Continuiamo la pubblicazione della prolusione del Cardinal Angelo Bagnasco che si sofferma su molti temi di matrice sociale:
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Esperienze, ne siamo consapevoli, che diventano possibili là dove c’è l’apporto di sacerdoti preparati, in grado di operare insieme al laicato più intraprendente. Sul profilo di questi essenziali nostri collaboratori abbiamo riflettuto a lungo nei mesi scorsi, in occasione dell’Anno Sacerdotale, indetto per i centocinquant’anni dalla morte del Santo Curato d’Ars, figura tra le più emblematiche del cattolicesimo di antico retaggio cristiano. Si è trattato di un’iniziativa provvidenziale che, affacciandosi nel momento più delicato, ci ha aiutato ad identificare la giusta prospettiva per questioni, come la pedofilia, di recente evidenziatasi in modo traumatico. È stato realmente un tempo di grazia che ha toccato le Chiese locali e i singoli presbitèri, e ha spesso coinvolto anche le comunità e il laicato, al punto che non avrei esitazione a dire che il sacerdote oggi è più capito e amato. Certo abbiamo sofferto e ancora soffriamo, ma sappiamo che, con la grazia di Dio, la sofferenza non è mai inutile. Per questo motivo, il 28 maggio scorso, abbiamo indirizzato – a nome dei confratelli Vescovi – una Lettera a tutti i sacerdoti d’Italia, con la quale intendevamo soprattutto ringraziarli per esserci, e dire loro che siamo fieri dei nostri preti. In nulla infatti è sminuita la nostra stima e la nostra considerazione. Semmai, come Vescovi, ci siamo interrogati su come possiamo ancor meglio tradurre il nostro legame sacramentale e affettivo con loro, e come dare maggior efficacia alle relazioni interne al nostro presbiterio. Anche per questo le figure di Pastori santi restano per noi riferimenti vivi e vitali e non a caso Benedetto XVI ha indicato san Giuseppe Cafasso come icona per il dopo Anno Sacerdotale (cfr Udienza generale, 30 giugno 2010).
Il sacerdozio comporta un continuo e costoso lavorìo interiore, al fine di perdere se stessi per ritrovarsi. Di più: il sacerdote deve arrivare all’identificazione di sé con l’"io" di Cristo: per questo «vivere l’Eucaristia nel suo senso originario, nella sua vera profondità» è l’epicentro e l’evento fontale, è la «scuola di vita, è la sicura protezione contro ogni tentazione di clericalismo» (cfr Benedetto XVI, Colloquio con i Sacerdoti, 10 giugno 2010). E in ragione del nostro essere attratti e «tirati fuori» da Lui, il celibato è da intendersi come un andare «verso il mondo della risurrezione, verso la novità di Cristo, verso la nuova e vera vita» (ib). È la condizione affinché, a nostra volta, abbiamo a «tirare» gli altri, compreso il nostro tempo, verso il vero presente, la realizzazione plenaria, la gioia senza ombre. Per questo osiamo dire che l’Anno Sacerdotale ci ha confermati in un ideale sempre più bello e luminoso del sacerdozio. Ci ha aiutato a capire meglio perché dobbiamo fidarci della Chiesa e ad essere, ad un tempo, critici verso il mondo, critici – ben inteso – secondo il criterio della fede (ib).
Nel nostro animo di sacerdoti, siamo angustiati per l’Italia. È anche il nostro Paese, vi sono radicate le nostre Chiese, ci vivono i nostri fedeli, da secoli vi risuona il Vangelo, con il quale saremmo pronti a dare la nostra stessa vita (cfr 1Ts 2,8). Anche a noi è capitato di vivere, nell’ultimo periodo, momenti di grande sconcerto e di acuta pena per discordie personali che, diventando presto pubbliche, sono andate assumendo il contorno di conflitti apparentemente insanabili; e questi sono diventati a loro volta pretesto per bloccare i pensieri di un’intera Nazione, quasi non ci fossero altre preoccupazioni, altri affanni. Siamo angustiati per l’Italia. Non per un’idea o l’altra – comunque astratte – dell’Italia, ma per l’Italia concreta, fatta di persone e comunità, ricca di risorse umane, avvezze a lavorare senza il timore della fatica, capaci di intraprendere e di creare, di applicarsi senza tregua, con fantasia e dedizione. Nazione generosa e impegnata, che però non riesce ad amarsi compiutamente, facendo fruttare al meglio sforzi e ingegno; che non si porta a compimento, in particolare in ciò che è pubblico ed è comune. Anche l’innegabile influsso di una corrente di drammatizzazione mediatica, che sembra dedita alla rappresentazione di un Paese ciclicamente depresso, finisce per condizionare l’umore generale e la considerazione di sé. Dovremmo invece essere stabilmente capaci della giusta auto-stima, senza cesure o catastrofismi, esattamente così come si è ogni giorno dedicati al lavoro che dà sostentamento alla propria famiglia. La verità delle situazioni non si sottomette a semplificazioni unilaterali, e spesso richiede un processo complesso e discreto, mentre in troppi si accontentano di piccole porzioni di verità, reali ma limitate, assolutizzate e urlate. A momenti, sembriamo appassionarci al disconoscimento reciproco, alla denigrazione vicendevole, e a quella divisione astiosa che agli osservatori appare l’anticamera dell’implosione, al punto da declassare i problemi reali e le urgenze obiettive del Paese. Alla necessaria dialettica si sostituisce la polemica inconcludente, spingendosi fino sull’orlo del peggio. Poi, alla vista dell’esito estremo, si raddrizza il tiro, ci si riprende; si tira un respiro di sollievo per scampato pericolo, finendo tuttavia – altro guaio – per tenere uno sguardo affezionato a quello che in precedenza era stato il campo di battaglia. Si preferisce indugiare con gli occhi tra le macerie, cercare finti trofei, per tornare a riprendere quanto prima la guerriglia, piuttosto che allungare lo sguardo in avanti, disciplinatamente orientato sugli obiettivi comuni, per i quali è richiesta una dedizione persistente e convergente.