L’io è fatto per l’incontro e la relazione
Guardare in alto! È possibile, è bello, è doveroso. Ma è necessario il coraggio, tanto coraggio!
Sì, perché il rischio che tutti corriamo è di guardare in basso, solo in basso, imprigionati e rovinati come siamo dal nostro “io”: un “io” spesso pesantemente segnato dall’individualismo e dall’egoismo, un “io” che ripiegandosi su se stesso tende ad assolutizzarsi, a configurarsi come un “idolo” da adorare e per il quale si è disposti a sacrificare tutto. Ma un “io” così inquina il rapporto essenziale che ciascuno di noi ha con gli altri: siamo fatti per l’incontro e la relazione. Quando però sull’incontro e sulla relazione prevale l’affermazione del proprio “io”, la sensibilità verso l’altro diviene indifferenza, l’impegno verso l’altro non è più percepito e vissuto
come responsabilità, il dono di sé all’altro qualcosa di non dovuto. Così la relazione corre il rischio di svilirsi e degradarsi ad atteggiamento fortemente elettivo - possibile solo con poche persone selezionate, magari
perché portatrici di qualche utilità per il singolo -, oppure a dedizione temporanea, vissuta quando serve, non come scelta stabile ma solo quando ve ne è qualche necessità. Questo soggettivismo li riscontriamo nella società, ma non di rado – come virus che mina la sua esistenza - anche nella famiglia. I limiti di un “io” così, ripiegato su se stesso, non è difficile riscontrarli anche là dove ci si esprime come un “noi”. In realtà, anche nelle stesse occasioni nelle quali si vivono modi di essere e di agire associati non necessariamente si è di fronte a relazioni veramente aperte all’altro. Quante famiglie vivono isolate tra le proprie mura, nei propri progetti,
perseguendo i propri interessi, sfuggendo alla relazione con i vicini di casa, con il quartiere, con le realtà associative del territorio, con la comunità cristiana, con chi domanda aiuto e sostegno o con le altre famiglie assetate di relazioni vere e significative.
Lo stesso purtroppo capita in alcuni gruppi, dove l’interesse che è al centro dell’associarsi è “privato”, esclusivamente corporativo, per tutelare interessi particolari e parziali, dove il bene dei singoli non è perseguito in relazione al bene comune dell’intera società, ma ricercato contrapponendosi ad altri, non di rado a scapito e a danno del bene altrui. Tanti sono gli esempi possibili, ricorro solo alla manifestazione estrema e attuale: non è questa la logica che anima le associazioni malavitose che operano nella nostra Città e nel suo hinterland?
E questo atteggiamento è altrettanto grave e dagli effetti altrettanto dannosi quando è realizzato da coloro dai quali invece ci si attenderebbe un contributo decisivo alla costruzione del bene comune: penso ad alcuni modi di vivere il “noi” tipico dell’esperienza dell’associarsi per fare politica, sindacato, impresa economica, servizio pubblico o - addirittura – ad alcuni modi di vivere l’esperienza ecclesiale… In apparenza si dichiara – come dovrebbe essere per natura e statuto - di essere a servizio degli altri, in realtà si considerano “gli altri” funzionali ai propri interessi, per sfamare il bisogno di potere, notorietà, ricchezza. Così, senza l’apporto di queste istituzioni al bene di tutti, la Città e il Paese non sono più guidati e sostenuti in un percorso ragionato e
lungimirante di crescita complessivo, attento ai bisogni di tutti. Gli interessi dei singoli e dei singoli gruppi prevalgono violentemente, ferendo e disgregando le città, limitando la sua progettualità, esponendo ad ancora maggiori povertà e debolezza chi povero e debole lo è già.
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