Il Papa che ha «visto» il paese in Europa
di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2011)
Come la Chiesa vede l’unità d’Italia? Un episodio del pontificato di Giovanni XXIII, il "Papa buono", può aiutare a rispondere a questa domanda. È la primavera del 1961, precisamente l’11 aprile, quando il Pontefice riceve in visita ufficiale il Capo del governo italiano, Amintore Fanfani. Le parole pronunciate dal Papa in quell’occasione hanno grande eco sulla stampa, in un ventaglio di giudizi contrapposti. Il Pontefice fa, tra l’altro, due affermazioni. La prima riguarda i rapporti fra la Chiesa e l’Italia: «La singolare condizione della Chiesa cattolica e dello Stato italiano - due organismi di diversa struttura, fisionomia ed elevazione, quanto alle caratteristiche finalità dell’uno e dell’altro - suppone una distinzione e un tal quale riserbo di rapporti, pur fatti di garbo e di rispetto, che rendono tanto più gradite le occasioni dell’incontrarsi...».
Con quel suo fraseggiare a volte un po’ ridondante, il Papa dipinge in maniera precisa la distinzione e il genere dei rapporti fra le due sponde del Tevere: i termini usati, "riserbo", "garbo", "rispetto", mettono bene in luce la necessaria distanza e la comune appartenenza a una medesima storia e a uno stesso destino. Subito dopo Giovanni XXIII afferma: «La ricorrenza che in questi mesi è motivo di sincera esultanza per l’Italia, il centenario della sua unità, ci trova, sulle due rive del Tevere, partecipi di uno stesso sentimento di riconoscenza alla Provvidenza del Signore, che pur attraverso variazioni e contrasti, talora accesi, come accade in tutti i tempi, ha guidato questa porzione elettissima d’Europa verso una sistemazione di rispetto e di onore nel concetto delle nazioni grazie a Dio depositarie, sì, oggi ancora, della civiltà che da Cristo prende nome e vita».
Si sente in queste parole la competenza dello storico (tale era Angelo Giuseppe Roncalli, per formazione storico della Chiesa) e la finezza del diplomatico (a lungo rappresentante pontificio), pervase entrambe da una benignità pastorale, che priva la prima di ogni saccenteria e la seconda di ogni furbizia. Il "Papa buono" non nasconde nulla («pur attraverso variazioni e contrasti, talora accesi...») e mette l’accento su quanto gli sta veramente a cuore: l’Italia, nel suo rapporto costitutivo con il cristianesimo e con l’Europa.
Cinquant’anni dopo queste parole non hanno perso nulla del loro valore: prive di ogni retorica celebrativa, aiutano a far memoria onestamente dei momenti drammatici e delle tensioni attraverso cui si fece l’unità del paese. Nei confronti della causa italiana la posizione dei cattolici fu tutt’altro che unanime e concorde: le tesi dei fieri oppositori si affiancarono a quelle dei sostenitori entusiastici, mentre non pochi furono partigiani di un federalismo, che beneficiasse delle garanzie offerte dall’autorità morale del Papa.
Due mi sembrano gli orizzonti evocati da Giovanni XXIII, che val la pena di richiamare anche per l’imminente celebrazione del 150° anniversario dell’unità d’Italia: il cristianesimo e l’Europa. Sotto entrambi i profili l’Italia si è andata costruendo nel corso di questo secolo e mezzo e il da farsi resta ancora così tanto che la memoria si risolve in sfida e agenda per l’avvenire. Anzitutto, va sottolineata la rilevanza del cristianesimo per la nostra identità nazionale: senza di esso l’Italia sarebbe inconcepibile, con buona pace dei laicisti di turno e di quanti danno voce ai vari, possibili pregiudizi storiografici e culturali. Incontrandosi con l’eredità greco-romana e, più tardi, in un rapporto spesso dialettico con i processi emancipatori della modernità, l’anima cristiana ha plasmato il nostro paese. Una riprova altissima dell’importanza di questo contributo all’identità della nazione italiana viene da una delle pagine più significative della nostra storia: la promulgazione della Costituzione repubblicana. È in particolare al personalismo d’ispirazione cristiana che la nostra legge fondamentale deve la sua fonte più ricca in materia di valori.
Essa era stata compendiata nel cosiddetto Codice di Camaldoli, elaborato al termine di una settimana di studio tenutasi nel luglio del 1943 nel monastero camaldolese presso Arezzo, cui avevano partecipato una cinquantina di giovani dell’Azione cattolica e della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci), con l’intento d’individuare le linee dello sviluppo del paeseuna volta finita la guerra. Nel testo emergeva non solo l’idea della centralità della persona umana nella futura organizzazione dello Stato e della sua economia, ma anche la proposta di un sistema di partecipazione statale, che traduceva nella nostra realtà produttiva l’idea della corresponsabilità e della solidarietà nazionale.
Senza il rispetto della dignità della persona, e dunque di tutto l’uomo in ogni uomo, quale che siano la sua storia, la sua cultura e i mezzi di cui dispone, non ci sarà nazione italiana. E, parimenti, senza solidarietà l’idea d’Italia concepita dai padri costituenti rischia di essere totalmente svuotata: sottolinearlo è più che mai urgente, in un momento in cui il tanto parlare di federalismo potrebbe oscurare l’imprescindibile necessità che il nostro sia un federalismo solidale, e giammai un patto a vantaggio dei più forti, dannoso per i più deboli. In questo senso la memoria si fa dovere di vigile profezia per tutti.
L’altro orizzonte evocato da Giovanni XXIII e più che mai valido per le celebrazioni dell’unità italiana è quello dell’Europa: nello spirito dei padri fondatori - De Gasperi, Adenauer, Schuman - l’appartenenza alla casa comune europea vuol dire superamento degli egoismi nazionalistici e regionalistici, respiro aperto alla mondialità e all’interculturalità, senso profondo di responsabilità verso i valori costitutivi dell’identità europea. Accanto al rispetto dei diritti umani e delle libertà individuali, Europa vuol dire coniugazione sapiente di localismi e di solidarietà, di globalità e di attenzione alla ricchezza delle identità regionali e nazionali, di salvaguardia delle radici e di accoglienza dell’altro e del diverso. Per l’Italia questo significa rifiuto di logiche egoistiche e settarie e impegno perché la comune responsabilità europea si affermi negli scenari internazionali dove sono in gioco la costruzione della pace, il rispetto dei diritti umani, l’impegno per la giustizia.
Celebrare l’unità della nazione italiana nell’orizzonte dell’idea europea può aiutare a liberarci da ogni ripiegamento su noi stessi, o peggio ancora su una parte sola del paese, spingendoci a un’azione di stimolo e di supporto a politiche europee all’altezza delle radici culturali e spirituali che ci uniscono. Queste radici comprendono l’idea cristiana di persona e di storia orientata a un fine, l’idea di democrazia, contributo prezioso della grecità classica, cui si connette il dovere del rispetto delle ragioni altrui, e il diritto romano, con la sua esigenza di una giustizia giusta, rapida ed efficace nella tutela dei più deboli e dei diritti di tutti.
Celebrare l’unità è allora raccogliere il testimone di quanti hanno dato il meglio di sé, fino al sacrificio della vita, perché in questi 150 anni si andassero imponendo le urgenze dei diritti personali, l’idea di partecipazione democratica universale, e un senso del diritto e della legalità, che per troppi aspetti sembrano ancor lungi dall’essere realtà compiuta.
Al di là di ogni retorica, un esame di coscienza è richiesto in primo luogo a chi ha responsabilità pubbliche ed è tenuto a coltivare qualità morali che siano all’altezza del compito. Ricordare l’unità realizzata vuol dire rinnovare l’impegno a portarne a compimento i valori costitutivi. Ciò che iniziò ieri è appello per l’oggi e per il domani, un’occasione di salutare risveglio per tutti, la sfida di un "non ancora" che parte dal "già", iniziato 150 anni fa.
Come la Chiesa vede l’unità d’Italia? Un episodio del pontificato di Giovanni XXIII, il "Papa buono", può aiutare a rispondere a questa domanda. È la primavera del 1961, precisamente l’11 aprile, quando il Pontefice riceve in visita ufficiale il Capo del governo italiano, Amintore Fanfani. Le parole pronunciate dal Papa in quell’occasione hanno grande eco sulla stampa, in un ventaglio di giudizi contrapposti. Il Pontefice fa, tra l’altro, due affermazioni. La prima riguarda i rapporti fra la Chiesa e l’Italia: «La singolare condizione della Chiesa cattolica e dello Stato italiano - due organismi di diversa struttura, fisionomia ed elevazione, quanto alle caratteristiche finalità dell’uno e dell’altro - suppone una distinzione e un tal quale riserbo di rapporti, pur fatti di garbo e di rispetto, che rendono tanto più gradite le occasioni dell’incontrarsi...».
Con quel suo fraseggiare a volte un po’ ridondante, il Papa dipinge in maniera precisa la distinzione e il genere dei rapporti fra le due sponde del Tevere: i termini usati, "riserbo", "garbo", "rispetto", mettono bene in luce la necessaria distanza e la comune appartenenza a una medesima storia e a uno stesso destino. Subito dopo Giovanni XXIII afferma: «La ricorrenza che in questi mesi è motivo di sincera esultanza per l’Italia, il centenario della sua unità, ci trova, sulle due rive del Tevere, partecipi di uno stesso sentimento di riconoscenza alla Provvidenza del Signore, che pur attraverso variazioni e contrasti, talora accesi, come accade in tutti i tempi, ha guidato questa porzione elettissima d’Europa verso una sistemazione di rispetto e di onore nel concetto delle nazioni grazie a Dio depositarie, sì, oggi ancora, della civiltà che da Cristo prende nome e vita».
Si sente in queste parole la competenza dello storico (tale era Angelo Giuseppe Roncalli, per formazione storico della Chiesa) e la finezza del diplomatico (a lungo rappresentante pontificio), pervase entrambe da una benignità pastorale, che priva la prima di ogni saccenteria e la seconda di ogni furbizia. Il "Papa buono" non nasconde nulla («pur attraverso variazioni e contrasti, talora accesi...») e mette l’accento su quanto gli sta veramente a cuore: l’Italia, nel suo rapporto costitutivo con il cristianesimo e con l’Europa.
Cinquant’anni dopo queste parole non hanno perso nulla del loro valore: prive di ogni retorica celebrativa, aiutano a far memoria onestamente dei momenti drammatici e delle tensioni attraverso cui si fece l’unità del paese. Nei confronti della causa italiana la posizione dei cattolici fu tutt’altro che unanime e concorde: le tesi dei fieri oppositori si affiancarono a quelle dei sostenitori entusiastici, mentre non pochi furono partigiani di un federalismo, che beneficiasse delle garanzie offerte dall’autorità morale del Papa.
Due mi sembrano gli orizzonti evocati da Giovanni XXIII, che val la pena di richiamare anche per l’imminente celebrazione del 150° anniversario dell’unità d’Italia: il cristianesimo e l’Europa. Sotto entrambi i profili l’Italia si è andata costruendo nel corso di questo secolo e mezzo e il da farsi resta ancora così tanto che la memoria si risolve in sfida e agenda per l’avvenire. Anzitutto, va sottolineata la rilevanza del cristianesimo per la nostra identità nazionale: senza di esso l’Italia sarebbe inconcepibile, con buona pace dei laicisti di turno e di quanti danno voce ai vari, possibili pregiudizi storiografici e culturali. Incontrandosi con l’eredità greco-romana e, più tardi, in un rapporto spesso dialettico con i processi emancipatori della modernità, l’anima cristiana ha plasmato il nostro paese. Una riprova altissima dell’importanza di questo contributo all’identità della nazione italiana viene da una delle pagine più significative della nostra storia: la promulgazione della Costituzione repubblicana. È in particolare al personalismo d’ispirazione cristiana che la nostra legge fondamentale deve la sua fonte più ricca in materia di valori.
Essa era stata compendiata nel cosiddetto Codice di Camaldoli, elaborato al termine di una settimana di studio tenutasi nel luglio del 1943 nel monastero camaldolese presso Arezzo, cui avevano partecipato una cinquantina di giovani dell’Azione cattolica e della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci), con l’intento d’individuare le linee dello sviluppo del paeseuna volta finita la guerra. Nel testo emergeva non solo l’idea della centralità della persona umana nella futura organizzazione dello Stato e della sua economia, ma anche la proposta di un sistema di partecipazione statale, che traduceva nella nostra realtà produttiva l’idea della corresponsabilità e della solidarietà nazionale.
Senza il rispetto della dignità della persona, e dunque di tutto l’uomo in ogni uomo, quale che siano la sua storia, la sua cultura e i mezzi di cui dispone, non ci sarà nazione italiana. E, parimenti, senza solidarietà l’idea d’Italia concepita dai padri costituenti rischia di essere totalmente svuotata: sottolinearlo è più che mai urgente, in un momento in cui il tanto parlare di federalismo potrebbe oscurare l’imprescindibile necessità che il nostro sia un federalismo solidale, e giammai un patto a vantaggio dei più forti, dannoso per i più deboli. In questo senso la memoria si fa dovere di vigile profezia per tutti.
L’altro orizzonte evocato da Giovanni XXIII e più che mai valido per le celebrazioni dell’unità italiana è quello dell’Europa: nello spirito dei padri fondatori - De Gasperi, Adenauer, Schuman - l’appartenenza alla casa comune europea vuol dire superamento degli egoismi nazionalistici e regionalistici, respiro aperto alla mondialità e all’interculturalità, senso profondo di responsabilità verso i valori costitutivi dell’identità europea. Accanto al rispetto dei diritti umani e delle libertà individuali, Europa vuol dire coniugazione sapiente di localismi e di solidarietà, di globalità e di attenzione alla ricchezza delle identità regionali e nazionali, di salvaguardia delle radici e di accoglienza dell’altro e del diverso. Per l’Italia questo significa rifiuto di logiche egoistiche e settarie e impegno perché la comune responsabilità europea si affermi negli scenari internazionali dove sono in gioco la costruzione della pace, il rispetto dei diritti umani, l’impegno per la giustizia.
Celebrare l’unità della nazione italiana nell’orizzonte dell’idea europea può aiutare a liberarci da ogni ripiegamento su noi stessi, o peggio ancora su una parte sola del paese, spingendoci a un’azione di stimolo e di supporto a politiche europee all’altezza delle radici culturali e spirituali che ci uniscono. Queste radici comprendono l’idea cristiana di persona e di storia orientata a un fine, l’idea di democrazia, contributo prezioso della grecità classica, cui si connette il dovere del rispetto delle ragioni altrui, e il diritto romano, con la sua esigenza di una giustizia giusta, rapida ed efficace nella tutela dei più deboli e dei diritti di tutti.
Celebrare l’unità è allora raccogliere il testimone di quanti hanno dato il meglio di sé, fino al sacrificio della vita, perché in questi 150 anni si andassero imponendo le urgenze dei diritti personali, l’idea di partecipazione democratica universale, e un senso del diritto e della legalità, che per troppi aspetti sembrano ancor lungi dall’essere realtà compiuta.
Al di là di ogni retorica, un esame di coscienza è richiesto in primo luogo a chi ha responsabilità pubbliche ed è tenuto a coltivare qualità morali che siano all’altezza del compito. Ricordare l’unità realizzata vuol dire rinnovare l’impegno a portarne a compimento i valori costitutivi. Ciò che iniziò ieri è appello per l’oggi e per il domani, un’occasione di salutare risveglio per tutti, la sfida di un "non ancora" che parte dal "già", iniziato 150 anni fa.
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