mercoledì 16 marzo 2011

Carità e Verità: Caritas in Veritate - XIV

Continuiamo la lettura della nuova Enciclica di Papa Benedetto XVI "Caritas in veritate". Proseguiamo l'analisi del terzo capitolo e vediamo che continua ad essere al centro dell'attenzione il sistema economico mondiale. Oggi continua la riflessione sulle modifiche di cui necessita l'attuale sistema economico troppo aperto alle pure speculazioni e alle ricerche di utili a tutti i costi (senza tenere in considerazione aspetti di notevole importanza). La riflessione di Benedetto XVI è molto attenta agli sviluppi odierni e sottolinea il dovere di creare un sistema che non sia di vantaggio per alcuni e di ostacolo per molti:

CAPITOLO TERZO

FRATERNITÀ, SVILUPPO ECONOMICO
E SOCIETÀ CIVILE

39. Paolo VI nella Populorum progressio chiedeva di configurare un modello di economia di mercato capace di includere, almeno tendenzialmente, tutti i popoli e non solamente quelli adeguatamente attrezzati. Chiedeva che ci si impegnasse a promuovere un mondo più umano per tutti, un mondo nel quale tutti avessero « qualcosa da dare e da ricevere, senza che il progresso degli uni costituisca un ostacolo allo sviluppo degli altri » [94]. Egli in questo modo estendeva al piano universale le stesse richieste e aspirazioni contenute nella Rerum novarum, scritta quando per la prima volta, in conseguenza della rivoluzione industriale, si affermò l'idea — sicuramente avanzata per quel tempo — che l'ordine civile per reggersi aveva bisogno anche dell'intervento ridistributivo dello Stato. Oggi questa visione, oltre a essere posta in crisi dai processi di apertura dei mercati e delle società, mostra di essere incompleta per soddisfare le esigenze di un'economia pienamente umana. Quanto la dottrina sociale della Chiesa ha sempre sostenuto a partire dalla sua visione dell'uomo e della società oggi è richiesto anche dalle dinamiche caratteristiche della globalizzazione.

Quando la logica del mercato e quella dello Stato si accordano tra loro per continuare nel monopolio dei rispettivi ambiti di influenza, alla lunga vengono meno la solidarietà nelle relazioni tra i cittadini, la partecipazione e l'adesione, l'agire gratuito, che sono altra cosa rispetto al “dare per avere”, proprio della logica dello scambio, e al “dare per dovere”, proprio della logica dei comportamenti pubblici, imposti per legge dallo Stato. La vittoria sul sottosviluppo richiede di agire non solo sul miglioramento delle transazioni fondate sullo scambio, non solo sui trasferimenti delle strutture assistenziali di natura pubblica, ma soprattutto sulla progressiva apertura, in contesto mondiale, a forme di attività economica caratterizzate da quote di gratuità e di comunione. Il binomio esclusivo mercato-Stato corrode la socialità, mentre le forme economiche solidali, che trovano il loro terreno migliore nella società civile senza ridursi ad essa, creano socialità. Il mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre per legge atteggiamenti gratuiti. Eppure sia il mercato sia la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco.

40. Le attuali dinamiche economiche internazionali, caratterizzate da gravi distorsioni e disfunzioni, richiedono profondi cambiamenti anche nel modo di intendere l'impresa. Vecchie modalità della vita imprenditoriale vengono meno, ma altre promettenti si profilano all'orizzonte. Uno dei rischi maggiori è senz'altro che l'impresa risponda quasi esclusivamente a chi in essa investe e finisca così per ridurre la sua valenza sociale. Sempre meno le imprese, grazie alla crescita di dimensione ed al bisogno di sempre maggiori capitali, fanno capo a un imprenditore stabile che si senta responsabile a lungo termine, e non solo a breve, della vita e dei risultati della sua impresa, e sempre meno dipendono da un unico territorio. Inoltre la cosiddetta delocalizzazione dell'attività produttiva può attenuare nell'imprenditore il senso di responsabilità nei confronti di portatori di interessi, quali i lavoratori, i fornitori, i consumatori, l'ambiente naturale e la più ampia società circostante, a vantaggio degli azionisti, che non sono legati a uno spazio specifico e godono quindi di una straordinaria mobilità. Il mercato internazionale dei capitali, infatti, offre oggi una grande libertà di azione. È però anche vero che si sta dilatando la consapevolezza circa la necessità di una più ampia “responsabilità sociale” dell'impresa. Anche se le impostazioni etiche che guidano oggi il dibattito sulla responsabilità sociale dell'impresa non sono tutte accettabili secondo la prospettiva della dottrina sociale della Chiesa, è un fatto che si va sempre più diffondendo il convincimento in base al quale la gestione dell'impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell'impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento. Negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi. Anche oggi tuttavia vi sono molti manager che con analisi lungimirante si rendono sempre più conto dei profondi legami che la loro impresa ha con il territorio, o con i territori, in cui opera. Paolo VI invitava a valutare seriamente il danno che il trasferimento all'estero di capitali a esclusivo vantaggio personale può produrre alla propria Nazione [95]. Giovanni Paolo II avvertiva che investire ha sempre un significato morale, oltre che economico [96]. Tutto questo — va ribadito — è valido anche oggi, nonostante che il mercato dei capitali sia stato fortemente liberalizzato e le moderne mentalità tecnologiche possano indurre a pensare che investire sia solo un fatto tecnico e non anche umano ed etico. Non c'è motivo per negare che un certo capitale possa fare del bene, se investito all'estero piuttosto che in patria. Devono però essere fatti salvi i vincoli di giustizia, tenendo anche conto di come quel capitale si è formato e dei danni alle persone che comporterà il suo mancato impiego nei luoghi in cui esso è stato generato [97]. Bisogna evitare che il motivo per l'impiego delle risorse finanziarie sia speculativo e ceda alla tentazione di ricercare solo profitto di breve termine, e non anche la sostenibilità dell'impresa a lungo termine, il suo puntuale servizio all'economia reale e l'attenzione alla promozione, in modo adeguato ed opportuno, di iniziative economiche anche nei Paesi bisognosi di sviluppo. Non c'è nemmeno motivo di negare che la delocalizzazione, quando comporta investimenti e formazione, possa fare del bene alle popolazioni del Paese che la ospita. Il lavoro e la conoscenza tecnica sono un bisogno universale. Non è però lecito delocalizzare solo per godere di particolari condizioni di favore, o peggio per sfruttamento, senza apportare alla società locale un vero contributo per la nascita di un robusto sistema produttivo e sociale, fattore imprescindibile di sviluppo stabile.



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