e voglio chiedere aiuto a tutti perché facciano qualcosa per liberarmi” ha detto Asia, che è molto preoccupata per la sua famiglia: “Ho paura per la mia vita, per quella dei miei figli e di mio marito, che stanno soffrendo con me: mi sento come se la mia intera famiglia fosse stata condannata. Questo mi rende triste e mi fa sentire come se fossi responsabile, come se avessi fallito in qualcosa. Le donne in questo mondo sono chiamate a costruire una casa, un futuro, insieme alle loro famiglie. Ma io che futuro posso promettere alla mia famiglia? Vorrei offrire loro una vita più sicura in un posto qualunque che non sia il Pakistan. Ma so che forse non vivrò abbastanza per vedere quel giorno. Anche se io uscissi di prigione, se pure l’Alta Corte mi giudicasse innocente, qui non sopravviverei. Gli estremisti non ci lasceranno mai in pace: sono una donna segnata. Ma la mia fede è forte e credo che Dio misericordioso risponderà alle mie preghiere”. Dopo la morte di Salman Taseer e di Shahbaz Bhatti, la donna dice di essere sotto choc e di passare molte notti insonni, temendo che lei stessa o altre persone (come i suoi familiari o i suoi legali) possano diventare bersaglio degli estremisti. Asia ricorda che “la legge sulla blasfemia dovrebbe essere abolita, perché nuoce a tutti, cristiani e musulmani. Nessuno sarà al sicuro in Pakistan finchè questa legge sarà in vigore. Io sono una vittima innocente di questa legge: soffro senza aver commesso nessun crimine”. Un barlume di speranza nei suoi occhi si accende quando parla del Papa: “Il mio sogno più grande è quello di incontrare Benedetto XVI. La ‘Masihi Foundation’ mi ha detto che il Santo Padre ha parlato di me: questo mi ha dato una grande speranza, mi ha spinto a continuare a vivere, mi ha fatto sentire amata, consolata e sostenuta dal mondo intero. E’ un privilegio sapere che il Papa ha parlato per me e che segue il mio caso personalmente. Vorrei vivere abbastanza per vedere il giorno in cui potrò incontrarlo e ringraziarlo di persona”. (R.P.)

Oh amatissimo nostro
Redentore Gesù Cristo
che un tempo prodigiosamente
liberasti dal carcere
il Tuo Santo Apostolo Pietro
per mezzo di un Tuo fedele angelo,
Ti preghiamo ora con fede
di liberare la nostra
innocente sorella Asia Bibi
dalla prigione dell'odio ingiustificato
e fa che, una volta libera,
possa annunziare
con ardente fede
il Tuo lieto annunzio
nel mondo.
Te lo chiediamo
attraverso l'intercessione
della
Beata sempre Vergine Maria,
Tua e nostra Madre
e del Santo Apostolo Pietro che ben
ha conosciuto il patire della prigione.

Così sia.
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domenica 27 marzo 2011

Il punto della settimana: il Papa e il lavoro

Sfruttiamo il punto della settimana di questa settimana per presentarvi il discorso integrale di Papa Benedetto XVI il quale ha ricevuto, ieri mattina, in Aula Paolo VI i lavoratori della città di Terni cogliendo questa occasione per parlare del lavoro e della crisi presente nella nostra società. Nell'Osservatorio ieri ne abbiamo visto le linee fondamentali, ma oggi lo presentiamo in via integrale: è un occasione per riflettere sui temi più delicati del nostro tempo e cioè il lavoro e l'enorme precarietà che oggi lo contraddistingue, sperando che anche la politica decida di affrontare questo problema invece di puntare l'attenzione su questioni che non riguardano la collettività come la riforma della giustizia pensata e creata solo per salvare pochi e per condannare i magistrati rei di aver indagato sulla politica...:


DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
AI PARTECIPANTI AL PELLEGRINAGGIO DELLA DIOCESI
DI TERNI-NARNI-AMELIA NEL 30° ANNIVERSARIO DELLA VISITA
DEL PAPA GIOVANNI PAOLO II ALLE ACCIAIERIE DELLA CITTÀ


Aula Paolo VI
Sabato, 26 marzo 2011

Cari fratelli e sorelle,

sono molto lieto di accogliervi questa mattina e di rivolgere il mio cordiale saluto alle autorità presenti, alle lavoratrici e ai lavoratori e a voi tutti che siete venuti pellegrini alla sede di Pietro. Un saluto particolare al vostro Vescovo, Mons. Vincenzo Paglia, che ringrazio per le parole rivoltemi anche a nome vostro. Siete venuti numerosi a questo incontro - mi dispiace che alcuni non siano più potuti entrare -, cogliendo l’occasione del trentesimo anniversario della visita di Giovanni Paolo II a Terni. Oggi, vogliamo ricordarlo in maniera speciale per l’amore che mostrò per il mondo del lavoro; quasi lo sentiamo ripetere le prime parole che pronunciò appena giunto a Terni: “Scopo precipuo di questa visita, che si svolge nel giorno di San Giuseppe … è di portare una parola di incoraggiamento a tutti i lavoratori ed esprimere loro la mia solidarietà, la mia amicizia e il mio affetto” (Discorso alle autorità, Terni, 19 marzo 1981). Faccio miei questi sentimenti, e di cuore abbraccio tutti voi e le vostre famiglie. Nel giorno della mia elezione, mi sono presentato anch’io con convinzione come un “umile lavoratore nella vigna del Signore”, ed oggi, assieme a voi, vorrei ricordare tutti i lavoratori e affidarli alla protezione di san Giuseppe lavoratore.

Terni è segnata dalla presenza di una delle più grandi fabbriche dell’acciaio, che ha contribuito alla crescita di una significativa realtà operaia. Un cammino segnato da luci, ma anche da momenti difficili, come quello che stiamo vivendo oggi. La crisi dell’assetto industriale sta mettendo a dura prova la vita della Città, che deve ripensare il suo futuro. In tutto questo viene coinvolta anche la vostra vita di lavoratori e quella delle vostre famiglie. Nelle parole del vostro Vescovo ho sentito l’eco delle preoccupazioni che portate nel cuore. So che la Chiesa diocesana le fa sue e sente la responsabilità di esservi accanto per comunicarvi la speranza del Vangelo e la forza per edificare una società più giusta e più degna dell’uomo. E lo fa a partire dalla sorgente, dall’Eucaristia. Nella sua prima lettera pastorale, L’Eucaristia salva il mondo, il vostro Vescovo vi ha indicato quale è la sorgente da cui attingere e a cui tornare per vivere la gioia della fede e la passione per migliorare il mondo. L’Eucaristia della Domenica è diventata così il fulcro dell’azione pastorale della Diocesi. E’ una scelta che ha portato i suoi frutti; è cresciuta la partecipazione all’Eucarestia domenicale, dalla quale parte l’impegno della Diocesi per il cammino della vostra Terra. Dall’Eucaristia, infatti, in cui Cristo si rende presente nel suo atto supremo di amore per tutti noi, impariamo ad abitare da cristiani la società, per renderla più accogliente, più solidale, più attenta ai bisogni di tutti, particolarmente dei più deboli, più ricca di amore. Sant’Ignazio di Antiochia, vescovo e martire, definiva i cristiani coloro che “vivono secondo la Domenica” (iuxta dominicum viventes), ossia “secondo l’Eucaristia”. Vivere in maniera “eucaristica” significa vivere come un unico Corpo, un’unica famiglia, una società compaginata dall’amore. L’esortazione ad essere “eucaristici” non è un semplice invito morale rivolto a singoli individui, ma è molto di più: è l’esortazione a partecipare al dinamismo stesso di Gesù che offre la sua vita per gli altri, perché tutti siano una cosa sola.

In questo orizzonte si colloca anche il tema del lavoro, che oggi vi preoccupa, con i suoi problemi, soprattutto quello della disoccupazione. E’ importante tenere sempre presente che il lavoro è uno degli elementi fondamentali sia della persona umana, che della società. Le difficili o precarie condizioni del lavoro rendono difficili e precarie le condizioni della società stessa, le condizioni di un vivere ordinato secondo le esigenze del bene comune. Nell’Enciclica Caritas in veritate - come ricordava Mons. Paglia - ho esortato a non lasciare di “perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti” (n. 32). Vorrei ricordare anche il grave problema della sicurezza sul lavoro. So che più volte avete dovuto affrontare anche questa tragica realtà. Occorre mettere in campo ogni sforzo perché la catena delle morti e degli incidenti venga spezzata. E che dire poi della precarietà del lavoro, soprattutto quando riguarda il mondo giovanile? E’ un aspetto che non manca di creare angoscia in tante famiglie! Il Vescovo accennava anche alla difficile situazione dell’industria chimica della vostra Città, come pure ai problemi nel settore siderurgico. Vi sono particolarmente vicino, mettendo nelle mani di Dio tutte le vostre ansie e preoccupazioni, e auspico che, nella logica della gratuità e della solidarietà, si possano superare questi momenti, affinché sia assicurato un lavoro sicuro, dignitoso e stabile.

Il lavoro, cari amici, aiuta ad essere più vicini a Dio e agli altri. Gesù stesso è stato lavoratore, anzi ha passato buona parte della sua vita terrena a Nazaret, nella bottega di Giuseppe. L’evangelista Matteo ricorda che la gente parlava di Gesù come del “figlio del falegname” (Mt 13,55) e Giovanni Paolo II a Terni parlò del “Vangelo del lavoro”, affermando che era “scritto soprattutto dal fatto che il Figlio di Dio, diventando uomo, ha lavorato con le proprie mani. Anzi, il suo lavoro, che è stato un vero lavoro fisico, ha occupato la maggior parte della sua vita su questa terra, ed è così entrato nell’opera della redenzione dell’uomo e del mondo” (Discorso ai lavoratori, Terni, 19 marzo 1981). Già questo ci parla della dignità del lavoro, anzi della dignità specifica del lavoro umano che viene inserito nel mistero stesso della redenzione. E’ importante comprenderlo in questa prospettiva cristiana. Spesso, invece, viene visto solo come strumento di guadagno, se non addirittura, in varie situazioni nel mondo, come mezzo di sfruttamento e quindi di offesa alla stessa dignità della persona. Vorrei accennare pure al problema del lavoro nella Domenica. Purtroppo nelle nostre società il ritmo del consumo rischia di rubarci anche il senso della festa e della Domenica come giorno del Signore e della comunità.

Cari lavoratori e lavoratrici, cari amici tutti, vorrei terminare queste mie brevi parole dicendovi che la Chiesa sostiene, conforta, incoraggia ogni sforzo diretto a garantire a tutti un lavoro sicuro, dignitoso e stabile. Il Papa vi è vicino, è accanto alle vostre famiglie, ai vostri bambini, ai vostri giovani, ai vostri anziani e vi porta tutti nel cuore davanti a Dio. Il Signore benedica voi, il vostro lavoro e il vostro futuro. Grazie.

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Il Papa alle Fosse Ardeatine: "Qui gravissima offesa a Dio"

Il 24 marzo 1944 la ferocia nazista provocò 335 vittime civili e militari italiani, come atto di rappresaglia in seguito a un attacco partigiano contro le truppe germaniche avvenuto il giorno prima in via Rasella. Per la sua efferatezza, l'alto numero di vittime, e per le tragiche circostanze che portarono al suo compimento, è diventato l'evento simbolo della rappresaglia nazista durante il periodo dell'occupazione. 
C'è bisogno sempre di ricordare questi drammatici eventi perchè dobbiamo dimostrare al mondo e soprattutto alle giovani generazioni, che l'odio umano può condurre a compiere atti orribili, veri e propri genocidi per cui non ci sono davvero parole. In queste occasioni, è difficile esprimere un pensiero che non sia scontato, ma la scontatezza di questi pensieri è proprio ciò che può portare l'uomo a riflettere su ciò che può compiere se da ascolto alla violenza e all'odio. Infatti, noi viviamo in un mondo che evolve velocemente: ma quest'evoluzione comporta non solo un progresso, ma anche un regresso dal punto di vista della memoria e soprattutto del concetto di moralità. Per questo, anno dopo anno, bisogna ricordare il passato per fare in modo che non nasca nuovamente un'immoralità giustificata come quella di hitleriana memoria.
In questa mattina quaresimale, il nostro amato Papa Benedetto XVI ha voluto rendere omaggio al ricordo di tutte queste vittime, soffermandosi proprio sulla ferocia umana considerata una gravissima offesa a Dio:

Cari fratelli e sorelle!

Molto volentieri ho accolto l’invito dell’“Associazione Nazionale tra le Famiglie Italiane dei Martiri caduti per la libertà della Patria” a compiere un pellegrinaggio a questo sacrario, caro a tutti gli italiani, particolarmente al popolo romano. Saluto il Cardinale Vicario, il Rabbino Capo, il Presidente dell’Associazione, il Commissario Generale, il Direttore del Mausoleo e, in modo speciale, i familiari delle vittime, come pure tutti i presenti.

“Credo in Dio e nell’Italia / credo nella risurrezione / dei martiri e degli eroi / credo nella rinascita / della patria e nella / libertà del popolo”. Queste parole sono state incise sulla parete di una cella di tortura, in Via Tasso, a Roma, durante l’occupazione nazista. Sono il testamento di una persona ignota, che in quella cella fu imprigionata, e dimostrano che lo spirito umano rimane libero anche nelle condizioni più dure. “Credo in Dio e nell’Italia”: questa espressione mi ha colpito anche perché quest’anno ricorre il 150° anniversario dell’unità d’Italia, ma soprattutto perché afferma il primato della fede, dalla quale attingere la fiducia e la speranza per l’Italia e per il suo futuro. Ciò che qui è avvenuto il 24 marzo 1944 è offesa gravissima a Dio, perché è la violenza deliberata dell’uomo sull’uomo. E’ l’effetto più esecrabile della guerra, di ogni guerra, mentre Dio è vita, pace, comunione.

Come i miei Predecessori, sono venuto qui a pregare e a rinnovare la memoria. Sono venuto ad invocare la divina Misericordia, che sola può colmare i vuoti, le voragini aperte dagli uomini quando, spinti dalla cieca violenza, rinnegano la propria dignità di figli di Dio e fratelli tra loro. Anch’io, come Vescovo di Roma, città consacrata dal sangue dei martiri del Vangelo dell’Amore, vengo a rendere omaggio a questi fratelli, uccisi a poca distanza dalle antiche catacombe.

“Credo in Dio e nell’Italia”. In quel testamento inciso in un luogo di violenza e di morte, il legame tra la fede e l’amore della patria appare in tutta la sua purezza, senza alcuna retorica. Chi ha scritto quelle parole l’ha fatto solo per intima convinzione, come estrema testimonianza alla verità creduta, che rende regale l’animo umano anche nell’estremo abbassamento. Ogni uomo è chiamato a realizzare in questo modo la propria dignità: testimoniando quella verità che riconosce con la propria coscienza.

Un’altra testimonianza mi ha colpito, e questa fu ritrovata proprio nelle Fosse Ardeatine. Un foglio di carta su cui un caduto aveva scritto: “Dio mio grande Padre, noi ti preghiamo affinché tu possa proteggere gli ebrei dalle barbare persecuzioni. 1 Pater noster, 10 Ave Maria, 1 Gloria Patri”. In quel momento così tragico, così disumano, nel cuore di quella persona c’era l’invocazione più alta: “Dio mio grande Padre”. Padre di tutti! Come sulle labbra di Gesù, morente sulla croce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. In quel nome, “Padre”, c’è la garanzia sicura della speranza; la possibilità di un futuro diverso, libero dall’odio e dalla vendetta, un futuro di libertà e di fraternità, per Roma, l’Italia, l’Europa, il mondo. Sì, dovunque sia, in ogni continente, a qualunque popolo appartenga, l’uomo è figlio di quel Padre che è nei cieli, è fratello di tutti in umanità. Ma questo essere figlio e fratello non è scontato. Lo dimostrano purtroppo anche le Fosse Ardeatine. Bisogna volerlo, bisogna dire sì al bene e no al male. Bisogna credere nel Dio dell’amore e della vita, e rigettare ogni altra falsa immagine divina, che tradisce il suo santo Nome e tradisce di conseguenza l’uomo, fatto a sua immagine.

Perciò, in questo luogo, doloroso memoriale del male più orrendo, la risposta più vera è quella di prendersi per mano, come fratelli, e dire: Padre nostro, noi crediamo in Te, e con la forza del tuo amore vogliamo camminare insieme, in pace, a Roma, in Italia, in Europa, nel mondo intero. Amen.

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sabato 26 marzo 2011

La Chiesa nel mondo contemporaneo - XV parte

Continuiamo il nostro cammino di lettura della Costituzione Pastorale "Gaudiem et spes" di Papa Paolo VI. Continuiamo il secondo capitolo del documento dove Paolo VI si sofferma sulla dimensione comunitaria dell'uomo nel progetto di Dio: anche stavolta, infatti, Paolo VI sottolinea la natura comunitaria dell'uomo il quale è stato creato da Dio non per vivere individualmente, ma in maniera comunitaria. Tutto questo porta come conseguenza che dobbiamo esser solidali: essendo stati creati come comunità, abbiamo dei rpecisi obbigli vicendevoli e tra questi rientra la solidarietà umana. Se un uomo ha bisogno, il resto degli uomini interviene per curare quel bisogno; se un uomo è in difficoltà, il resto degli uomini interviene per aiutarlo. Nomadelfia è stata ad esempio fondata da Don Zeno proprio su questo presupposto: in quella comunità non ci sono persone abbandonate o sole nell'affrontare le difficoltà, ma il problema di uno diviene problema di tutti. E così deve essere l'umanità intera: dunque c'è bisogno di abbattere i muri che si sono sollevati tra di noi e dobbiamo esser solidali gli uni nei confronti degli altri, come specificato da Paolo VI con queste parole:

CAPITOLO II

LA COMUNITÀ DEGLI UOMINI

32. Il Verbo incarnato e la solidarietà umana.

Come Dio creò gli uomini non perché vivessero individualisticamente, ma perché si unissero in società, così a lui anche «... piacque santificare e salvare gli uomini non a uno a uno, fuori di ogni mutuo legame, ma volle costituirli in popolo, che lo conoscesse nella verità e santamente lo servisse » (55). Sin dall'inizio della storia della salvezza, egli stesso ha scelto degli uomini, non soltanto come individui ma come membri di una certa comunità Infatti questi eletti Dio, manifestando il suo disegno, chiamò a suo popolo» (Es3,7). Con questo popolo poi strinse il patto sul Sinai (56).

Tale carattere comunitario è perfezionato e compiuto dall'opera di Cristo Gesù.

Lo stesso Verbo incarnato volle essere partecipe della solidarietà umana.

Prese parte alle nozze di Cana, entrò nella casa di Zaccheo, mangiò con i pubblicani e i peccatori.

Ha rivelato l'amore del Padre e la magnifica vocazione degli uomini ricordando gli aspetti più ordinari della vita sociale e adoperando linguaggio e immagini della vita d'ogni giorno.

Santificò le relazioni umane, innanzitutto quelle familiari, dalle quali trae origine la vita sociale.

Si sottomise volontariamente alle leggi della sua patria. Volle condurre la vita di un artigiano del suo tempo e della sua regione. Nella sua predicazione ha chiaramente affermato che i figli di Dio hanno l'obbligo di trattarsi vicendevolmente come fratelli.

Nella sua preghiera chiese che tutti i suoi discepoli fossero una « cosa sola ».

Anzi egli stesso si offrì per tutti fino alla morte, lui il redentore di tutti. « Nessuno ha maggior amore di chi sacrifica la propria vita per i suoi amici » (Gv15,13).

Comandò inoltre agli apostoli di annunciare il messaggio evangelico a tutte le genti, perché il genere umano diventasse la famiglia di Dio, nella quale la pienezza della legge fosse l'amore. Primogenito tra molti fratelli, dopo la sua morte e risurrezione ha istituito attraverso il dono del suo Spirito una nuova comunione fraterna fra tutti coloro che l'accolgono con la fede e la carità: essa si realizza nel suo corpo, che è la Chiesa.

In questo corpo tutti, membri tra di loro, si debbono prestare servizi reciproci, secondo i doni diversi loro concessi. Questa solidarietà dovrà sempre essere accresciuta, fino a quel giorno in cui sarà consumata; in quel giorno gli uomini, salvati dalla grazia, renderanno gloria perfetta a Dio, come famiglia amata da Dio e da Cristo, loro fratello.


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Il Papa: la Chiesa sostiene ogni sforzo per garantire un lavoro sicuro e dignitoso

Papa Benedetto questa mattina ha ricevuto in Aula Paolo VI i lavoratori della città di Terni cogliendo questa occasione per parlare del lavoro e della crisi presente nella nostra società. Vi invitiamo a leggere le parole del Santo Padre attraverso l'articolo di Radio Vaticana poiché mostra come il Papa è vicino assieme alle nostre sofferenze. Inoltre ci parla del lavoro non come una fredda macchina di guadagno, ma come parte del mistero della redenzione.


Il Papa ai lavoratori di Terni: la Chiesa sostiene ogni sforzo per garantire un lavoro sicuro e dignitoso


Un appassionato discorso sulla prospettiva cristiana del lavoro: è quello pronunciato stamani da Benedetto XVI in un’Aula Paolo VI gremita, che ha accolto gli 8 mila partecipanti al Pellegrinaggio della diocesi di Terni-Narni-Amelia, nel 30.mo anniversario della visita di Giovanni Paolo II alle Acciaierie della città. Il Papa ha affrontato il tema della disoccupazione, della precarietà giovanile e, ancora, della piaga degli infortuni sul lavoro. Quindi, ha ribadito che la Domenica deve rimanere il giorno dedicato al Signore e non al consumo. L’indirizzo d’omaggio al Papa è stato rivolto dal vescovo di Terni, Vincenzo Paglia. Il servizio di Alessandro Gisotti:

La Chiesa “sostiene, conforta, incoraggia ogni sforzo diretto a garantire a tutti un lavoro sicuro, dignitoso e stabile”: è quanto ribadito da Benedetto XVI che, parlando ai lavoratori della diocesi di Terni, ha innanzitutto rammentato come anche lui, nel giorno della sua elezione, si presentò come “un umile lavoratore nella vigna del Signore”. Quindi, ricordando l’amore mostrato da Giovanni Paolo II per Terni e il mondo del lavoro, si è soffermato sulla crisi dell’assetto industriale, che sta mettendo a dura prova la comunità ternana:


“E’ importante tenere sempre presente che il lavoro è uno degli elementi fondamentali sia della persona umana, che della società. Le difficili o precarie condizioni del lavoro rendono difficili e precarie le condizioni della società stessa, le condizioni di un vivere ordinato secondo le esigenze del bene comune”.


Il Papa ha espresso la sua vicinanza alle famiglie che vivono con ansia e preoccupazione questo momento di crisi alle prese con disoccupazione e precarietà. Né ha mancato di riferirsi al grave problema della sicurezza sul lavoro:


“So che più volte avete dovuto affrontare anche questa tragica realtà. Occorre mettere in campo ogni sforzo perché la catena delle morti e degli incidenti venga spezzata. E che dire poi della precarietà del lavoro, soprattutto quando riguarda il mondo giovanile? E’ un aspetto che non manca di creare angoscia in tante famiglie!”


Ha così auspicato che “nella logica della gratuità e della solidarietà” si possa superare la crisi economica ed “assicurare un lavoro” rispettoso della persona. Il lavoro, ha soggiunto, “aiuta ad essere più vicini a Dio e agli altri”. Gesù stesso, ha rammentato il Papa, “è stato un lavoratore, anzi ha passato buona parte della sua vita terrena a Nazaret nella bottega di Giuseppe”. Già questo, è stata la riflessione del Papa, “ci parla della dignità” del lavoro umano, “che viene inserito nel mistero stesso della redenzione”:


“Spesso, invece, viene visto solo come strumento di guadagno, se non addirittura, in varie situazioni nel mondo, come mezzo di sfruttamento e quindi di offesa alla stessa dignità della persona. Vorrei accennare pure al problema del lavoro nella Domenica. Purtroppo nelle nostre società il ritmo del consumo rischia di rubarci anche il senso della festa e della Domenica come giorno del Signore e della comunità”. 


Il Papa ha, quindi, rivolto il pensiero all’Eucaristia, fulcro dell’azione pastorale della diocesi ternana. Ha così invitato i fedeli a vivere in maniera eucaristica, come un “unico Corpo, un’unica famiglia”. L’Eucaristia, ha ribadito, è “forza per edificare una società più giusta e più degna dell’uomo”:


“Dall’Eucaristia, infatti, in cui Cristo si rende presente nel suo atto supremo di amore per tutti noi, impariamo ad abitare da cristiani la società, per renderla più accogliente, più solidale, più attenta ai bisogni di tutti, particolarmente dei più deboli, più ricca di amore”.
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venerdì 25 marzo 2011

La libertà religiosa: Dignitatis Humanae - VIII

Torna l'appuntamento settimanale con la Dignitatis Humanae: un documento sulla libertà religiosa, redatto da Paolo VI. Oggi guardiamo la libertà religiosa in relazione alla Chiesa Cattolica, la quale abbisogna di indipendenza e libertà come autorità spirituale in modo da poter agire nel mondo al fine di perseguire la Sua Alta Missione. Dunque i vari Stati devono lasciare la possibilità alla Chiesa di poter evangelizzare e di poter svolgere in sostanza la sua missione senza interferenze o ostacoli di vario genere (cosa che in passato è avvenuta soprattutto nei Paesi sovietici mentre oggi ancora persiste soprattutto nel mondo orientale):

II.

LA LIBERTÀ RELIGIOSA ALLA LUCE DELLA RIVELAZIONE
 
La Chiesa segue le tracce di Cristo e degli apostoli

12. La Chiesa pertanto, fedele alla verità evangelica, segue la via di Cristo e degli apostoli quando riconosce come rispondente alla dignità dell'uomo e alla rivelazione di Dio il principio della libertà religiosa e la favorisce. Essa ha custodito e tramandato nel decorso dei secoli la dottrina ricevuta da Cristo e dagli apostoli. E quantunque nella vita del popolo di Dio, pellegrinante attraverso le vicissitudini della storia umana, di quando in quando si siano avuti modi di agire meno conformi allo spirito evangelico, anzi ad esso contrari, tuttavia la dottrina della Chiesa, secondo la quale nessuno può essere costretto con la forza ad abbracciare la fede, non è mai venuta meno.

Il fermento evangelico ha pure lungamente operato nell'animo degli esseri umani e molto ha contribuito perché gli uomini lungo i tempi riconoscessero più largamente e meglio la dignità della propria persona e maturasse la convinzione che la persona nella società deve essere immune da ogni umana coercizione in materia religiosa.

La libertà della Chiesa

13. Fra le cose che appartengono al bene della Chiesa, anzi al bene della stessa città terrena, e che vanno ovunque e sempre conservate e difese da ogni ingiuria, è certamente di altissimo valore la seguente: che la Chiesa nell'agire goda di tanta libertà quanta le è necessaria per provvedere alla salvezza degli esseri umani (32). È questa, infatti, la libertà sacra, di cui l'unigenito Figlio di Dio ha arricchito la Chiesa acquistata con il suo sangue. Ed è propria della Chiesa, tanto che quanti l'impugnano agiscono contro la volontà di Dio. La libertà della Chiesa è principio fondamentale nelle relazioni fra la Chiesa e i poteri pubblici e tutto l'ordinamento giuridico della società Civile.

Nella società umana e dinanzi a qualsivoglia pubblico potere, la Chiesa rivendica a sé la libertà come autorità spirituale, fondata da Cristo Signore, alla quale per mandato divino incombe l'obbligo di andare nel mondo universo a predicare il Vangelo ad ogni creatura (33). Parimenti, la Chiesa rivendica a sé la libertà in quanto è una comunità di esseri umani che hanno il diritto di vivere nella società civile secondo i precetti della fede cristiana (34).

Ora, se vige un regime di libertà religiosa non solo proclamato a parole né solo sancito nelle leggi, ma con sincerità tradotto realmente nella vita, in tal caso la Chiesa, di diritto e di fatto, usufruisce di una condizione stabile per l'indipendenza necessaria all'adempimento della sua divina missione: indipendenza nella società, che le autorità ecclesiastiche hanno sempre più vigorosamente rivendicato (35). Nello stesso tempo i cristiani, come gli altri uomini godono del diritto civile di non essere impediti di vivere secondo la propria coscienza. Vi è quindi concordia fra la libertà della Chiesa e la libertà religiosa che deve essere riconosciuta come un diritto a tutti gli esseri umani e a tutte le comunità e che deve essere sancita nell'ordinamento giuridico delle società civili.

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L'ultima parola sul male della storia umana è della Misericordia di Dio

Oggi siamo lieti di proporvi il discorso integrale di Papa Benedetto XVI, rivolto ai partecipanti al corso promosso dalla Penitenzieria Apostolica. SI tratta di un discorso molto bello che si sofferma sull'importanza fondamentale e vitale della Misericordia di Dio e del Sacramento della Riconciliazione: 

DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
AI PARTECIPANTI AL CORSO PROMOSSO
DALLA PENITENZIERIA APOSTOLICA

Aula delle Benedizioni
Venerdì, 25 marzo 2011

Cari amici,

sono molto lieto di rivolgere a ciascuno di voi il più cordiale benvenuto. Saluto il Cardinale Fortunato Baldelli, Penitenziere Maggiore, e lo ringrazio per le cortesi parole che mi ha indirizzato. Saluto il Reggente della Penitenzieria, Mons. Gianfranco Girotti, il personale, i collaboratori e tutti i partecipanti al Corso sul Foro Interno, che è diventato ormai un appuntamento tradizionale e un’importante occasione per approfondire i temi riguardanti il Sacramento della Penitenza.

Desidero soffermarmi con voi su un aspetto talora non sufficientemente considerato, ma di grande rilevanza spirituale e pastorale: il valore pedagogico della Confessione sacramentale. Se è vero che è sempre necessario salvaguardare l’oggettività degli effetti del Sacramento e la sua corretta celebrazione secondo le norme del Rito della Penitenza, non è fuori luogo riflettere su quanto esso possa educare la fede, sia del ministro, sia del penitente. La fedele e generosa disponibilità dei sacerdoti all’ascolto delle confessioni, sull’esempio dei grandi Santi della storia, da san Giovanni Maria Vianney a san Giovanni Bosco, da san Josemaría Escrivá a san Pio da Pietrelcina, da san Giuseppe Cafasso a san Leopoldo Mandić, indica a tutti noi come il confessionale possa essere un reale “luogo” di santificazione.

In che modo il Sacramento della Penitenza educa? In quale senso la sua celebrazione ha un valore pedagogico, innanzitutto per i ministri? Potremmo partire dal riconoscere che la missione sacerdotale costituisce un punto di osservazione unico e privilegiato, dal quale, quotidianamente, è dato di contemplare lo splendore della Misericordia divina. Quante volte nella celebrazione del Sacramento della Penitenza, il sacerdote assiste a veri e propri miracoli di conversione, che, rinnovando l’“incontro con un avvenimento, una Persona” (Lett. enc. Deus caritas est, 1), rafforzano la sua stessa fede. In fondo, confessare significa assistere a tante “professiones fidei” quanti sono i penitenti, e contemplare l’azione di Dio misericordioso nella storia, toccare con mano gli effetti salvifici della Croce e della Risurrezione di Cristo, in ogni tempo e per ogni uomo. Non raramente siamo posti davanti a veri e propri drammi esistenziali e spirituali, che non trovano risposta nelle parole degli uomini, ma sono abbracciati ed assunti dall’Amore divino, che perdona e trasforma: “Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come la neve” (Is 1,18). Conoscere e, in certo modo, visitare l’abisso del cuore umano, anche negli aspetti oscuri, se da un lato mette alla prova l’umanità e la fede dello stesso sacerdote, dall’altro alimenta in lui la certezza che l’ultima parola sul male dell’uomo e della storia è di Dio, è della sua Misericordia, capace di far nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5). Quanto può imparare poi il sacerdote da penitenti esemplari per la loro vita spirituale, per la serietà con cui conducono l’esame di coscienza, per la trasparenza nel riconoscere il proprio peccato e per la docilità verso l’insegnamento della Chiesa e le indicazioni del confessore. Dall’amministrazione del Sacramento della Penitenza possiamo ricevere profonde lezioni di umiltà e di fede! E’ un richiamo molto forte per ciascun sacerdote alla coscienza della propria identità. Mai, unicamente in forza della nostra umanità, potremmo ascoltare le confessioni dei fratelli! Se essi si accostano a noi, è solo perché siamo sacerdoti, configurati a Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote, e resi capaci di agire nel suo Nome e nella sua Persona, di rendere realmente presente Dio che perdona, rinnova e trasforma. La celebrazione del Sacramento della Penitenza ha un valore pedagogico per il sacerdote, in ordine alla sua fede, alla verità e povertà della sua persona, e alimenta in lui la consapevolezza dell’identità sacramentale.

Qual è il valore pedagogico del Sacramento della Penitenza per i penitenti? Dobbiamo premettere che esso dipende, innanzitutto, dall’azione della Grazia e dagli effetti oggettivi del Sacramento nell’anima del fedele. Certamente la Riconciliazione sacramentale è uno dei momenti nei quali la libertà personale e la consapevolezza di sé sono chiamate ad esprimersi in modo particolarmente evidente. È forse anche per questo che, in un’epoca di relativismo e di conseguente attenuata consapevolezza del proprio essere, risulta indebolita anche la pratica sacramentale. L’esame di coscienza ha un importante valore pedagogico: esso educa a guardare con sincerità alla propria esistenza, a confrontarla con la verità del Vangelo e a valutarla con parametri non soltanto umani, ma mutuati dalla divina Rivelazione. Il confronto con i Comandamenti, con le Beatitudini e, soprattutto, con il Precetto dell’amore, costituisce la prima grande “scuola penitenziale”.

Nel nostro tempo caratterizzato dal rumore, dalla distrazione e dalla solitudine, il colloquio del penitente con il confessore può rappresentare una delle poche, se non l’unica occasione per essere ascoltati davvero e in profondità. Cari sacerdoti, non trascurate di dare opportuno spazio all’esercizio del ministero della Penitenza nel confessionale: essere accolti ed ascoltati costituisce anche un segno umano dell’accoglienza e della bontà di Dio verso i suoi figli. L’integra confessione dei peccati, poi, educa il penitente all’umiltà, al riconoscimento della propria fragilità e, nel contempo, alla consapevolezza della necessità del perdono di Dio e alla fiducia che la Grazia divina può trasformare la vita. Allo stesso modo, l’ascolto delle ammonizioni e dei consigli del confessore è importante per il giudizio sugli atti, per il cammino spirituale e per la guarigione interiore del penitente. Non dimentichiamo quante conversioni e quante esistenze realmente sante sono iniziate in un confessionale! L’accoglienza della penitenza e l’ascolto delle parole “Io ti assolvo dai tuoi peccati” rappresentano, infine, una vera scuola di amore e di speranza, che guida alla piena confidenza nel Dio Amore rivelato in Gesù Cristo, alla responsabilità e all’impegno della continua conversione.

Cari sacerdoti, sperimentare noi per primi la Misericordia divina ed esserne umili strumenti, ci educhi ad una sempre più fedele celebrazione del Sacramento della Penitenza e ad una profonda gratitudine verso Dio, che “ha affidato a noi il ministero della riconciliazione” (1Cor 5,18), Alla Beata Vergine Maria, Mater misericordiae e Refugium peccatorum, affido i frutti del vostro Corso sul Foro interno e il ministero di tutti i Confessori, mentre con grande affetto vi benedico.



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giovedì 24 marzo 2011

La piaga della mafia - Un binomio inscindibile

Torniamo a parlare di mafia in un momento in cui stiamo scoprendo come quest'ultima abbia allungato i suoi tentacoli sino al Nord Italia che molti pensavano ingenuamente fosse esente e pieno di anticorpi contro la manifestazione mafiosa. Inoltre, apprendiamo con un pò di malessere la nomina come nuovo Ministro per l'Agricoltura di Romano, attualmente indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Questa è una scelta deplorevole perchè in certi momenti bisognerebbe dare un certo tipo di segnali: oggi ci troviamo con uomini indagati per mafia in Parlamento e al Governo e con uomini di legge come Antonio Ingroia calpestati da quello stesso Governo che dice di combattere la mafia con forza e vigore. Ovviamente la nostra solidarietà va interamente al Signor Ingroia che rischia la vita ogni giorno nel combattere la mafia in Sicilia senza limitarsi a parlare da dietro una scrivania coperta da una dozzina di body-guards. 
Detto questo, torniamo a ricordare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino considerando che alcuni sondaggi nelle scuole hanno dimostrato una forte ignoranza accompagnata anche da una certa resa nei confronti del fenomeno mafioso. Siccome non vogliamo che tali simboli vengano declassati a fessi, li ricordiamo con un bellissimo articolo di Francesco La Licata, un grande giornalista che ha vissuto tutte le spaventose stragi mafiose e che ha vissuto da vicino l'esperienza Falcone-Borsellino:


Un binomio inscindibile (di Francesco La Licata)

Falcone e Borsellino: due nomi, un solo luogo del nostro immaginario collettivo, a testimonianza di una tragedia che ha colpito tutti, un intero popolo. E' difficile scindere questo binomio, impossibile parlare di Giovanni, senza immediatamente ricordare Paolo. Nella nostra mente si è insediato un automatismo che sarà difficile rimuovere. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano uniti in vita, legati da un “mestiere” che per loro era missione: liberare la società civile dall'oppressione di una “mala pianta”- la mafia - che nasce, vive e prospera nello stesso umore nutritivo prodotto dalla Sicilia. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono ora inscindibili nella nostra memoria. Come accade per quanti diventano simbolo contro la loro stessa volontà, eroi soltanto per aver voluto esercitare il diritto di affermare le proprie idee, per aver rifiutato la via facile dell'accomodamento e del quieto vivere. La loro fine, orribile e tragica, li ha fusi insieme. Così che oggi, quasi naturalmente, il viaggiatore che si avvicini alla Sicilia sentirà i loro nomi prima ancora di mettere piede nell'Isola. Al momento dell'atterraggio sarà la voce del comandante ad informare che “tra pochi minuti atterreremo all'aeroporto Falcone - Borsellino”. I siciliani, i siciliani onesti amano quei magistrati caduti a meno di due mesi l'uno dall'altro. I mafiosi li rispettano, come li temevano quando erano vivi. (...)
I colpi subiti dai collaboratori di giustizia, i pentiti. “Invenzione” di Giovanni Falcone, quando nessuno osava soltanto pensare alla eventualità che uno strumento rivelatosi essenziale contro il terrorismo potesse risultare praticabile nella lotta alla mafia. Falcone portò in Italia un Buscetta pentito che doveva aprire la strada al ripensamento di tanti altri boss come Salvatore Contorno, Nino Calderone e Francesco Marino Mannoia. Bastò questo per segnare tanti punti, innanzitutto l'esito del primo maxiprocesso: una disfatta per Cosa Nostra.

Già, il maxiprocesso. Fu forse allora che Falcone e Borsellino firmarono la loro condanna a morte. Cosa Nostra capì che non ci poteva essere convivenza tra i propri interessi e quei due magistrati che parlavano in palermitano, capivano il linguaggio cifrato del “baccaglio” mafioso, si muovevano perfettamente a loro agio tra ammiccamenti, sguardi, segni apparentemente enigmatici, bugie e “tragedie” inesistenti, ordite semmai dal nulla per giustificare reazioni cruente. I due ex ragazzi della Kalsa, che in gioventù avevano giocato al calcio con coetanei poi “arruolati” dai boss, si ritrovavano insieme a contrastare un mondo che conoscevano e capivano perfettamente per averne trafugato, a suo tempo, la chiave di lettura. Per questo poterono dialogare coi collaboratori, riuscirono ad ottenerne la fiducia offrendo in cambio la semplice “parola d'onore” che avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarli. Eppure Falcone e Borsellino non dovevano vedersela solo coi “bravi ragazzi” che maneggiano pistole, eroina e tritolo. La storia della vita e della morte di questi due eroi siciliani non lascia spazio a dubbi e ambiguità: Giovanni e Paolo non erano molto amati neppure nelle stanze che contano. Ovvio, si trattava di ostilità che si manifestava in modo diverso. Eppure quella ostilità pesava esattamente quanto le pallottole.

A Giovanni Falcone fu riservata prima la tagliente ironia del Palazzo di Giustizia di Palermo, poi la saccente campagna di stampa contro la presunta smania di protagonismo, quindi un vero e proprio “sbarramento” che gli avrebbe precluso il naturale ruolo di coordinatore delle inchieste sulla mafia. Analoghe difficoltà avrebbe poi incontrato Borsellino durante la sua permanenza a Palermo, dopo l'esperienza di Marsala, nella stanza di procuratore aggiunto.
Una marcia lenta - quella di Falcone - verso la delegittimazione, fino al tritolo di Capaci, passando per l'inquietante avvertimento dell'Addaura (attentato fallito del giugno 1989) che si saldava con le “bordate” anonime degli scritti del “Corvo”. Quando Falcone salta in aria, Paolo Borsellino capisce che non gli resterà troppo tempo. Lo dice chiaro: “Devo fare in fretta, perché adesso tocca a me”. Nessuna fantasia di tragediografo ha mai prodotto nulla di simile. A rileggere, oggi, gli ultimi movimenti, le ultime parole di Paolo Borsellino, ci si imbatte in un uomo cosciente della propria fine imminente, perfettamente consapevole persino del possibile movente, eppure incapace di tirarsi indietro. Forse speranzoso di potercela fare, forse rassegnato ad una morte che in cuor suo “doveva” al suo amico Giovanni. (...)

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«La maternità è un dono, non un errore da evitare»

Proprio mentre nell'Angolo di Angel parliamo della vocazione matrimoniale e del ruolo dei coniugi nel progetto di Dio legato alla procreazione, il sito labussolaquotidiana.it, ci propone un interessante intervista che ci mostra l'opinione della Dottoressa Boioni sulla sessualità e l'affettività.
L'intervista concerne un pezzo pubblicato su Repubblica che esalta la mentalità contraccettiva, avvertendoci dell'arrivo in Italia di nuove forme di contraccezione. Per noi cristiani, comunque, deve valere sempre il netto rifiuto di questa mentalità contraccettiva perchè non possiamo pensare di scindere la sessualità dall'aspetto emotivo e soprattutto procreativo: non a caso, il Venerabile Giovanni Paolo II aveva promosso l'educazione sessuale alla scoperta dei periodi di fertilità della donna, in modo da seguire l'ordine naturale senza ricorrere a metodi contraccettivi che frustrano il significato vero della sessualità. Leggiamo ora la suddetta intervista, ricordandoci che la sede della sessualità rimane sempre il matrimonio:


«Si parla tanto di prevenzione, ma si previene una malattia, una patologia, non una gravidanza. La maternità non è un errore, un rischio da cui guardarsi, ma un dono». Così Medua Boioni Dedè, già Presidente e tra i fondatori della confederazione italiana centri regolazione naturale fertilità commenta l’articolo apparso sul quotidiano Repubblica del 15 marzo dal titolo “Sesso sicuro – Nuovi contraccettivi, dal condom per lei allo stick sottopelle”. Il pezzo, inserito nella sezione “Salute” è accompagnato da una serie di commenti e approfondimenti e tra i titoli leggiamo “In arrivo anche in Italia gli ultimi metodi per evitare gravidanze indesiderate. Per le giovanissime si parla di doppia protezione: preservativo contro patologie sessuali e pillola anticoncezionale”. E poi ancora “E venne l’era dell’amore senza paura”.

Dottoressa Boioni, che cosa non la convince di quanto letto in queste pagine?
Direi tutto, ma soprattutto l’aspetto culturale e sociale, si dà per scontato che i giovanissimi abbiano o comunque cerchino di avere una vita sessuale attiva, ma non è sempre così, anzi. Gli adolescenti cercano amore, qualcosa che sia duraturo e non effimero, non possiamo rispondere a questi bisogni con i preservativi. Senza contare che ci sono delle conseguenze pesanti per gli adolescenti che vivono una sessualità precoce, ma di questo non si parla…

Quale tipo di conseguenze?

Innanzitutto psicologiche. I ragazzi vivono il primo rapporto come una prova, ma spesso rimangono frustrati perché non è come lo hanno immaginato, le ragazze invece aspettano con ansia questo momento perché perdendo la verginità si sentono più donne, ma poi rimangono molto deluse. Queste sensazioni negative spesso si trascinano negli anni, nelle relazioni. Purtroppo ho avuto a che fare con cinquantenni che ancora non avevano elaborato i traumi della prima volta, e ovviamente neanche lo sapevano… Queste sono cose che non si raccontano l’unico rischio da cui il mondo adulto sembra voler mettere al riparo i ragazzi è quello di avere un figlio, di compiere l'errore di rimanere incinta, ma una vita che nasce non è un rischio e tantomeno un errore. Inoltre ci si scorda di dire la cosa fondamentale, e cioè che per programmare una gravidanza l’unica cosa su cui agire è il proprio comportamento. Autocontrollo e autodeterminazione non sono dei paletti o delle restrizioni, ma anzi degli ingredienti essenziali per vivere a pieno l’intimità e la comunione con l’altra persona, che non può ridursi ad un incontro fisico.

Qualcuno non sarebbe d’accordo…
Nonostante quello che si crede non possiamo scindere il corpo dalla psiche e dalle emozioni, nemmeno l’uomo. Aneliamo comunque all’amore, non siamo soddisfatti dal piacere, perché il piacere finisce, quindi nessuno può dire che traiamo gioia da un incontro soltanto genitale.

Eppure la sessualità, o meglio il libertinaggio dei costumi e la promiscuità sono diventati la normalità e l’unica preoccupazione sembra non essere l’amore, bensì la contraccezione…
La mentalità contraccettiva non è altro che il rifiuto della possibilità del concepimento, in quanto l’ipotesi si una vita che nasce da un lato terrorizza i genitori, dall’altro è vista dai giovani come una possibilità remotissima. Così si ricorre all’educazione sessuale che però di educazione ha ben poco. Si spiegano gli strumenti con i quali scongiurare il rischio di una gravidanza, ma l’educazione ha ben altro scopo: quello di aiutare la persona a far uso di tutte le sue dimensioni comprese la ragione, l’intelligenza e la capacità di autocontrollo. Dico sempre ai ragazzi che incontro che chi ama davvero l’altra persona è in grado di autocontrollarsi, perché mette al centro l’altra persona, e qui non si tratta soltanto si evitare una gravidanza, ma di incontrare davvero l’altra persona. Si può provare un po’ di piacere, ma la gioia è tutt’altro…

Sempre sulle pagine di Repubblica la sessuologa Roberta Giommi dice “Costruire una mentalità preventiva è il sogno di chi si occupa di educazione alla sessualità e all’affettività”, è d’accordo?
Sarà il sogno suo, non certo il mio. O meglio se il sogno è fare in modo che le persone traggano dalla genitalità il massimo del piacere, allora sono d’accordo, ma questa non è sessualità. La Giommi parla di sesso e fertilità, sesso e sicurezza, mi chiedo se si sia scordata il binomio sesso e amore. Per me il sogno è fare in modo che le persone scoprano come attraverso il corpo si può mostrare amore all’altra persona, un amore che soddisfa e realizza l’intimo dell’uomo e della donna, in una donazione che ci consegna all’altro per l’eternità, qualcosa che dura al di fuori del rapporto sessuale, che è progetto di vita, che è il costruire qualcosa, all’interno della quale ovviamente rientrano anche i figli. Se ci si mettono dei valori dentro il rapporto sessuale si rinnova ogni giorno, perché cresce e diventa fecondo, un bambino non diventa un rischio ma il frutto di un rapporto. Il piacere non ci soddisfa perché passa. E’ la gioia che resta nel cuore...

di Raffaella Frullone 
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