mercoledì 10 novembre 2010

Prolusione del Cardinal Bagnasco: un piano per il lavoro

In questi giorni, abbiamo visto una presa di posizione della Chiesa nei confronti della politica italiana, troppo galleggiante e poco attenta ai reali bisogni del Paese, soprattutto nell'ambito del lavoro. Noi condividiamo la prolusione del Cardinal Angelo Bagnasco e per questo la pubblichiamo interamente qui, per il suo forte valore socio-politico:

Venerati e Cari Confratelli,

come già lo scorso anno, anche in questo 2010 ci ritroviamo in autunno, ad Assisi, per un’assemblea residenziale, al cui ordine del giorno figurano argomenti importanti, meritevoli di una considerazione approfondita e di una circolarità di valutazione quali scaturiscono dalla collegialitas affectiva che è consolazione e stimolo del nostro ministero.

Esprimiamo fin d’ora la nostra gratitudine ai Frati Minori che gentilmente ci ospitano nella loro Domus Pacis e in edifici ad essa adiacenti, alle Suore Francescane Missionarie di Gesù Bambino e alle Suore Francescane Alcantarine che vi cooperano con tanta sollecitudine. Un saluto particolarmente cordiale lo dobbiamo al Vescovo di questa Chiesa assisiate, S.E. Mons. Domenico Sorrentino, e fin d’ora gli assicuriamo il nostro speciale ricordo all’altare del Signore. Deferente ossequio rivolgiamo al Nunzio Apostolico in Italia, l’Arcivescovo Giuseppe Bertello, e lo ringraziamo sentitamente per l’affabilità della sua presenza e per le parole che vorrà rivolgerci.

All’inizio dei nostri lavori salutiamo i Presuli che, nei mesi trascorsi dall’ultima Assemblea Generale, il Santo Padre ha chiamato a far parte della nostra Conferenza:
- S.E. Mons. Guglielmo Borghetti, Vescovo di Pitigliano – Sovana – Orbetello;
- S.E. Mons. Vito Angiuli, Vescovo eletto di Ugento – Santa Maria di Leuca;
- S.E. Mons. Douglas Regattieri, Vescovo eletto di Cesena – Sarsina;
- S.E. Mons. Emidio Cipollone, Arcivescovo eletto di Lanciano – Ortona;
- Dom Diego Gualtiero Rosa, Abate Ordinario di Monte Oliveto Maggiore.
Affidiamo con fiducia il loro ministero al Signore, grati del contributo che vorranno recare alla nostra Conferenza Episcopale, nella comunione delle Chiese d’Italia.
Hanno terminato il servizio pastorale attivo:
- S.E. Mons. Gerardo Pierro, Arcivescovo emerito di Salerno – Campagna – Acerno;
- S.E. Mons. Sebastiano Dho, Vescovo emerito di Alba;
- S.E. Mons. Ercole Lupinacci, Vescovo emerito di Lungro;
- S.E. Mons. Carlo Ghidelli, Arcivescovo emerito di Lanciano – Ortona;
- S.Em. Card. Severino Poletto, Arcivescovo emerito di Torino;
- Dom Michelangelo Riccardo Tiribilli, già Abate Ordinario di Monte Oliveto Maggiore;
- Dom Benedetto Chianetta, già Abate Ordinario di Santissima Trinità di Cava de’ Tirreni.

A loro va la nostra riconoscenza per il generoso servizio alle Chiese particolari loro affidate e per il contributo di idee alla Conferenza Episcopale. Affidiamo alla misericordia del Padre, S.E. Mons. Alberto Ablondi, Vescovo emerito di Livorno, già Vice Presidente della CEI, e S.E. Mons. Simone Scatizzi, Vescovo emerito di Pistoia. Il Signore ricompensi i suoi servi fedeli.

Fra qualche settimana inizierà per la Chiesa, in concomitanza col nuovo anno liturgico, il periodo dell’Avvento, che è tempo forte anche per noi Vescovi, chiamati «a servire la Chiesa con lo stile del Dio fatto uomo» (Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi di recente nomina, 11 settembre 2010). E proprio sotto questo profilo, desideriamo ricordare, nel centenario della sua nascita, il cardinale Antonio Poma, arcivescovo di Bologna, che fu presidente della nostra Conferenza per dieci anni – dal 1969 al 1979 – contribuendo a dotarla della sua attuale fisionomia. Pastore lungimirante e sapiente, affabile e austero, ebbe – come amava confidare – la vita segnata dall’evento conciliare, e in quella altissima scuola imparò la gioia del seminare e l’arte di custodire soprattutto − e nonostante le inquietudini del tempo − la comunione ecclesiale e, a fondamento di questa, la collegialità episcopale nei modi per l’Italia voluti dal Papa Paolo VI. A lui e alle altre indimenticabili figure di Pastori che ci hanno preceduto negli anni del Concilio Vaticano II, va la nostra commossa memoria e la perenne riconoscenza della Chiesa pellegrina in questo Paese.

1. Con un gesto semplice e inatteso, Benedetto XVI ha indirizzato – il 18 ottobre scorso, festa di san Luca evangelista – una Lettera ai seminaristi, come per consegnare loro – in una ideale staffetta – il testimone dell’importantissima iniziativa dell’Anno Sacerdotale da poco concluso. Di quest’Anno, il citato documento è come compendio e corona. Un testo ispirato, pervaso di confidenza e di amicizia che inizia con una scena di vita personale datata dicembre 1944. Il giovane Ratzinger intuiva che, dopo le enormi devastazioni causate dalla follia nazista, «ci sarebbe stato bisogno più che mai di sacerdoti». Anche oggi c’è questo bisogno, in un’ora in cui «l’uomo cerca rifugio nell’ebbrezza o nella violenza, dalla quale proprio la gioventù viene sempre più minacciata». Ma – ecco il fatto sconvolgente – «Dio vive. Ha creato ognuno di noi e conosce, quindi, tutti. È così grande che ha tempo per le nostre piccole cose […] ha bisogno di uomini che esistono per Lui e che Lo portano agli altri». Dio «non è un’ipotesi distante, non è uno sconosciuto che si è ritirato dopo il “big bang”». Egli si è mostrato in Gesù Cristo, nelle cui «parole sentiamo Dio stesso parlare con noi»: parlare e chiamarci con amore. È il lieto annuncio che riguarda personalmente ogni seminarista, raggiunto nella sua personalissima esistenza, come ghermito dalla grazia, giacché proprio di lui Dio ha bisogno. «Oggi – è sempre il Papa a parlare, commentando la vocazione di sant’Angela da Foligno – siamo tutti in pericolo di vivere come se Dio non esistesse: sembra così lontano dalla vita odierna. Ma Dio ha mille modi, per ciascuno il suo, di farsi presente nell’anima, di mostrare che esiste e mi conosce e mi ama» (Benedetto XVI, All’Udienza generale, 13 ottobre 2010). A quanti hanno risposto sì, il Papa dice: «Avete fatto bene […]. Sì, ha senso diventare sacerdote: il mondo ha bisogno di sacerdoti, di pastori, oggi, domani e sempre, fino a quando il mondo esisterà» (Benedetto XVI, Lettera cit.).

Il testo continua e dettaglia l’itinerario tipico di un giovane che tende al sacerdozio. Si sofferma sul rapporto intimo che lega a Dio. Il vero bene è stare vicino a Lui: «Lo abbiamo sempre davanti ai nostri occhi come punto di riferimento della nostra vita». Egli non è solo parola, «si dona a noi in persona, attraverso cose temporali». Con l’Eucaristia riceviamo il «nostro pane quotidiano»; grazie al sacramento della Penitenza impariamo ad essere onesti con noi stessi, a non fingere, a non dar corso ad alcuna doppia vita, a opporci cioè all’abbrutimento dell’anima, «all’indifferenza che si rassegna al fatto che siamo fatti così». Ricorda poi che la fede cristiana «ha una dimensione razionale e intellettuale che le è essenziale» e che richiede uno studio assiduo. E ancora si fa intrepido, il Papa, evocando «il giusto equilibrio» tra cuore e intelletto, un equilibrio che sia «umanamente integro», perché «quando non è integrata nella persona, la sessualità diventa banale e distruttiva allo stesso tempo». Comprensibile qui l’accenno agli abusi orribili che anche di recente sono venuti a galla, ma per concludere: «Ciò che è accaduto deve renderci più vigilanti e attenti» (ib).
Noi Vescovi d’Italia sentiamo vivo bisogno di ringraziare il Papa per questo atto di paternità e di magistero: vorremmo infatti che nell’abbondanza dei documenti e delle proposte, esso conservasse un posto di tutta evidenza nella crescita e nella formazione dei nostri seminaristi. Che figurasse tra le cose essenziali che ognuno di questi giovani porta con sé, ricorrendovi spesso come prova di quel colloquio «cuore a cuore» che è sempre stato decisivo nella tradizione educativa della Chiesa. Tradizione che oggi, in una stagione di soggettivismi leggeri e smodati, richiede invece interpreti, come il beato John Newman, sapienti e illuminati.

2. Dai seminaristi ai giovani. Da tempo infatti è in corso l’itinerario di avvicinamento alla 26ª Giornata mondiale della Gioventù, in calendario per l’agosto 2011, a Madrid, con la presenza del Papa che, quindi, ritornerà in Spagna dopo l’importante visita compiuta tra sabato e domenica, avendo per tappe Santiago de Compostela e Barcellona. Il Messaggio che il 6 agosto scorso è stato diffuso, è dunque già nelle mani dei nostri giovani, i quali si stanno preparando a vivere questa esperienza che ancora una volta potrà rivelarsi «decisiva per la vita» (ib). Il tema è, come tutti sappiamo: “Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede”, e sulle sue note Benedetto XVI ha composto un testo in cui qualcuno ha visto quasi una mini-enciclica scritta apposta per i giovani che spesso mancano di punti di riferimento veri: «Il relativismo diffuso – riflette il Papa − secondo il quale tutto si equivale e non esiste alcuna verità, né alcun punto di riferimento assoluto, non genera la vera libertà, ma instabilità, smarrimento, conformismo alle mode del momento». «Il giovane è come un albero in crescita: per svilupparsi bene ha bisogno di radici profonde che, in caso di tempeste, lo tengano ben piantato al suolo» (Benedetto XVI, Angelus, 5 settembre 2010). Riteniamo con ciò che il lavoro pastorale che si è sviluppato attorno alle GMG, meriti una considerazione serena e non sbrigativa. Noi Pastori abbiamo la grazia di vivere tra i giovani e ben ne conosciamo aspirazioni e problemi, slanci e fragilità. Se da una parte sembra che la secolarizzazione abbia trionfato – e lo ha fatto per diverse partite – dall’altra, nel suo insieme, si presenta come terra impalpabile che promette una libertà senza vincoli in cambio di solitudine senza futuro. Ma una libertà che si arrotola sulla sua assolutezza è triste e mortale. La nostalgia di felicità vera, di luce e respiro, è incomprimibile e reagisce: fa dei giovani dei cercatori di infinito, dei cercatori di Dio e dei suoi sentieri Questi sentieri hanno la libertà dello Spirito: attraversano la vita ordinaria delle Parrocchie e dei gruppi, si vestono anche dell’abito straordinario di occasioni ed eventi come la felice intuizione e la decisa prosecuzione delle Giornate Mondiali della Gioventù. Tutto ciò che si vive – anche oltre l’ordinario – lascia il segno nell’anima e rifluisce nella vita quotidiana di ciascuno. Per questo noi Vescovi incoraggiamo i giovani, da qualunque ambiente provengano, a non mancare alla GMG, vero appuntamento di grazia.

I milioni di pellegrini che si sono messi in marcia per l’Anno santo compostelano, come quelli che nei mesi precedenti avevano cercato nell’icona della Sindone l’ombra misteriosa del Gesù storico, o che si sono messi in fila per venerare i resti mortali di Sant’Antonio da Padova o di San Pio da Pietrelcina, o che hanno raggiunto Lourdes, Fatima, Loreto, Pompei, come i singoli Santuari che costellano le nostre regioni, o ancor più i Luoghi della Terra Santa, sono un segno che merita un’attenta considerazione, e non solo nostra. Non sfugga l’autocritica dello studioso americano, anche da noi assai noto, Georg Weigel: troppo presto – ha detto in sostanza – ho sentenziato sulla decadenza del cattolicesimo europeo. Oggi mi sento obbligato a cercare una risposta più plausibile che tenga debitamente conto dei fenomeni di pietà popolare che sono indubbiamente in contro tendenza, e a loro modo incoraggianti (cfr Avvenire, 10 ottobre 2010, Agorà pag. 1). Ben sappiamo che queste esperienze alimentano la vita cristiana e, non di rado, l’accendono. Devono però trovare nelle nostre comunità dei focolari vivi e l’accompagnamento disponibile dei nostri Sacerdoti.
L’istituzione da parte del Santo Padre di un Pontificio Consiglio impegnato nella nuova evangelizzazione, come il Motu proprio Ubicumque et semper che lo avvia, e infine l’annuncio per il 2012 di un Sinodo mondiale sulla nuova evangelizzazione, a 38 anni di distanza da quello voluto da Paolo VI e dal quale nacque l’Evangelii Nuntiandi, prospettano il cammino che la Sede Apostolica intende perseguire. E sono per noi indizi che ci confermano sull’orizzonte cui merita mirare per attraversare, senza complessi e con determinazione, i processi di secolarismo in atto.

3. Uno degli ambiti che saranno considerati nel corso di questa assemblea è la vita liturgica della Chiesa che è in Italia. Giunge infatti a conclusione la traduzione della prima parte dell’editio typica tertia del Messale Romano. Naturalmente non entro nel merito di quello che concretamente sarà sottoposto al vaglio comune; mi limito, con la vostra benevolenza, a dire una parola sul tema più ampio. La liturgia, infatti, «mediante la quale – afferma il Concilio Vaticano II – , specialmente nel divino Sacrificio dell’Eucaristia, ‘si attua l’opera della nostra Redenzione’, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa, che ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e, tuttavia, pellegrina; tutto questo in modo che ciò che in lei è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla futura città verso la quale siamo incamminati» (Sacrosanctum Concilium, n. 2). Parole che non solo hanno la forza della chiarezza, ma che commuovono l’anima e inquadrano l’orizzonte della nostra missione: «La liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù. Poiché il lavoro apostolico è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il Battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al Sacrificio e alla mensa del Signore» (ib, n. 10).

La liturgia è talmente al cuore della vita e del mandato ecclesiale che, come è noto, il primo dei sedici volumi dell’Opera omnia di Papa Benedetto XVI, è quello dedicato agli scritti liturgici. E parlando − appunto − del Concilio, Benedetto XVI osserva che «cominciando con l’argomento della liturgia, si poneva inequivocabilmente in luce il primato di Dio, la priorità assoluta del tema ‘Dio’. Prima di tutto Dio: questo dice l’iniziare con la liturgia. La dove lo sguardo su Dio non è determinante, ogni altra cosa perde il suo orientamento» (Joseph Ratzinger, Opera omnia, Teologia della liturgia, Libreria Editrice Vaticana, pagg. 5-6). Se «la gloria di Dio − come afferma sant’Ireneo – è l’uomo vivente, ma la vita dell’uomo è vedere Dio», allora la gloria di Dio è l’uomo che guarda a Dio e si lascia guardare da Dio, è l’uomo che riceve la forma della sua vita dallo sguardo rivolto a Cristo: la liturgia è infatti l’incontro tra il volto dell’uomo e quello di Dio in Gesù. Da questo incontro di sguardi e di cuori l’uomo trova gli altri e li riconosce fratelli, e la Chiesa si rinnova nel suo mistero e nella sua missione. Accennando poi ai suoi lavori sulla liturgia, il Papa precisa: «Il mio obiettivo non erano i problemi specifici della scienza liturgica, ma sempre l’ancoraggio della liturgia all’atto fondamentale della nostra fede e quindi anche il suo posto nell’insieme della nostra esistenza umana» (ib, pag. 6). Veramente la liturgia è il fuoco dal quale si accende la vita, e il grande Protagonista è Cristo: «La singolarità della liturgia eucaristica consiste appunto nel fatto che è Dio stesso ad agire e che noi veniamo attratti dentro a questo agire di Dio» (Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Davanti al Protagonista, Cantagalli Edizioni, pag. 123). Sono solo alcune parole che appartengono alla nostra vita di discepoli e di Pastori, e che ci possono aiutare nell’impegno di questi giorni.

4. Una vasta eco ha avuto, all’interno del recente viaggio compiuto da Benedetto XVI nel Regno Unito, il Discorso che egli ha pronunciato nell’incontro con le Autorità civili (il 17 settembre 2010). Invitato dalla Regina Elisabetta a compiere il primo viaggio di Stato di un Pontefice romano in quella nazione cruciale per le sorti del cristianesimo dell’età moderna, il Papa ha avuto quello che lui stesso ha chiamato il «privilegio» di parlare nella Westminster Hall, edificio simbolicamente unico nella storia della democrazia non solo inglese. Ebbene, in una circostanza tanto significativa, ha affrontato quella che è la vertenza nodale di ogni democrazia, chiamata a confrontarsi con le sfide della modernità avanzata e del dominio tecnologico. «Dove – si è chiesto – può essere trovato il fondamento etico per le scelte politiche?», convogliando su questo interrogativo anche le «esigenze che i governi possono ragionevolmente imporre ai propri cittadini, e fin dove esse possono estendersi».

Nello stesso contesto, s’è domandato anche : «A quale autorità ci si può appellare per risolvere i dilemmi morali?» (ib). Questioni cruciali, appunto, che evocano il terreno su cui si svolge oggi «la reale sfida per la democrazia». L’argomentazione svolta – raccontano le cronache – ha colpito gli interlocutori. Ci si attendeva probabilmente un discorso modulato su un impianto confessionale o emozionale, e invece è stato ancora una volta articolato dalla parte della ragione, attraverso un susseguirsi logico di argomenti plausibili per se stessi. «Le norme obiettive – ha detto – che governano il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione». E sono leggi scritte nel modo più vincolante e stringente che se fossero stillate da mano d’uomo, o fossero istruite attraverso un consenso partecipato eppure transeunte. Sono regole desumibili dalla struttura dell’uomo stesso, quale bene che sta al vertice, indisponibile per qualunque transazione. Solo indicando l’uomo nella sua integralità, dotato di diritti incomprimibili, e salvaguardato prima di ogni ulteriore determinazione politica, si ha il codice basilare, quello che acquista il valore di fondamento razionale oggettivo comune a tutti i popoli.

In altre parole, il rinvio alla legge iscritta anzitutto nella natura umana, diventa la garanzia per ogni persona di poter affermare la propria dignità non a motivo di circostanze più o meno benevole o a convenzioni più o meno illuminate, ma in ragione della verità profonda della propria essenza personale. L’uomo non è un prodotto della cultura che, nel proprio evolversi, si compiace di elargire questo o quel riconoscimento; l’uomo in sé è il valore per eccellenza, che di volta in volta si rifrange in una cultura che tale è quando non lo imprigiona, consentendogli di porsi in una continua tensione verso la pienezza della verità.

Esiste, insomma, un «terreno solido e duraturo» (Benedetto XVI, Discorso ai Rappresentanti del Consiglio d’Europa, 8 settembre 2010) che è quello dei principi o valori «essenziali e nativi» (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 71), detti anche «non negoziabili», e che sono definiti tali non perché non si debbano argomentare ma perché, nel farlo e nel legiferare, non possono essere intaccati in quanto inviolabili, inalienabili e indivisibili (cfr Benedetto XVI, Discorso cit.). Appartengono, per così dire, al DNA della natura umana, al ceppo vivo e originario di ogni altro germoglio valoriale. Il Santo Padre, nella Caritas in veritate, dopo aver osservato che «la verità dello sviluppo consiste nella sua integralità» (n. 18), dichiara che il vero sviluppo ha un centro vitale e propulsore, e questo è «l’apertura alla vita» (n. 28). Infatti, quando una società si incammina verso la negazione della vita, «finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono» (ib). In questo decisivo orizzonte, si pone la recente Dichiarazione del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, a conclusione dell’incontro svoltosi in Croazia: «Siamo convinti che la coscienza umana è capace di aprirsi ai valori presenti nella natura creata e redenta da Dio per mezzo di Gesù Cristo. La Chiesa, consapevole della sua missione di servire l’uomo e la società con l’annuncio di Cristo Salvatore, ricorda le implicazioni antropologiche e sociali che da Lui derivano. Per questa ragione non cessa di affermare i valori fondamentali della vita, del matrimonio fra un uomo e una donna, della famiglia, della libertà religiosa e educativa: valori sui quali si impianta ed è garantito ogni altro valore declinato sul piano sociale e politico» (Assemblea plenaria CCEE, Zagabria 3 ottobre 2010). Senza un reale rispetto di questi valori primi che costituiscono l’etica della vita, è illusorio pensare ad un’etica sociale che vorrebbe promuovere l’uomo ma in realtà lo abbandona nei momenti di maggiore fragilità. Ogni altro valore, infatti, necessario al bene della persona e della società – il lavoro, la salute, la casa, l’inclusione sociale, la sicurezza, l’ambiente, la pace… – germoglia e prende linfa dai primi. Mentre staccati dall’accoglienza in radice della vita, potremmo dire della «vita nuda», questi ultimi valori inaridiscono e perdono di senso.

A chi sostiene che i valori essenziali, in quanto non negoziabili, sarebbero divisivi per il tessuto sociale, e quindi inopportuni e scorretti, vorrei dire invece che, a ben vedere, essi sono intrinsecamente dotati di una forza unitiva che si esprime a più livelli e in più ambiti. Si pensi al principio di uguaglianza tra tutti i cittadini: quanto è decisivo il fatto che – nonostante le diversità che si possono registrare sotto diversi profili – gli uomini siano essenzialmente eguali, e come tali possano combattere le disuguaglianze e costruire società e culture strutturate sulle «pari opportunità»? Serve qui comprendere che un criterio comportamentale acquista spessore e autorevolezza quando, anziché essere motivato solo da convenienze pragmatiche, è radicato sul terreno ontologico, connesso cioè con la natura stessa dell’uomo. Questi valori tuttavia risultano unitivi anche in un'altra accezione: rappresentano il vincolo che può di volta in volta dare espressione all’unità politica dei cattolici, ovunque essi si collochino in base alla loro opzione politica. Quanto poi alla scena internazionale, questi valori sono la base insostituibile e conveniente, dunque non arbitraria o strumentale, per l’azione che viene condotta dalle istituzioni comunitarie. In ragione infatti della loro stabilità, universalità e interpretazione in ogni caso favorevole alla persona, costituiscono il presupposto per il dialogo possibile tra culture, religioni e Stati sovrani (cfr Benedetto XVI, Discorso cit.). Su molte questioni si procede attraverso mediazioni e buoni compromessi, ma ci sono valori che, per il contenuto loro proprio, difficilmente sopportano mediazioni, per quanto volonterose, giacché non sono né quantificabili né parcellizzabili, pena trovarsi di fatto negati.

5. Anche da qui discende il ruolo della religione in ambito politico-sociale, che non è quello di «fornire» le norme obiettive che regolano il retto agire «come se esse non potessero esser conosciute dai non credenti; ancor meno è quello di proporre soluzioni politiche concrete – cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione – bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce nell’applicazione della ragione, nella scoperta dei valori morali oggettivi» (Benedetto XVI, Discorso con le Autorità cit.,). E dà un nome, il Papa, a questo compito della religione nei riguardi delle cose della ragione: è un ruolo – dice – «correttivo», nel senso che – illuminando – recupera la profondità dei singoli principi e, ad un tempo, rischiara sull’applicazione che ne viene fatta, aiutando dunque, quando serve, a rettificare le distorsioni, a indirizzare meglio l’azione, a non lasciarsi deviare dai riduzionismi concettuali o dalle manipolazioni ideologiche, a non confondere mai il fine coi mezzi e viceversa. Ma nella visione di Benedetto XVI, anche la ragione ha, a sua volta, un compito «purificatore» e «strutturante» da svolgere all’interno della religione, in particolare nell’arginare fenomeni come il settarismo o il fondamentalismo religioso, nei quali il deficit di razionalità è generalmente uno dei fattori caratteristici. Si tratta cioè di «un processo che avviene nel doppio senso», ossia in una reciprocità all’interno della quale nessuna delle due diverse realtà – ragione e religione – viene umiliata. E conclude, il Papa: «Per questo vorrei suggerire che il mondo della ragione ed il mondo della fede – il mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso – hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà» (ib). Chi non coglie l’impostazione realistica che è sottesa a questa visione? La religione infatti, diversamente da quanto preconizzato in frettolose previsioni, continua ad avere un ruolo importante nella vita della gente.

A trovarsi immediatamente corretta qui è anche la prospettiva di uno Stato «neutrale», evidentemente ingenua e non avvalorata fino ad oggi da esperienze in grado di imporsi per credibilità ed efficacia. Se uno Stato, in nome di un’ipotetica neutralità o di altri pregiudizi, non si allarmasse a fronte di un prosciugamento dei presupposti etico-culturali cui deve invece attingere se vuole prosperare, come potrà rispondere con solidarietà e giustizia a situazioni e sfide emergenti? Ad esempio, di fronte a ondate di nuovi cittadini che, per età o storia personale, non hanno sufficientemente interiorizzato il codice fondativo della nazione in cui vivono? Oppure a fronte della stessa crisi economico-finanziaria? E come potrebbe la collettività garantirsi una continuità di ideali e una gradualità di evoluzione nei costumi se non c’è l’apporto, sul piano educativo e culturale, di agenzie in grado di ricaricare la riserva interiore e morale di cui ogni Paese necessita nel fronteggiare le spinte più tumultuose quando non le degenerazioni più disinibite? Ecco la ragione per cui, con passo mite ma a fronte alta, il Papa − dinanzi al più antico Parlamento del mondo − ha detto: «La religione per i legislatori non è un problema da risolvere, ma un fattore che contribuisce in modo vitale al dibattito pubblico della nazione» (ib). Il privatismo religioso si sta rivelando un’ipotesi asettica sul piano sociologico e avvizzita sul piano esistenziale. Per uno Stato moderno, l’autoreferenzialità valoriale si rivela presto infeconda e propiziatrice di inedite paure.

Che in una società pluralista le Chiese possano essere se stesse, e secondo il loro statuto capaci di interloquire potenzialmente con tutti, esercitando al meglio le proprie attitudini di annuncio teologale, di educazione per i più giovani, di formazione delle coscienze, di riserva critica, di partecipazione ragionata al dibattito pubblico, è una risorsa non surrogabile; come lo è la presenza di un cattolicesimo interferente con il più vasto tessuto culturale. Aspettarsi che i cattolici circoscrivano il loro apporto all’ambito sempre importante della carità – fosse pure per contribuire ai doveri dello Stato in ordine al bene comune – significa scadere in una visione utilitaristica, quando non anche autoritaria. I cattolici non possono consegnarsi all’afasia, ideologica o tattica: se lo facessero tradirebbero le consegne di Gesù ma anche le attese specifiche di ogni democrazia partecipata.

6. A nessuno oggi, nei Paesi liberi, viene formalmente inibito di manifestare liberamente le proprie posizioni culturali o religiose. Ma agisce sottilmente un conformismo per il quale «diventa obbligatorio pensare come pensano tutti, agire come agiscono tutti. Le sottili aggressioni contro la Chiesa, al pari di quelle meno sottili, dimostrano come questo conformismo possa realmente essere una vera dittatura» (Benedetto XVI, Omelia alla Pontificia Commissione Biblica, 15 aprile 2010). Per quel che ci riguarda, nell’orizzonte di una benevolenza complessiva, dobbiamo muoverci senza complessi di inferiorità (cfr. Benedetto XVI, Messaggio per la 46ª Settimana sociale dei cattolici italiani), perché questo è esigito dalla dignità di ciò in cui si crede. Siamo, e come, interessati alla vita della società; in essa ci si coinvolge con stile congruo, ma a determinarci non sono l’istinto di far da padroni né logiche di mera contrapposizione

Si deve obbedire più a Dio che agli uomini (cfr At 4,19), «ma ciò suppone che conosciamo veramente Dio e che vogliamo veramente obbedire a Lui» (Benedetto XVI, Omelia cit.). Se nei vari campi, i credenti conoscono solo le parole del mondo, e non dispongono all’occorrenza di parole diverse e coerenti, verranno omologati alla cultura dominante o creduta tale, e finiranno per essere anche culturalmente irrilevanti. Il punto non è una smania di rilevanza, ma il dovere di servire. L’immagine insuperabile cui rifarci è quella evangelica del «sale della terra» e della «luce del mondo» (cfr Mt 5, 13-14), dove il sale suggerisce lo stile dell’incarnazione, la discesa nella pasta della storia per diventare vicinanza e condivisione rispetto alla vita di tutti. Mentre la luce della città posta sul monte ricorda al discepolo, come a tutta la Chiesa, che la visibilità non è quella artefatta, inseguita per apparire e mostrarsi, ma quella intrinseca all’essere, e dunque dello stare – quando serve – anche in faccia al mondo. Viene facile notare, al riguardo, come Gesù assuma toni non tanto esortativi, dicendo “siate” sale e luce, ma affermi perentorio che i discepoli “sono” sale e luce, rivelando così ciò che Egli ha fatto non solo per loro, ma di loro. Va da sé che la mitezza non è scambiabile con la mimetizzazione, l’opportunismo, la facile dimissione dal compito. Bisogna invece che noi salviamo l’autonomia della coscienza credente rispetto alle pressioni pubblicitarie, ai ragionamenti di corto respiro, ai qualunquismi variamente mascherati, alle lusinghe. In questo senso capiterà talora di essere scomodi, ma non sarà per posa o per pregiudizio, quanto per sofferta, umile, serena coerenza.

Su questo orizzonte desidero collocare il felice esito della recente Settimana sociale, convocata a Reggio Calabria nel mese di ottobre, come di una occasione che ha segnato un passo in avanti rispetto a elaborazioni precedenti. E tra le ragioni del genuino successo, c’è senz’altro quella di essersi svolta al Sud, in quella terra calabra non poco tribolata, la quale tuttavia sa puntualmente raccontare come esista un altro Meridione, motivo di fierezza e di consolazione per l’Italia tutta. L’altra circostanza positiva è stata assicurata dalla consistente rappresentanza giovanile che figurava in assemblea come tra i volontari. E con i giovani, la Settimana ha parlato delle esperienze di riscatto, di maturazione delle coscienze, della necessità di leggere al positivo anche i momenti socialmente più difficoltosi. Un terzo motivo di riuscita è da individuarsi nella chiave della speranza per cercare di leggere e di ordinare i problemi secondo un’agenda propositiva, in modo ragionato e plausibile, e comunque non schiacciata sul pessimismo dilagante. Un quarto elemento è l’aver messo al centro di ogni problematica storica e sociale la “questione antropologica” nella sua integralità, sulla scorta dell’enciclica Caritas in veritate. Vogliamo dunque esprimere la gratitudine più sincera, da una parte all’Arcidiocesi di Reggio e al suo Pastore, S.E. Mons. Vittorio Mondello, per l’ospitalità pronta e generosa che hanno assicurato all’incontro e ai suoi partecipanti, e dall’altra al Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali e al suo Presidente, S.E. Mons. Arrigo Miglio, per l’intelligente dedizione con cui questa Settimana è stata pensata e realizzata: insieme – Arcidiocesi di Reggio Calabria e Comitato – hanno condotto in porto un’iniziativa di pregio, che rimarrà nella memoria della nostra comunità ecclesiale.

7. Nel contempo, vorrei segnalare come stia progressivamente emergendo, dal vissuto delle nostre Chiese, un approccio che ci pare sempre più consapevole – dunque meno imbarazzato e scevro anche da manicheismi – verso la dimensione politica, per ciò che essa è, e per quello che esprime ai vari livelli. Non c’è dubbio che si sia passati da un atteggiamento più preoccupato della denuncia, spesso anche veemente o semplicistica, ad un approccio più articolato ai problemi, seppure non meno pervaso di tensione etica e di slancio verso il futuro. La politica è esigente anche perché richiede un’attitudine di analisi che va acquisita con l’applicazione, così da superare un certo genericismo, e approdare invece a visioni più pertinenti e più incalzanti sui problemi, non per questo però meno attente sotto il profilo morale.

È probabile che allo stadio attuale si sia arrivati anche grazie alle tante attività e scuole di formazione socio-politica che negli ultimi vent’anni si sono dispiegate, senza dare forse quei risultati immediati sui quali si faceva affidamento. Hanno però attrezzato persone e gruppi ad esprimersi con una maggiore competenza e autonomia culturale. Sarà bene che nel prossimo futuro ci si interroghi su come, alla luce delle esperienze fatte, si possa procedere per favorire la maturazione spirituale e culturale richiesta a chi desidera servire nella forma della politica, e così preparare giovani all’esercizio di quella leadership che difficilmente può essere improvvisata. Dunque, la politica deve interessare i cattolici, e deve entrare nella loro mentalità un’attitudine a ragionare delle questioni politiche senza spaventarsi dei problemi seri che oggi, non troppo diversamente da ieri, sono sul tappeto. E soprattutto adottando un giudizio morale che non sia esclusivamente declamatorio, ma punti ai processi interni delle varie articolazioni e responsabilità sociali e istituzionali.

E i problemi hanno oggi obiettivamente una dimensione preoccupante. Non dimentichiamo certo che la crisi ha colpito il mondo e Paesi più ricchi del nostro, e neppure ci sfugge che molto si è fatto e ancora si sta facendo; ma purtroppo sembra non sufficiente rispetto ad una situazione critica che perdura e sotto alcuni profili si aggrava. Famiglie in difficoltà, adulti che sono estromessi dal sistema, giovani in cerca di occupazione stabile anche in vista di formare una propria famiglia, sono situazioni che continuano a farsi sentire con accoratezza. È necessario inoltre che le riforme in agenda siano istruite nelle maniere utili, perché non si indebolisca la rappresentatività politica. Finché infatti non si profilano condizioni realistiche di una maggiore stabilità per il Paese intero, è comprensibile che si avverta una sorta di esitazione e di diffusa incertezza. Si aggiunge a livello della scena politica una caduta di qualità, che va soppesata con obiettività, senza sconti e senza strumentalizzazioni, se davvero si hanno a cuore le sorti del Paese, e non solamente quelle della propria parte. Se la gente perde fiducia nella classe politica, fatalmente si ritira in se stessa, cade lo slancio partecipativo, tutto diventa pesante e contorto, ma soprattutto viene meno quella possibilità di articolata e dinamica compattezza che è assolutamente necessaria per affrontare insieme gli ostacoli e guardare al futuro del Paese. In causa qui è non solo la dimensione tecnicamente politico-amministrativa, ma anche quella culturale e morale che ne è, a sua volta, lo specifico orizzonte. Questo prende forma nella tensione necessaria tra ideali personali, valori oggettivi e la vita vissuta, tra loro profondamente intrecciati. In sostanza, è la politica intesa come «casa comune» quella che ancora una volta si propone quale aspirazione persuasiva ed urgente: alla casa tuttavia non basta un tetto, ha bisogno di strutture varie e elementi diversi, tra loro ben congegnati e connessi; e per vivere in essa in modo accettabile, c’è bisogno di un comune atteggiamento di fondo, che fa clima e rende possibile quel senso di appartenenza che motiva al sacrificio e dà senso all’impegno di tutti.

Dicevamo – un mese e mezzo fa – che, nel nostro animo di sacerdoti, «siamo angustiati per l’Italia» che scorgiamo come inceppata nei suoi meccanismi decisionali, mentre il Paese appare attonito e guarda disorientato. Non abbiamo peraltro suggerimenti tecnico-politici da offrire, salvo un invito sempre più accorato e pressante a cambiare registri, a fare tutti uno scatto in avanti concreto e stabile verso soluzioni utili al Paese e il più possibile condivise. Non è più tempo di galleggiare. Un rischio – lo diciamo con un senso di apprensione profonda –, è che il Paese si divida non tanto per questa o quella iniziativa di partito, quanto per i trend profondi che attraversano l’Italia e che, ancorandone una parte all’Europa, potrebbero lasciare indietro l’altra parte. Il che sarebbe un esito infausto per l’Italia, proprio nel momento in cui essa vuole ricordare – a 150 anni dalla sua unità – i traguardi e i vantaggi di una matura coscienza nazionale. Mentre tuttavia si fa quest’ultimo esame di coscienza, è possibile – chiediamo rispettosi – convocare ad uno stesso tavolo governo, forze politiche, sindacati e parti sociali e, rispettando ciascuno il proprio ruolo ma lasciando da parte ciò che divide, approntare un piano emergenziale sull’occupazione? Sarebbe un segno che il Paese non potrebbe non apprezzare. Grande vicinanza esprimiamo alle popolazioni che di recente sono state colpite da esondazioni e allagamenti, come in precedenza da smottamenti che hanno provocato violente trasformazioni del territorio. C’è di continuo una parte consistente della comunità nazionale che deve essere soccorsa e aiutata a risorgere, dovendo affrontare le conseguenze di eventi dovuti a calamità naturali, ma anche all’incuria e all’imperizia troppo spesso riservate all’habitat umano. Già in un’altra occasione, abbiamo avuto modo di osservare che il Paese abbisogna di un piano puntuale di messa in sicurezza del territorio, e che a quest’opera va riconosciuta la necessaria priorità, in un’ottica di concreta e solerte cooperazione tra i diversi livelli dell’amministrazione pubblica.

8. Una parola vorrei offrire ancora circa il tessuto connettivo della società italiana, che tiene nonostante le prove e le tensioni di una stagione non facile. Verrebbe da dire che le difficoltà temperano e probabilmente inducono non pochi a riscoprire il fascino di esperienze e testimonianze davvero forti, quelle «capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza» (Gaudium et spes, n. 31). Si sa che osservatori di altri Paesi, guardando più attentamente a quello che succede da noi, rilevano come una singolare opportunità la circostanza che in Italia non si sia ancora arrivati ad una vera e propria «disfatta educativa». Rinunciamo in questo momento ad approfondire le ragioni di questa affermazione, e assumiamo la provocazione positiva che potrebbe essere interna a tali parole. Non occorre cioè arrivare agli esiti ultimi prima di prendersi in carico la responsabilità di una risalita. La cronaca non manca, d’altra parte, di indicare come sintomi inquietanti episodi che danno la percezione di quanto profondo sia l’abisso in cui può cadere il cuore umano. Casi che probabilmente sono sempre accaduti nella storia delle comunità umane, e fatale sarebbe che, per una sorta di illuministica illusione, si pensasse che quasi all’improvviso spariscano dal costume. Per questo dobbiamo chiederci sempre di nuovo: che cosa stiamo facendo per mantenere o ricostituire il patrimonio spirituale e morale indispensabile anche all’uomo post-moderno? Non è che la nostra generazione vive, tutto sommato, ancora di rendita mentre le scorte si vanno esaurendo, anzi in varie situazioni sono già esaurite? Ecco il senso del piano decennale – Educare alla vita buona del Vangelo – che abbiamo da pochissimo varato e che ora è delineato negli “Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020”. Se potessimo anche solo per un istante parlare al cuore di ogni coppia di sposi e di ogni famiglia, noi Vescovi vorremmo dire loro una parola di fiducia, di incoraggiamento, di sostegno al loro essere nativamente votati ad educare. Non è impossibile l’impresa. Certamente non è facile, ma essa è assolutamente possibile, possibile anche a questa generazione di adulti, i quali sperimentano che crescere non è un automatismo legato all’età o ai titoli di studio, ma richiede la coltivazione di sé, la capacità di riflessione, la palestra delle virtù. L’educazione è anche questione di «ambiente»: una società, una famiglia ripiegate, litigiose, miopi − in una parola egocentriche − generano figli complessati, che si ritengono inferiori o superiori agli altri. Da genitori che rifiutano il dolore che è connesso al ruolo educativo, ai “no” che pur bisogna saper dire, discendono adolescenti scompaginati e atrofizzati dentro, incapaci di captare alcunché della cultura che li ha preceduti. Tra i singoli e l’insieme vi è sempre un circolo ermeneutico che dobbiamo saper evidenziare per il benessere comune. Non c’è crescita, non c’è maturità ad di fuori della fatica che queste esigono inderogabilmente da ciascuno, e rispetto alla quale non c’è esonero possibile, neppure se decretato per eccesso di amore. Occorre che sulla cultura del soggetto si innesti il principio di realtà, «qualcosa» che è ostico allo scetticismo imperioso di questi tempi fintamente allegri e spensierati; si innesti cioè quel realismo che è caratteristico della cultura classico-cristiana, per la quale le pulsioni interiori vanno regolate − e occorre saperlo fare − se non si vuol finire deragliati da se stessi.
Oggi, è vero, c’è una frontiera prodigiosa, quella mediatica comprensiva dei nuovi media, che esalta le opportunità di conoscenza e di relazione. È però anche una cultura capziosa che, mentre offre molto, se non si sta attenti ruba alla persona sempre qualcosa, e qualcosa di importante. Questo vale per i giovanissimi e i giovani per ore davanti ad internet, ma vale anche per gli adulti quando si lasciano drogare da una informazione morbosa che sembra dare sempre qualche particolare in più, mentre di fatto induce alla indifferenza e al cinismo. Inaridisce il cuore e suggerisce una serie di alibi per non migliorare se stessi. Nessuno ha rimpianti per stilemi autoritari e illiberali, per sistemi monopolistici e monoculturali; e tuttavia la corsa all’audience ha fatto raggiungere livelli di esasperazione brutale. «Essendo in concorrenza sempre più forte – osservava di recente il Papa – i mezzi di comunicazione si credono spinti a suscitare la massima attenzione possibile. Inoltre, è il contrasto che fa notizia in genere, anche se va a discapito della veridicità del racconto» (Benedetto XVI, Discorso al nuovo Ambasciatore di Germania, 13 settembre 2010). Forse, proprio in questo decennio, sarebbe necessaria una riflessione più profonda e onesta su questi meccanismi per ravvivare una responsabilità più grande ed incisiva verso la missione e le potenzialità proprie di questo straordinario mondo.

Come comunità ecclesiale vorremmo sommessamente dire all’intera comunità nazionale che, per quello che possiamo, per tutto quello che siamo e saremo in grado di mettere in campo in termini di passione educativa, di dedizione per la vocazione e la felicità delle nuove generazioni, noi continueremo ad esserci. Ci sono stati deficit e anche degli scandali, dei peccati di omissione e dei tradimenti della fiducia. Per di più, non sempre siamo stati pronti a identificare la gravità di certe azioni e abbiamo adeguatamente compreso che vi sono condizioni non guaribili con l’ammonizione, il pentimento, la volontà di ricominciare in situazioni nuove. Ci sono storture della psiche che necessitano di un pronto isolamento e di cure particolari, oltre che di una sanzione commisurata alle ingiustizie. Su questo fronte la comunità nazionale, che tanta stima e confidenza da sempre nutre verso la Chiesa, deve sapere che ha tutto il nostro impegno assunto nel modo più solenne. Abbiamo vivissime nell’anima le parole pregnanti, e per noi programmatiche, del Santo Padre pronunciate sabato 30 ottobre dinanzi ai centomila ragazzi dell’Azione Cattolica. Un evento che ci rallegra e ci incoraggia ad essere più decisi, attenti ed entusiasti nella missione educativa che è specifica della Chiesa.

Gli “Orientamenti” che poc’anzi citavo sono già nelle mani dei nostri sacerdoti, dei religiosi, dei laici attivi nelle comunità diocesane e parrocchiali. Naturalmente non posso non augurarmi che trovino la migliore accoglienza, e siano – sulla base dei Piani pastorali promulgati dai Vescovi – assunti quale binario per un’adeguata, ulteriore riflessione sulla situazione locale. Probabilmente meriterà ritornare su questo, ma fin d’ora segnalo che il 5° capitolo, che porta il titolo «Indicazioni per la progettazione pastorale» contiene già, nella sua novità metodologica, una serie di suggerimenti preziosi sui quali conviene non sorvolare.

Concludo, venerati e cari Confratelli, affidando alla vostra magnanimità e alla vostra considerazione queste mie riflessioni, unendo un invito – che vale per me anzitutto – a continuare i nostri lavori respirando il respiro del mondo, il respiro della Chiesa universale. Oltre gli argomenti toccati, altri avrebbero meritato a partire dal recente Sinodo per il Medio-Oriente, incentrato cioè su quella terra che tra tutte è la più cara – perché quella di Gesù – eppure così tormentata e vessata. Un posto speciale hanno nel nostro cuore i cristiani dell’Iraq, solo ultimi nel tempo, bersaglio continuo di attentati sanguinosi, forieri di lutti e di dolore. Ancora otto giorni fa la cattedrale siro-cattolica di Bagdad è stata scenario di decine di morti e feriti, fra i quali due sacerdoti e un gruppo di fedeli riuniti per la santa Messa. E poi l’Afghanistan dove altri 4 alpini sono di recente morti per la pace, lasciando nello strazio le rispettive famiglie. Sono tutte «ferite aperte» che vogliamo presentare alla Vergine Maria, Madre di Cristo e Madre della Chiesa, perché si chini su questi figli. Il 1° novembre di sessant’anni fa Pio XII proclamava verità di fede la sua Assunzione al Cielo: così continuiamo a contemplarla e a invocarla, per noi e i nostri lavori, per ciascuna delle nostre amate Chiese.

Angelo Card. Bagnasco
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