giovedì 31 marzo 2011

La piaga della mafia - Intervista ad Antonio Ingroia

Il nostro approfondimento sulla piaga della mafia continua con un'intervista ad Antonio Ingroia, magistrato cresciuto seguendo l'esempio di Paolo Borsellino (e che, come vi abbiamo detto la settimana scorsa, oggi è attaccato da molti esponenti di governo per aver "osato" dire la sua ad una manifestazione). L'intervista risale al 2002, cioè dieci anni dopo la strage di Via D'Amelio ed è stata pubblicata da l'unità:

Borsellino, il mio amico impopolare

Intervista
a cura di
Saverio Lodato

15.07.2002


Antonio Ingroia ha imparato il «mestiere», quello di magistrato s'intende, sotto la guida e a fianco di Paolo Borsellino. Era giovane, molto giovane, quando iniziò ad occuparsi di mafia, prima al Tribunale di Palermo, poi alla Procura di Marsala. Fa parte di quel gruppo di giovani giudici palermitani che furono attratti alla professione da personalità forti e stimate come Falcone, Borsellino e Caponnetto. Erano altre stagioni della lotta a Cosa Nostra. Oggi Ingroia non è più giovane.
Ha sulle spalle inchieste e processi, lunghi anni di vittorie e speranze, sconfitte e delusioni, ma soprattutto anni di tenacia che in lui non è mai venuta meno. Per Paolo Borsellino, che lo stimava molto, ha sempre nutrito una venerazione particolare. Se lo vide morire quasi accanto, all'indomani di un ultimo incontro, di un ultimo colloquio.
È uno dei due pubblici ministeri al processo per mafia intentato dalla Procura di Palermo contro il senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri.
Dottor Ingroia, cosa resta dell'insegnamento di Paolo Borsellino?
«Il suo è un tesoro perduto sul fondo dell'oceano. È ricoperto da acque troppo limacciose».
Per responsabilità di chi il tesoro Paolo Borsellino è andato perduto?
«Preferisco rispondere con parole di Paolo Borsellino. In un dibattito, Borsellino disse che il vero nodo della lotta alla mafia è un nodo politico. E intendeva dire che se non vi fosse stata una reale assunzione di responsabilità da parte della politica su questo fronte, la battaglia sarebbe stata perduta. Definì di corto respiro ogni strategia imperniata sulla delega a magistrati e forze dell'ordine. Mi chiedo dunque: c'è stata in questi anni un'effettiva assunzione di responsabilità da parte della politica? Direi proprio di no. Negli anni dell'emergenza, si è riproposta la delega a magistrati e forze dell'ordine; negli anni invece della pax mafiosa i magistrati e rappresentanti delle forze dell'ordine da una parte sono stati abbandonati, dall'altra sono stati aggrediti, attaccati, delegittimati e quasi disarmati».
In questo senso, il governo sta facendo un buon lavoro per ricacciare in fondo alle acque il tesoro Borsellino. O no?
«Gli attacchi all'indipendenza e all'autonomia della magistratura, che negli ultimi tempi sono sotto gli occhi di tutti, certamente ai mafiosi non dispiacciono. Così come non dispiacciono certe dichiarazioni sfuggite ad un ministro che parlava della necessità di convivere con la mafia. Intanto, i mafiosi detenuti, premono dal carcere con manifestazioni di protesta. Il vero snodo sarà costituito dalle prossime decisioni sul 41 bis».
Paolo Borsellino avrebbe voluto il carcere duro a vita per i mafiosi...
«Non ho dubbi».
Dottor Ingroia, chi era Paolo Borsellino?
«Un uomo delle istituzioni che, anche nei momenti più difficili e di grande amarezza, trovava dentro di sé la forza di fare il proprio dovere senza tentennamenti. Anche a costo di sfidare impopolarità e i peggiori attacchi».
In quale occasione Paolo Borsellino si rese impopolare?
«In tanti momenti della sua vita. Un momento che mi è rimasto molto impresso, anche perché avvenne nel periodo in cui ero da poco entrato in magistratura, si verificò nell'estate '88, quando uscendo dal riserbo, in un pubblico dibattito ad Agrigento, denunciò il grave calo di tensione nella lotta alla mafia che si era registrato nella società e nelle istituzioni, comprese quelle giudiziarie».
Perché Paolo Borsellino si rese impopolare?
«Perché lanciò il suo sasso nello stagno contro uno spirito di convivenza con la mafia che pericolosamente tornava a prevalere dopo gli anni della grande sfida, della grande illusione».
Paolo Borsellino fu uno dei grandi sfidanti di Cosa Nostra, ma anche un grande illuso? È questo che vuole dire?
«No. Borsellino era ben consapevole di quanto fosse lunga la strada da percorrere. Sicuramente non fu un illuso. Fu, semmai, un uomo spesso deluso che - lo ricordo bene - lasciò esplodere le sue delusioni e le sue amarezze in un altro famoso suo intervento pubblico. Era l'estate del 1992».
Quando Paolo Borsellino commemorò Giovanni Falcone ormai assassinato?
«Esattamente. Quando decise di puntare il dito contro le resistenze, anche istituzionali, al lavoro del "pool" antimafia e con amarezza ricordò tante resistenze e persino qualche tradimento».
Paolo Borsellino quali Giuda chiamò in causa per la strage di Capaci?
«Fece specifico riferimento alla vicenda della bocciatura della candidatura di Falcone a prendere il posto di Caponnetto alla direzione dell'ufficio istruzione. Quella fu una battuta d'arresto nelle indagini che pesò per anni».
Torniamo a Paolo Borsellino. È lecito dire che non fu mai una "diplomatico" nella lotta alla mafia?
«In un certo senso sì. Era indubbiamente un uomo sincero, che parlava in modo diretto, senza eccessive prudenze, quando era necessario. Ma anche pronto a buttarsi a capofitto nel lavoro senza risparmiarsi anche nei momenti di maggiore difficoltà, applicando la legge senza davvero guardare mai in faccia nessuno».
Si dice che Paolo Borsellino avesse una resistenza straordinaria al lavoro. Conferma?
«Ricordo benissimo che quando io ero un suo sostituto a Marsala - e abitavamo nello stesso palazzo, sullo stesso pianerottolo - e gli bussavo alle otto e mezzo per invitarlo a prendere il caffè, lo trovavo fra una montagna di fascicoli. Era già sveglio e al lavoro da almeno tre ore. E non è una leggenda».
Può farmi l'esempio di un Paolo Borsellino che applicava la legge non guardando in faccia nessuno?
«Era il 1991. Nell'ufficio di Borsellino, a Marsala, erano ancora lontani i tempi di Mani Pulite, e l'incriminazione di un uomo politico provocava strepiti e polemiche. Ero andato a trovarlo per esporgli le risultanze di una mia indagine per voto di scambio fra un parlamentare locale e alcuni mafiosi del Trapanese. Gli dissi che era inevitabile notificare un'informazione di garanzia. Ci fu un momento di silenzio. E poi, Borsellino mi disse con voce grave una frase che non dimenticherò mai: mi tremano le vene ai polsi al pensiero delle polemiche che si scateneranno ma è nostro dovere e non abbiamo scelta. Invia l'informazione di garanzia».
E di un Paolo Borsellino pronto a buttarsi a capofitto nel lavoro?
«Era l'estate del 1992. Si era già verificata la strage di Capaci. Borsellino avvertiva l'incombenza della tragedia su di lui. Aveva quindi fretta di scoprire gli assassini degli amici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. In quei giorni, per la prima volta, mi capitò di trovare la porta del suo ufficio chiusa e, dopo aver citofonato, sentirmi rispondere da lui: scusami Antonio, sto facendo una cosa urgente, al momento non ti posso ricevere».
Sono i suoi ultimi incontri con Paolo Borsellino?
«Gli ultimi due incontri sono forse i più significativi. Tutti e due avvenuti il 15 luglio del 1992. Avevo deciso di concedermi qualche giorno di ferie con la mia famiglia. E quella mattina mi recai nell'ufficio di Borsellino, al Tribunale di Palermo, per salutarlo. Appena gli diedi la notizia, Borsellino cambiò di umore, mi trattò malissimo, quasi mi mise alla porta. E disse: "vai in ferie, vai in ferie", senza neanche salutarmi. Ma non me la sentivo di andare in ferie così. E tornai di pomeriggio in ufficio per avere un chiarimento con Paolo. Lo trovai da solo, in un Palazzo di Giustizia quasi deserto. Era il giorno di Santa Rosalia, un giorno festivo per i palermitani. Gli spiegai che ero tornato solo per salutarlo e allora capì il mio disagio e mi disse che quell'estate lui aveva intenzione di non andare in ferie. Aggiunse che mi "concedeva" solo qualche giorno di riposo con l'accordo che la settimana successiva sarei rientrato e lui mi avrebbe affidato un'importante inchiesta della quale si stava già occupando».
Paolo Borsellino le disse di che si trattava?
«Mi anticipò che si trattava dello sviluppo delle rivelazioni di un nuovo collaboratore di giustizia. Un'indagine alla quale - secondo lui - avremmo dovuto dedicare l'intera estate. Non ebbi il tempo di rientrare da quei quattro giorni di ferie, perché la domenica successiva si sarebbe verificata la strage di via D'Amelio. Mi è sempre rimasto il rammarico di quell'appuntamento mancato».
Dottor Ingoia perché è stato assassinato Paolo Borsellino?
«È un altro mio rammarico. Quello di non avere contribuito, insieme agli altri colleghi, a fare piena luce sui tanti perché di quella strage. Sono stati condannati vari imputati in tanti processi per l'esecuzione e l'organizzazione dell'agguato in via D'Amelio. Ma anche in quelle sentenze di condanna i giudici pongono interrogativi rimasti senza risposta e ammettono l'esistenza di zone d'ombra tutt'ora non evidenziate. Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, voleva aiutare gli investigatori a scoprire la verità. Ma il suo percorso di verità venne bruscamente interrotto da un'autobomba. Noi, che gli eravamo stati vicini, abbiamo provato a riprendere il suo intero percorso investigativo. Purtroppo, dieci anni dopo, questo percorso resta incompiuto».
Paolo Borsellino fu ucciso perché - come si disse in quei giorni - stava indagando in maniera seria sull'uccisione di Falcone?
«Lo affermano le sentenze. E io ne ho un ricordo personale. Mi disse: "andrò a testimoniare davanti ai colleghi di Caltanissetta quando avrò la certezza sul perché della strage". E avviò una specie di indagine parallela, interpellando colleghi, investigatori, consultando documenti, cercando di interpretare le annotazioni dei cosiddetti diari di Falcone. Il tutto per trovarvi una chiave di lettura. Disse anche: "potrei farmi applicare alla Procura di Caltanissetta per seguire personalmente le indagini". Ma disse anche che preferiva agire più liberamente per scoprire la verità e poi portarla da testimone alla procura competente».
Paolo Borsellino pensava che il diario di Falcone si riducesse alle due pagine pubblicate dal "Sole 24 Ore"?
«Non lo so. So però che riteneva preziose quelle brevi annotazioni e che se Falcone se le era appuntate significava che erano davvero importanti».
Nel libro intervista "I miei giorni a Palermo", Antonio Caponnetto mi raccontò di un'agenda di pelle rossa in cui Paolo Borsellino annotava tutto e che non venne mai ritrovata dopo l'attentato di Via D'Amelio. Secondo lei che fine ha fatto?
«È uno dei tanti buchi neri della verità sulla strage di via D'Amelio, rimasti tali nonostante l'impegno profuso dai colleghi di Caltanissetta. Nei grandi delitti e nelle grandi stragi mafiose, le agende e i diari delle vittime non si trovano mai».


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