martedì 28 settembre 2010

Prolusione del Cardinal Angelo Bagnasco - Seconda parte

 Continuiamo la pubblicazione della prolusione del Cardinal Angelo Bagnasco che si sofferma su molti temi di matrice sociale:


3.         Le prove – sappiamo – non abbandonano la Chiesa. In taluni momenti e in certi luoghi poi, queste prove assumono il carattere di vere e proprie persecuzioni, benché il termine, con il destino misterioso che esso evoca, vada usato con la opportuna prudenza. Anche oggi tuttavia il Vangelo si trova ad affrontare il martirio, esattamente come il Signore Gesù aveva preannunciato ai suoi discepoli (cfr Mt 10, 16-33). Un esito che finisce per riguardare soggetti con vocazione diversa: sacerdoti, religiose, e anche vescovi. Inevitabile per noi fare qui commossa memoria del confratello Luigi Padovese, vescovo francescano e amministratore apostolico dell’Anatolia. Ma il martirio non è, in questo tempo, risparmiato ai semplici cristiani, presenti in zone particolarmente critiche (come il Pakistan o certe regioni dell’India, o l’Iraq, la Nigeria, la Somalia), e neppure – paradossalmente – ai volontari che operano nelle trincee del mondo. Recentemente è successo a otto medici occidentali, caduti insieme a un loro collaboratore locale in un’imboscata talebana in Afghanistan. Fatti passare dapprima come spie, sono stati poi accusati di proselitismo, quando avevano semplicemente tra le loro cose la Bibbia. Sempre più spesso si deve prendere atto che neppure l’impegno professionale, profuso a servizio di popolazioni tra le più neglette, riesce a fare scudo. L’intolleranza religiosa assume allora la forma della cristianofobia. Uccidere appare l’unico modo per restare impermeabili al linguaggio dell’altruismo, che spaventa i violenti e inevitabilmente li eccita (cfr Benedetto XVI, All’Udienza generale, 7 luglio 2010). Simili testimonianze, spesso bagnate dal sangue, ci obbligano a verificare la nostra esistenza, a raddrizzarla mettendola meglio in asse con il Signore Gesù. Vorremmo sperare che il mondo libero ed evoluto non continui a sottovalutare questa emergenza, ritenendola in fondo marginale o irrilevante. Ci sono peraltro Paesi, come il nostro, che si stanno attivando affinché dagli Organismi internazionali venga messo definitivamente al bando questo genere di intollerabili discriminazioni. Dal canto suo, il Santo Padre - mentre fa appello ai «responsabili delle Nazioni Unite affinché garantiscano in modo reale, senza distinzioni e ovunque, la professione pubblica e comunitaria delle convinzioni religiose di ognuno» (Discorso alla Riunione delle Opere in Aiuto alle Chiese Orientali, 25 giugno 2010) - indica proprio nella «libertà religiosa» la «via per la pace» su cui riflettere in occasione della Giornata mondiale del 1° gennaio 2011.   
In ogni caso, non accettando la sottovalutazione dei travagli e delle tribolazioni che, nei suoi figli più esposti, la Chiesa affronta in varie parti del mondo, meriterà ricordare che il vero pericolo viene da chi, insieme al corpo, uccide anche l’anima (cfr Mt 10,28). E che cosa la uccide, se non la malizia che alberga nel cuore dell’uomo (cfr Mc 7,15)? «Il danno maggiore – diceva il Papa nella solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo (Omelia, 29 giugno 2010) – la Chiesa lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità, intaccando l’integrità del Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia, appannando la bellezza del suo volto». Il «non praevalebunt», che sta nella promessa finale di Cristo (cfr Mt 16,18), non può garantirci a riguardo degli «atteggiamenti negativi» dai quali talora ci lasciamo contagiare: egoismo, vanità, orgoglio, attaccamento al denaro, divisioni…– perché garantisce la realtà della Chiesa che vive la sua unione con Cristo (cfr. Omelia cit.).
Come non pensare anche a quei sacerdoti che si sono macchiati di inqualificabili crimini, con abusi su bambini e ragazzi, segnando con ciò in maniera profonda le loro giovani esistenze? Dal Papa, pellegrino in terra inglese, sono ripetutamente venute parole nuove e dure di condanna per i responsabili di questi atti. Al centro delle sue preoccupazioni tuttavia, egli ha posto le vittime, le cui «immense sofferenze causate dall’abuso […], specialmente nella Chiesa e da parte dei suoi ministri», ha inteso collegare al mistero della sofferenza di Cristo (cfr Omelia nella Cattedrale di Westminster, 18 settembre 2010). Il suo parlare sincero e disarmato, che nulla nasconde anche di ciò che è fortemente amaro; il suo rivelarsi realmente determinato a rimuovere dal costume ecclesiale un delitto angosciante; il suo umile metter mano alle regole, per renderle più cogenti, com’è accaduto con le nuove norme “De gravioribus delictis”, senza tuttavia mistificare i dati di una condizione – quella del pedofilo – esistenzialmente tragica… sono alcune delle vibrazioni che il Papa è riuscito a trasmettere, e che in una congiuntura particolarmente critica gli hanno procurato un raggio di interlocuzione per nulla scontato. È ciò, d’altra parte, che lo rende sempre più caro al popolo cristiano e spinge anche impensabili osservatori ad apprezzarne il messaggio, secondo un profilo meno angusto. Le sue parole – verso i responsabili e verso le vittime – sono anche le nostre, mentre come Vescovi, sempre alla luce delle direttive della Santa Sede, continuiamo quell’opera di più esigente discernimento e di rigorosa formazione dei candidati al sacerdozio, di accompagnamento del nostro clero, di decisa vigilanza, di intervento, di sostegno umano e cristiano per tutti.



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