martedì 6 dicembre 2011

Diritto al suicidio od omicidio del consenziente?

Marco Travaglio
Giorni or sono abbiamo avuto notizia del suicidio di Lucio Magro, giornalista e politico italiano. questo caso ha creato scalpore soprattutto per il modo con cui Lucio ha deciso di togliersi la vita e per i motivi che hanno sostenuto tale gesto (depressione). Purtroppo la speranza risiede sempre nella fede in Cristo Gesù perché un uomo che cammina senza fede difficilmente può riuscire a sopportare il dolore provocato dalla scomparsa di persone amate; noi cristiani possiamo sperare nella vita eterna, ma chi non crede può solo sperare nella fine. 

Oggi, a seguito della discussione che si è aperta riguardo il possibile riconoscimento di un diritto al suicidio (da noi considerata follia pura), vi vogliamo rendere partecipi di un articolo del sito degli UCCR (Unione Cristiani Cattolica Razionali) che ha voluto riportare alcune parti interessanti della presa di posizione del noto giornalista Marco Travaglio che ha, senza giri di parole, definito questo suicidio assistito come omicidio del consenziente: 

[...] soffermandoci sulla riflessione di Travaglio, colpiscono queste parole: «vorrei spersonalizzare il gesto di Magri, quello che viene chiamato con orrenda ipocrisia “suicidio assistito” e invece va chiamato col suo vero nome: “Omicidio del consenziente”». Sono in molti, si lamenta Travaglio, a «tirare in ballo l’eutanasia, Monicelli o Eluana Englaro, che non c’entrano nulla perché Magri non era un malato terminale, né tantomeno in coma vegetativo irreversibile tenuto artificialmente in vita da una macchina: era fisicamente sano e integro, anche se depresso. Altri addirittura considerano il “suicidio assistito” un “diritto” da importare quanto prima in Italia per non costringere all’ “esilio” chi vuole farsi ammazzare da un medico perché non ha il coraggio di farlo da solo». Dice poi di essere credente, anche se “cattolico adulto”, che crede in una fede esclusivamente privata, come se manifestare le proprie idee fosse un’imposizione verso gli altri.

Dopo questo momento di confusione, affronta il problema dal punto di vista logico: «chi sostiene il diritto al “suicidio assistito” afferma che ciascuno di noi è il solo padrone della sua vita. Ammettiamo pure che sia così: ma proprio per questo chi vuole sopprimere la “sua” vita deve farlo da solo; se ne incarica un altro, la vita non è più sua, ma di quell’altro. Dunque, se vuole farla finita, deve pensarci da sé». Poi ne parla dal punto di vista giuridico: «c’è una barriera insormontabile: l’articolo 575 del Codice penale, che punisce con la reclusione da 21 anni all’ergastolo “chiunque cagiona la morte di un uomo”. Sono previste attenuanti, ma non eccezioni: nessuno può sopprimere la vita di un altro, punto. Se lo fa volontariamente, commette omicidio volontario. Anche se la vittima era consenziente, o l’ha pregato di farlo, o addirittura l’ha pagato per farlo. Non è che sia “trattato da criminale”: “È” uncriminale. Ed è giusto che sia così. Se si comincia a prevedere qualche eccezione, si sa dove si inizia e non si sa dove si finisce. Se si autorizza un medico a sopprimere la vita di un innocente, come si fa a non autorizzare il boia a giustiziare un folle serial killer che magari è già riuscito ad ammazzare pure qualche compagno di cella?».

L’intellettuale di sinistra chiama giustamente in causa anche il codice deontologico del medico che richiama «il “giuramento di Ippocrate” che ogni medico, odontoiatra e persino veterinario deve prestare prima di iniziare la professione: “Giuro di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza…”». «Come si può chiedere a un medico di togliere la vita al suo paziente», si domanda Travaglio, «cioè di ribaltare di 180 gradi il suo dovere professionale di salvarla sempre e comunque? Sarebbe molto meno grave se chi vuole suicidarsi, ma non se la sente di farlo da solo, assoldasse un killer professionista per farsi sparare a distanza quando meno se l’aspetta». E poi, infine, un punto di vista più scientifico: «Quasi nessuna patologia, grazie ai progressi della scienza medica, è di per sé irreversibile. Nemmeno la depressione. Ma proprio una patologia passeggera può obnubilare il libero arbitrio della persona che, una volta guarita, non chiederebbe mai di essere “suicidata”. Qui di irreversibile c’è solo il “suicidio assistito”: ti impedisce di curarti e guarire, dunque di decidere consapevolmente, cioè liberamente, della tua vita. E se poi un medico o un infermiere senza scrupoli provvedono all’iniezione letale senza un’esplicita richiesta scritta, ma dicendo che il paziente, prima di cadere in stato momentaneo di incoscienza e dunque impossibilitato a scrivere, aveva espresso la richiesta oralmente? E se un parente ansioso di ereditare comunica al medico che l’infermo, prima di cadere in stato temporaneo di incoscienza, aveva chiesto di farla finita?». La casistica è infinita.

Ancora più interessante la conclusione: «Se incontriamo per strada un tizio che sta per buttarsi nel fiume, che facciamo: lo spingiamo o lo tratteniamo cercando di farlo ragionare? Un attimo di debolezza o disperazione può capitare a tutti, ma se in quel frangente c’è qualcuno che ti aiuta a superarlo, magari ti salvi. Del resto, il numero dei suicidi è indice dell’infelicità, non della “libertà” di un Paese. E, quando i suicidi sono troppi, il compito della politica e della cultura è di interrogarsi sulle cause e di trovare i rimedi. Che senso ha allora esaltare il diritto al suicidio ed escogitare norme che lo facilitino? Il suicidio passato dal Servizio Sanitario Nazionale: ma siamo diventati tutti matti?». FONTE
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