Carissimi, come promesso, sfruttiamo l'appuntamento odierno con il quale siamo soliti fare un tratteggio della settimana appena trascorsa, per inserire il testo integrale della prolusione del Cardinale Angelo Bagnasco che si è soffermato sulla situazioni politica italiana, non a torto definita noiosa e rissosa. E' un testo abbastanza lungo, ma merita di esser letto e approfondito: Conferenza Episcopale Italiana
63a ASSEMBLEA GENERALE
Roma, 23 - 27 maggio 2011
PROLUSIONE
DEL CARDINALE PRESIDENTE
2. Il nostro sguardo è ancora pervaso dalla beatificazione di Giovanni Paolo II, con gli eventi ad essa connessi: la veglia al Circo Massimo promossa sabato 30 aprile dalla Diocesi di Roma; la preghiera proseguita durante la notte nelle chiese della capitale rimaste a tale scopo aperte; la celebrazione eucaristica del 1° maggio presieduta in Piazza San Pietro dal Santo Padre con la proclamazione del nuovo Beato; la venerazione delle sue spoglie da parte di una fiumana di persone dilungatasi per un giorno e mezzo, e infine indirizzatasi alla nuova tomba collocata all’altare di San Sebastiano. In un tempo facilmente catturabile dall’apparenza e dall’effimero, si è assistito all’esaltazione di un autentico uomo di Dio, la cui santità è stata riconosciuta col dovuto rigore dall’autorità della Chiesa, la quale ha così intercettato un consenso sorprendente, più ampio dei confini cattolici. L’evento è parso allinearsi senza soluzione di continuità con i fatti del 2005, svelando proprietà quasi medicamentose rispetto alle tribolazioni che hanno di recente scosso la comunità credente.
Possiamo dire che la celebrazione della Pasqua è stata vissuta quest’anno avendo come in filigrana la sublime testimonianza di Giovanni Paolo II. All’inizio del Triduo pasquale era stato Benedetto XVI a indicarlo tra i luminosi esempi che, grazie alla loro fede e al loro amore, danno speranza al mondo (cfr Omelia della Messa Crismale, 21 aprile 2011). Appena qualche giorno prima, il nostro Papa aveva annotato: «I Santi manifestano in diversi modi la presenza potente e trasformatrice del Risorto: hanno lasciato che Cristo afferrasse così pienamente la loro vita da poter affermare con san Paolo “non vivo più io, ma Cristo vive in me”» (Udienza generale, 13 aprile 2011). E se, in genere, la santità non consiste nel fare cose strabilianti − seppur Giovanni Paolo II qualcosa di straordinario l’ha fatto −, è da rilevare che egli è diventato beato perché si è voluto unire a Gesù Cristo, ha vissuto i suoi misteri, ha cercato di identificarsi nei suoi pensieri e nei suoi atteggiamenti, insomma ha modellato la propria vita sul Vangelo (cfr Benedetto XVI, Discorso all’Incontro con il mondo della cultura, Venezia, 8 maggio 2011). Più volte, nelle catechesi pasquali, Benedetto XVI è tornato sul fatto che Gesù, abbassandosi fino all’angolo più buio della nostra vita, ci «tira su», «tira in alto» la nostra riluttanza, la nostra volontà, perché abbiamo ad inserirci nel suo progetto, trasformandoci attraverso l’innesto «in questo suo movimento: uscire dal nostro “no” ed entrare nel “sì” del Figlio» (Udienza generale, 20 aprile 2011; cfr anche: Omelia delle Palme, 17 aprile 2011; Alla Via Crucis del Colosseo, 22 aprile 2011). Una trasformazione di noi, non limitata solo a noi stessi, per coinvolgere «in questo passaggio di risurrezione» la città terrena attraverso il nostro donarci «senza riserve per le cause più urgenti e giuste, come dimostrano le testimonianze dei santi» (Udienza generale, 27 aprile 2011). Noi Vescovi guardiamo a Giovanni Paolo II con particolare attenzione e responsabilità: egli, infatti, ha accettato il pontificato ma non ha chiesto di scendere dalla croce. Vivendo l’esistenza a lui destinata, si è rivelato testimone credibile ed è stato ascoltato. Quello che diciamo a noi stessi, dobbiamo chiederlo anche ai nostri amati Sacerdoti, ognuno fidandosi di Gesù, e gettando continuamente la rete affidati alla sua parola. Nell’essere preti non c’è un potere da esercitare ma un’obbedienza secondo cui agire, contrastando la sonnolenza che prende i discepoli lungo la storia (cfr Benedetto XVI, Udienza generale, 20 aprile 2011). Aveva detto il Papa, all’inizio della Quaresima di quest’anno, ai Sacerdoti della diocesi di Roma: «Servire vuol dire fare non tanto ciò che io mi propongo, ma lasciarmi realmente prendere in servizio per l’altro. […] È importante questo aspetto concreto del servizio, che non scegliamo noi cosa fare, ma siamo servitori di Cristo nella Chiesa e lavoriamo dove la Chiesa ci dice, dove La Chiesa ci chiama» (Lectio Divina, 10 marzo 2011).
3. Precisamente così Giovanni Paolo II si è comportato, cesellando la propria vita secondo la forma pasquale, e dimostrando a tutti che cosa può diventare l’esistenza di una persona quando si lascia afferrare da Cristo. La sua − ha tenuto a dire Benedetto XVI − è stata «la beatitudine della fede: essa ci colpisce in modo particolare […] perché oggi viene proclamato beato un Papa, un successore di Pietro, chiamato a confermare i fratelli nella fede. Giovanni Paolo II è beato per la sua fede, forte e generosa, apostolica» (Omelia per la Beatificazione del servo di Dio Giovanni Paolo II, 1 maggio 2011). Il rapporto con Dio è infatti l’elemento generativo di una personalità formidabile e fascinosa. La santità, per lui, fu obiettivo precedente ogni altro, l’opzione su cui ha innestato e orientato le altre scelte, a cominciare da quella sacerdotale; l’opzione che ha perseguito senza esitazioni e vischiosità, senza il timore che Dio gli chiedesse troppo, dispiegando al contrario un’interpretazione piena della chiamata alla vita. Quello che, appena eletto Papa, ha chiesto a tutti − “spalancate le porte a Cristo!” − «egli stesso lo ha fatto per primo» (ib). Qui c’è la chiave evangelica, da una parte del suo affidamento fiducioso alla grande tradizione della Chiesa, e dall’altra della sua creatività come del suo anticonformismo. Della sua saldezza e del senso della sicurezza che sapeva ispirare, ma anche della disarmante spogliazione con cui si presentava ai potenti del suo tempo. Realmente è stato «un indicatore di strada» (cfr Benedetto XVI, Udienza cit., 13 aprile 2011): molti nel mondo hanno trovato o ritrovato, grazie a lui, l’interesse per il cristianesimo, «invertendo con la forza di un gigante una tendenza che poteva sembrare irreversibile» (Omelia cit.). Come costantemente è avvenuto nella lunga storia dei Papi, egli si è fatto carico del gregge del Signore (cfr Gv 21,15-18); di suo, inoltre, è andato in ogni agorà del mondo per dire la Parola nella quale solo c’è salvezza (cfr At 4,12 ). Davanti ai vari consessi, si è presentato a difendere la causa dell’uomo, includendo in tale difesa il carattere trascendente della sua dignità: su questa mappa antropologica ha sagomato l’intero pontificato. È stato, nelle varie latitudini, l’apostolo dei diritti inalienabili dell’uomo, per propugnare i quali non si è subordinato a tatticismi diplomatici o convenienze di maniera. La causa dell’uomo ha, in lui, coinciso con la causa del Vangelo, fino a fondersi in essa. Per profondità e radicalità, tale fusione è stata fulcro del suo pensiero e della sua azione. L’«uomo è via della Chiesa», così come «Cristo è la via dell’uomo»: sono le assi dell’enciclica programmatica Redemptor hominis (1979), dove c’è il condensato della sua personalissima esperienza di vita, passata per traversie e sistemi connotanti l’intero Novecento, e si ritrova l’elemento strutturante tutto il suo pensiero. L’uomo in senso pieno e totale è Gesù Cristo che, con la sua incarnazione, «si è unito in certo modo ad ogni uomo» (Gaudium et spes, 22), e se «nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (ib), ecco che solo Cristo sa che cosa c’è nel cuore di ogni persona (cfr Giovanni Paolo II, Omelia per l’inizio solenne del Pontificato, 22 ottobre 1978). È parso inchinarsi − lui, e ad ogni tappa del suo pontificato − dinanzi al cratere di inesauribile senso che è ciascun individuo, la cui manifestazione «non può aver luogo senza il riferimento, non solo concettuale, ma integralmente esistenziale a Dio» come afferma nella Dives in misericordia (n. 1, 1980). Questa seconda − pure memorabile − enciclica esplicitava la prima, completando l’indirizzo del pontificato: «Quanto più la missione svolta dalla Chiesa si incentra sull’uomo, quanto più è − per così dire − antropocentrica, tanto più essa deve confermarsi e realizzarsi teocentricamente, cioè orientarsi in Gesù Cristo verso il Padre. Mentre − continuava − le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e persino a contrapporre il teocentrismo e l’antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell’uomo in maniera organica e profonda» (ib). Operare in questa direzione, negli intenti di Giovanni Paolo II, voleva dire porsi in una delle dorsali principali, se non la principale, del Vaticano II. Significativamente Benedetto XVI, nell’Omelia della Beatificazione, ha evocato il Concilio − evento partecipato da Karol Wojtyla dal primo all’ultimo giorno − e ha fatto coincidere il senso di quell’evento con le memorabili parole iniziali del pontificato: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo». Come se l’uno − il Concilio − fosse spiegato e condensato dalle altre, cioè da quelle parole. Ed entrambe le circostanze messe, in ogni caso, sotto il capitolo della «grandissima causa» per la quale il Predecessore può dire di essere vissuto sulla scia del timoniere di quell’assise, Paolo VI.
Ebbene, questa linea di dedizione, il restare cioè vincolati al mandato del Concilio − sembra dire Benedetto XVI − raggiunge anche me, e come un solco nell’anima mi coinvolge, e coinvolge l’intero popolo di Dio che a suo tempo fu sollecitato da Karol Wojtyla a prepararsi per entrare con degna consapevolezza nel nuovo millennio, quasi si dovesse realmente «Varcare le soglie della speranza». A questa speranza ora siamo dentro. Tutti ricordiamo, non senza emozione, il legame spirituale intenso e amico che correva, benefico per la Chiesa intera, tra Giovanni Paolo II e colui che − nel disegno della Provvidenza – sarebbe stato il suo successore. All’indomani dell’elezione, Benedetto XVI disse davanti al collegio cardinalizio ancora riunito nella Cappella Sistina: «Mi sembra di sentire la mano forte di Giovanni Paolo II che stringe la mia, mi sembra di vedere i suoi occhi sorridenti e di ascoltare le sue parole, rivolte in questo momento particolarmente a me: “Non avere paura”» (Omelia ai Cardinali elettori, 20 aprile 2005). E il 1° maggio è andato oltre, come se la distanza temporale, anziché attenuare i sentimenti, li avesse rinforzati. Ha commosso infatti il suo inchinarsi − quasi a fondersi con il popolo cristiano, lui cui è toccato in sorte d’essere a sua volta Pietro − quando ha concluso, con la spontaneità del cuore: «Santo Padre, ci benedica». Qualcosa di più della semplice continuità: c’è una perdurante ammirazione spirituale che diventa stupefacente lezione di stile, di umiltà e di candore, dalla quale noi sentiamo di dover imparare. Da una voce attendibile è stato osservato che Papa Ratzinger «si è presentato al mondo come il primo devoto del suo Predecessore» (Monsignor Georg Gänswein, Intervento al Premio Capri, in “Avvenire” del 26 settembre 2010), giacché tale interiormente egli si sente. E l’hanno, appunto, avvertito tutti. Anche noi allora, in punta di piedi, diciamo a Benedetto XVI la nostra spirituale ammirazione, rinnovandogli il grazie più sentito per la beatificazione, espresso già con il comunicato del 29 aprile scorso.
Ma abbiamo almeno altri due motivi circostanziati per i quali esprimere al Papa la nostra gratitudine: il primo riguarda l’istruzione Universae Ecclesiae volta a dare una corretta applicazione del «motu proprio» Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, e dunque al recupero più impegnativo e armonioso − nell’ambito delle singole Diocesi − dell’intero patrimonio liturgico della Chiesa universale. In sostanza, a non ferire mai la concordia di ogni Chiesa particolare con la Chiesa universale, operando piuttosto per unire tutte le forze e restituire alla liturgia il suo possente incanto. La seconda circostanza è data dalla «lettera circolare», inviata ad ogni Vescovo dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, in vista della preparazione di necessarie «linee guida» per i casi di abusi sessuali perpetrati da chierici ai danni di minori. Si tratta di contestualizzare nei diversi Paesi, da parte delle rispettive Conferenze Episcopali, le Norme emanate il 21 maggio 2010 per aggiornare il «motu proprio» papale Sacramentorum sanctitatis tutela del 30 aprile 2001. Ebbene, confermando che «la responsabilità nel trattare i delitti di abuso appartiene in primo luogo al Vescovo diocesano», si dovrà arrivare − avverte la lettera − entro il mese di maggio 2012 «ad un orientamento comune all’interno di ogni Conferenza Episcopale nazionale, aiutando ad armonizzare al meglio gli sforzi dei singoli Vescovi nel salvaguardare i minori». A tale riguardo, riconoscendo su questo fronte un’infame emergenza non ancora superata, la quale causa danni incalcolabili a giovani vite e alle loro famiglie − cui non cessiamo di presentare il nostro dolore e la nostra incondizionata solidarietà −, vorrei anche assicurare che da oltre un anno, su mandato della Presidenza CEI, è al lavoro un gruppo interdisciplinare di esperti proprio con l’obiettivo di “tradurre” per il nostro Paese le indicazioni provenienti dalla Congregazione; obiettivo che sotto il nome di «Linee guida» oggi viene autorevolmente richiesto a tutte le Conferenze Episcopali del mondo. L’esito di tale lavoro sarà presto portato all’esame dei nostri organismi statutari. Ripetiamo però quest’oggi il grido amaro che già è risuonato nell’assemblea dello scorso anno: sull’integrità dei nostri sacerdoti non possiamo transigere, costi quel che costi. Anche un solo caso, in tale ambito, sarebbe troppo. Quando poi i casi si ripetono, lo strazio è indicibile e l’umiliazione totale (cfr Prolusione all’Assemblea generale dell’Episcopato italiano, 24 maggio 2010). Ma le ombre, anche le più gravi e dolorose, non possono oscurare il bene che c’è. Ancora una volta, quindi, noi Vescovi confermiamo stima e gratitudine al nostro clero che si prodiga con fedeltà, sacrificio e gioia, nella cura delle comunità cristiane.
4. Che cosa resta della larghissima partecipazione registrata il 1° maggio scorso? Senza indulgere a letture enfatiche, basta ricordare i gesti compiuti dai tantissimi che hanno avvertito il bisogno di rendersi presenti, a Roma, per l’evento. Si è trattato per lo più di un pellegrinaggio lampo, compiuto sia in andata che in ritorno di notte, per riservarsi un tempo di permanenza concentrato ed essenziale, eppure per questo ancor più faticoso, e per molti penalizzato dalla distanza rispetto al centro della scena e l’inevitabile disagio negli spostamenti. Per quanto la Diocesi e il Comune di Roma, con i rispettivi operatori spesso volontari, abbiano messo in campo uno sforzo encomiabile che ha prodotto risultati indubbiamente apprezzati, la circostanza non poteva non presentare dei sacrifici. Come è già successo per altre manifestazioni di fede, legate ai viaggi papali o ai luoghi dei grandi pellegrinaggi.
Neanche stavolta è mancata sui media la domanda ricorrente in questi casi: ne valeva la pena? La risposta che in generale danno i diretti protagonisti è senza esitazione: sì, ne valeva la pena. Pur segnati dallo sforzo, la bellezza prevale e vince. Ai più è sufficiente il contatto impercettibile ma diretto con l’evento per sentirsi come raggiunti dalla potenza della Grazia. E poi confessarlo con semplicità: c’ero anch’io! La riflessione, si sa, ha una sua delicatezza e varie implicanze che qui non tocchiamo. Desideriamo solamente segnalare come, nel passaggio da una religione d’abitudine a una fede personale, questo genere di esperienze lascino una traccia. È il coinvolgimento soggettivo ad essere decisivo, è la valorizzazione della propria singolarità a fare la differenza. Certo, occorre guadagnare un rapporto esplicito e consapevole con l’alterità che è Cristo e lasciarlo parlare. Bisogna riattivare il legame con un patrimonio di simboli capaci di parlare ancor oggi. Si tratta in fin dei conti di cominciare a vivere lo straordinario dentro l’ordinario: è questo il messaggio che proviene dalle esperienze forti di itineranza, come ad esempio i pellegrinaggi o i viaggi pontifici, che hanno la forza di far sentire la persona in cammino, o meglio «in gestazione», in vista di una novità che si affaccia come convincente. Giovanni Paolo II è stato il suggeritore illuminato di una consapevolezza che è bene non manchi nelle nostre comunità: la trasmissione della fede passa per l’ancoraggio a ciò che vi è di profondo e soggettivo. L’adesione alla dottrina oggi, in generale, segue l’incontro. Questa peraltro è l’esperienza «originaria» del cristianesimo (cfr Benedetto XVI, Discorso all’assemblea del 2° Convegno ecclesiale triveneto, Aquileia, 7 maggio 2011). Le comunità cristiane sono chiamate a diventare ambienti propizi per elaborare simili esperienze, per ancorarle all’oggettività, ragionarle e così riassaporarle. Nella Chiesa, rami un tempo rigogliosi possono rinsecchire, ma − spunta una gemma, si affaccia un uomo il cui volto esprime una profonda fede in Dio − la storia si riaccende, i suoi cardini si smuovono, e tutto ricomincia. È la pastorale «dei ricomincianti», come qualcuno la definisce, ricorrendo a un termine forse non elegante eppure efficace. Ma tutti, in qualche modo, dobbiamo essere dei «ricomincianti». Non a caso, Giovanni Paolo ha dato «al cristianesimo un rinnovato orientamento al futuro, il futuro di Dio, trascendente rispetto alla storia, ma che pure incide nella storia» (Omelia per la Beatificazione cit.). Dobbiamo, in altre parole, interpretare un cattolicesimo di conversione, che tocca la vita valorizzando − negli incontri − l’incontro personale con il mistero di Dio e i «segni efficaci» che lo trasmettono. E ciò senza arrendersi alle fragilità personali, per dare invece spinta al senso di fraternità e al coraggio della scena pubblica, desiderando cioè vivere l’originalità cristiana con simpatia, anche in un clima talora ostile, secondo il memorabile magistero che Giovanni Paolo II ha donato alla Chiesa pellegrina in Italia (cfr. Discorso al Convegno ecclesiale di Loreto, 11 aprile 1985; ma anche Discorso al Convegno ecclesiale di Palermo, 23 novembre 1995; entrambi ripresi da Benedetto XVI, Discorso al Convegno ecclesiale di Verona, 19 ottobre 2006). Qui troviamo spunti fondamentali per rigenerare continuamente il cattolicesimo popolare oggi sotto sfida da parte di un secolarismo per lo più inteso come fatale e dagli esiti inevitabili, quando invece è − ad osservare bene − anch’esso attraversato da contraddizioni, dunque tutt’altro che impossibile da affrontare a viso aperto.
5. Il 17 aprile scorso, domenica delle Palme, ha avuto luogo nelle Chiese particolari la fase locale della Giornata mondiale della Gioventù, cui il Papa quest’anno ha affidato il tema «Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede». L’evento avrà il suo secondo tempo in estate, a Madrid, dove dal 16 al 21 agosto si svolgerà il XXVI raduno mondiale. I nostri giovani sono dunque in cammino. Auguriamo loro di vivere con impegno l’ultimo periodo dell’anno scolastico, ricavando da tale esperienza tutto ciò che si può trarre per la propria crescita intellettuale e culturale. La scuola non è un parcheggio, non è neppure il tempo che intercorre tra una vacanza e l’altra. Neanche basta dire che la scuola è per la vita: essa, la scuola, è già vita. E vivendo bene le ultime settimane di attività, i nostri giovani si predispongono con la serietà adeguata anche all’incontro spagnolo nel suo insieme: la preparazione immediata che si svolgerà in diocesi, la partenza, la permanenza nelle Chiese particolari gemellate, e infine la convergenza verso Madrid, dove saranno accolti dal Papa che infatti ha già dato loro appuntamento proprio il 17 aprile scorso. La formula, pur con qualche adattamento che acquisisce le esigenze del luogo e i dati maturati in precedenza, è per buona parte nota e collaudata. È l’invenzione − dobbiamo ricordarlo − di Giovanni Paolo II, che non solo ha lanciato la pastorale giovanile come oggi la conosciamo, ma ha dato tono a tutta la pastorale, inducendola ad uscire allo scoperto, andare incontro alle persone, adottare i loro linguaggi, per far comprendere a tutti, specialmente ai giovani, che Cristo c’entra con la vita, con tutti i suoi ambiti. Che Cristo c’entra con il loro bisogno di amare, e che amare è un’esperienza seria, per raggiungere la quale bisogna imparare. E imparare ad amare costa fatica, impegno, sforzo, allenamento, dedizione. Solo allora diventa gioia sopraffina. C’è troppa banalità oggi attorno all’asse primordiale della civiltà, qual è l’amare, il generare o non generare figli, l’educarli che vuol dire rigenerarli un’altra volta, ma per un tempo enormemente più lungo. Una persona cresce sul serio nella misura in cui fa esperienza del bene e del bello, e impara a preservare le esperienze di valore, a distinguerle, a difenderle da ciò che è male e non è bello, a renderle contagiose: «Il vero fascino della sessualità nasce dalla grandezza di questo orizzonte che schiude la bellezza integrale, l’universo dell’altra persona e del noi che nasce nell’unione, la promessa di comunione che vi si nasconde […]. Si apre così un cammino in cui il corpo ci insegna il valore del tempo, della lenta maturazione nell’amore» (Benedetto XVI, Discorso all’Istituto Giovanni Paolo II, 13 maggio 2011). I giovani non vogliono essere ingannati con l’edulcorazione delle regole che aiutano a stare al mondo con senso, e chiedono giustizia circa la verità di se stessi. Per questo, il rapporto che si stringe con loro deve essere basato sulla relazione personale, sulla compagnia, sulla «generatività», sul dialogo e la correzione, la pazienza e la perseveranza. È la ragione per la quale, come Vescovi, chiediamo che nell’impegno per la Gmg ci si lasci ispirare dalle piste individuate negli Orientamenti pastorali «Educare alla vita buona del vangelo» e, più in generale, da quella sfida educativa che avvertiamo come la prova maiuscola del nostro tempo.
Ad attenderci, nel mese di settembre, da sabato 3 a domenica 11, c’è il Congresso Eucaristico nazionale di Ancona, per il quale – com’è noto – è già stato predisposto e comunicato il programma dettagliato nel quale sono coinvolte anche le diocesi di quella metropolia. La cinque aree tematiche che ci avevano visti all’opera nel Convegno Ecclesiale di Verona, verranno considerate nella prospettiva dell’Eucarestia e di una cultura eucaristica che ritma la vita quotidiana. «Signore, da chi andremo?» è il tema del Congresso, che vuol rigenerare il nostro sguardo grazie all’energia del Risorto. A concludere l’evento, domenica 11 settembre, sarà il Santo Padre, e noi − con le folte rappresentanze delle nostre Chiese − saremo con lui per confessare pubblicamente il nostro amore e il nostro debito per Gesù Eucaristia.
6. Giovedì prossimo, nel tardo pomeriggio, si diceva, ci recheremo nella basilica di Santa Maria Maggiore e, alla presenza del Papa, nostro Primate, pregheremo per l’Italia nel 150° anniversario dell’Unità nazionale. Si completerà così il gesto del 17 marzo scorso, quando con una solenne Concelebrazione Eucaristica − alla presenza delle massime Autorità dello Stato − abbiamo ringraziato Iddio per il nostro Paese e il nostro popolo. Sappiamo che, nell’attaccamento alla Madre del Redentore e nostra, c’è un dato storico che da sempre ci unisce, e che in tale devozione si rintraccia il volto popolare della nostra Terra. In una fase cruciale della giovane storia unitaria di questa antica Nazione, Giovanni Paolo II ha dato un contributo, culturalmente documentato e al contempo scevro da condizionamenti psicologici e biografici, veramente determinante per il recupero della stima che gli italiani devono avere di se stessi e del proprio compito rispetto agli altri popoli e alle altre nazioni, e in solidarietà con questi. Nessuno sciovinismo antistorico, ma anche nessuna auto-liquidazione deresponsabilizzante e omologata. Se, nonostante tutto, il Paese regge è perché ci sono arcate, magari non immediatamente percepibili, che lo tengono in piedi. La rappresentazione pubblica talora soffre di qualche unilateralità e di predominanze che nei fatti non trovano sempre giustificazione. L’Italia non è solo certa vita pubblica. La politica in sé è comprensiva di dimensioni più ricche e articolate e, in ultima analisi, la nostra idea è che fanno realmente politica tutti coloro che operano per il bene comune così come si diceva in una precedente prolusione: coloro che hanno la religio del bene comune, non nel senso pagano, ma – al contrario – nel senso del più trasparente, disinteressato altruismo. Credo vada recuperata una capacità di sguardo che superi le apparenze, le chiazze di colore, le devastazioni di immagine, per cogliere la struttura interiore, l’intelaiatura d’acciaio che sorregge il Paese: quello che, ad ogni nuovo mattino che la Provvidenza offre, si auto-convoca al proprio dovere. Ovvio che non si debba cadere in schemi manichei, in generalizzazioni ingiuste e inaccettabili. Se oggi diciamo che vi è una rappresentazione della vita politica svincolata dalle aspirazioni generali, lo facciamo certo con l’avvertenza dei meccanismi sofisticati che fatalmente concorrono alla proiezione esteriore delle società moderne. Eppure non ci sono scusanti. La politica che ha oggi visibilità è, non raramente, inguardabile, ridotta a litigio perenne, come una recita scontata e – se si può dire – noiosa. È il dramma del vaniloquio, dentro – come siamo – alla spirale dell’invettiva che non prevede assunzioni di responsabilità. La gente è stanca di vivere nella rissa e si sta disamorando sempre di più. Gli appelli a concentrarsi sulla dimensione della concretezza, del fare quotidiano, della progettualità, sembrano cadere nel vuoto. Ambiti come l’allerta emergenziale, che erano non solo funzionanti ma anche ragione di sollievo, oggi appaiono fiacchi e meno reattivi. A potenziale contrasto, c’è una stampa che appare da una parte troppo fusa con la politica, tesa per lo più ad eccitare le rispettive tifoserie, e dall’altra troppo antagonista, e in altro modo eccitante al disfattismo, mentre dovrebbe essere fondamentalmente altro: cioè informazione non scevra da cultura, resoconto scrupoloso, vigilanza critica, non estranea ad acribia ed equilibrio. Ma segnaliamo lo iato anche per dare voce all’invocazione interiore del Paese sano che è distribuito all’interno di ogni schieramento. Dalla crisi oggettiva in cui si trova, il Paese non si salva con le esibizioni di corto respiro, né con le slabbrature dei ruoli o delle funzioni, né col paternalismo variamente vestito, ma solo con un soprassalto diffuso di responsabilità che privilegi il raccordo tra i soggetti diversi e il dialogo costruttivo. Se ciascuno attende la mossa dell’altro per colpirlo, o se ognuno si limita a rispondere tono su tono, non se ne esce, tanto più che la tendenza frazionistica si fa sempre più vistosa nello scenario generale come all’interno delle singole componenti.
In quanto Vescovi, non ci stanchiamo di incoraggiare i gesti di assennatezza che mirano a creare condizioni di pace sociale e di alacre operosità. Se non parliamo ad ogni piè sospinto, non è perché siamo assenti, anzi, ma perché le cose che contano spesso sono già state dette, e ripeterle in taluni casi non serve. E se non ci uniamo volentieri al canto dei catastrofisti, non è perché siamo distratti, ma perché crediamo che vi siano tante forze positive all’opera, che non vanno schiacciate su letture universalmente negative o pessimistiche. Si sappia tuttavia che la nostra opzione di fondo, anche per il conforto dei ripetuti appelli del Papa (per l’ultimo, in ordine di tempo, cfr Discorso all’assemblea del 2° Convegno ecclesiale triveneto, Aquileia, 7 maggio 2011) resta quella di preparare una generazione nuova di cittadini che abbiano la freschezza e l’entusiasmo di votarsi al bene comune, quale criterio di ogni pratica collettiva. Più che un utopismo di maniera, serve una concezione della politica come «complessa arte di equilibrio tra ideali e interessi» (Benedetto XVI, Discorso all’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici, 21 maggio 2010), concezione che per questo, cioè per il suo saper evitare degenerazioni ciniche, si fa intelligenza amorosa della realtà e cambiamento positivo della stessa. Quale che sia l’ambito in cui si collocano − professionale, associativo, cooperativistico, sociale, mediatico, sindacale, partitico, istituzionale… − queste persone avvertono il dovere di una cittadinanza coscienziosa, partecipe, dedita all’interesse generale. Affinché l’Italia goda di una nuova generazione di politici cattolici, la Chiesa si sta impegnando a formare aree giovanili non estranee alla dimensione ideale ed etica, per essere presenza morale non condizionabile.
7. Desidero per un istante riprendere il filo di un discorso già abbozzato in precedenti circostanze e che riguarda quella patologia del post-moderno che va sotto il titolo di un individualismo indiscriminato. A noi sembra che questa caratteristica stia determinando in alcuni ambienti, che forse si ritengono per altri versi i più emancipati ed evoluti, la tendenza ad una chiusura ermetica rispetto all’istanza sociale. Affermatosi inizialmente anche come un rifiuto all’eteronomia e come esigenza di affermazione della propria personale consapevolezza, l’individualismo ha finito con il cancellare il bisogno dello scambio con gli altri, cioè quell’interazione dalla quale dovrebbero discendere comportamenti condivisi. In un clima anti-autoritario può venire spontaneo immaginare che il comando morale sia surrogabile dall’autodeterminazione che scaturisce dalla libertà individuale. Quando però questa viene concepita come radicalmente sciolta da qualsivoglia istanza valoriale oggettiva, stenta a misurarsi e qualificare se stessa. Il marchio di eticità di un comportamento, infatti, non sta primariamente nel fatto di essere frutto di una scelta libera – che ne è premessa necessaria ma non sufficiente – ma nei contenuti della scelta stessa. Quando così non è, la libertà individuale si trasforma, prima o dopo, nel privilegio dei più forti. Bisogna, dunque, che non venga meno la differenza oggettiva che passa tra il bene e il male, tra il giusto e l'ingiusto, e non venga tutto affidato alla valutazione meramente soggettiva. In una simile prospettiva infatti, la convivenza si consegna esclusivamente a “procedure” che indicano i confini da non valicare, anziché affidarsi a valori veri e assoluti per i quali merita insieme vivere e lottare. Le “procedure” – in sé certamente necessarie – sono però sorrette dai numeri del confronto democratico, non sulla stabilità dei valori universali. Possono quindi portare ad esiti mutevoli. Ci si chiede, allora: è possibile vivere e spendersi per qualcosa che domani potrebbe non solo cambiare, ma essere ritenuto superato o addirittura deriso? La Chiesa, in certe temperie sociali e culturali, ha con maggiore insistenza richiamato l’unicità incomprimibile del soggetto umano, così che nessuna filosofia e nessun collettivismo potessero assorbirlo o ridurlo. In altri contesti, nei quali dominava un’impronta culturale individualista, ha dovuto richiamare l’imprescindibile struttura relazionale dell’uomo, per cui l’individuo non si realizza se non uscendo da se stesso per andare incontro agli altri, nel segno della gratuità e del dono. Lasciando che la propria libertà si misuri e si intrecci con la libertà degli altri, in vista di una sintesi più alta e benefica per i singoli e per la comunità. Oggi siamo sempre più dentro a questa deriva individualistica e solitaria. In altri termini, l’individualismo non può coincidere con l’«indifferenza», con l’apatia sociale, con il narcisismo incurante degli altri e del mondo. In questo, si vorrebbe davvero che le donne e gli uomini di cultura fossero anche illuminati nel saper cogliere in tempo i rapporti di consequenzialità tra le istanze da raccordare e i fenomeni che, pur volendolo, sarà poi impossibile evitare. C’è chi si ostina a rappresentare la Chiesa come un soggetto che si batte contro la modernità. Vorremmo appena ricordare che la modernità trova radici e, in fondo ha la sua migliore garanzia, nel Vangelo: la dignità incomprimibile della persona, l’uguaglianza fra tutti in quanto figli di Dio, la libertà che Cristo più di ogni altro rispetta, offrendo il suo amore salvifico e rigeneratore…sono le consapevolezze scaturenti da quelle pagine, da duemila anni germinatrici di testimonianze eloquenti. Più che avversaria della modernità, la Chiesa − a guardare bene − ne è l’anima. Si potrebbe dire che, con gelosia, ne custodisce gli ingredienti di base.
C’è anche chi, partendo da una ricognizione dei più recenti rivolgimenti in atto nel Nordafrica, riesce a scorgervi non solo la fine di ogni vera influenza occidentale, ma anche la prova che l’ordinamento assoluto messo in campo dalle religioni, compresa quella cristiana, si sta sgretolando, se già non è ormai abbattuto. In modo emblematico è la filosofia che si sarebbe incaricata di dimostrare come impossibile l’esistenza di una Verità o Essere assoluto che intenda valere come Principio del mondo. Ora, a parte una certa qual confusione tra gli assoluti terreni e l’assoluto della metafisica, c’è da notare la stranezza di un pensiero immanentista per il quale tutto – davvero tutto – si riduce ad un'unica, e alla fine liquida, realtà. Colpisce cioè l’assolutezza − eccessiva e fuori luogo − con cui si concepisce quest’unica realtà come tutta assoluta. E analogamente si concepisce come assoluto il proprio élitario pensiero. Onestamente, non si riesce a comprendere tale demolitoria lena nei confronti delle religioni, e di quella cristiana in particolare, e di conseguenza la corsa a frantumare qualunque premessa di alleanza virtuosa nel nostro Paese tra il cattolicesimo e l’umanesimo laico, come invece sarebbe decisamente da propiziare appena si voglia costruire. Noi crediamo che l’aver messo da parte ciò che ha in sé lo statuto epistemologico dell’assoluto non sia fino ad oggi servito a dare plausibile spessore morale ad una società inquieta e convulsa.
8. Per questa consapevolezza, noi Vescovi non esitiamo ad esplicitare l’auspicio che avvertiamo urgente in merito a talune questioni poste all’ordine del giorno del dibattito pubblico e che meritano la preoccupazione più condivisa da parte della cittadinanza. Penso alla legge sulla fine vita il cui varo si configura come un approdo non solo importantissimo per le famiglie che hanno al proprio interno casi riconducibili alla evocata situazione, ma anche altamente significativo per la composizione calibrata e ispirata al principio di precauzione dei beni in gioco, senza dimenticare che – come afferma la Costituzione – la salute è fondamentale diritto dell’individuo, ma anche interesse della collettività (cfr art. 32). Ci si augura cordialmente che il provvedimento − al di là dei tatticismi che finirebbero per dare un’impressione errata di strumentalità − non si imbatta in ulteriori ostacoli, ottenendo piuttosto il consenso più largo da parte del Parlamento. A proposito della vita da accogliere e da promuovere, desidero ricordare il trentennale impegno del Movimento per la Vita che ha avuto una fondamentale funzione nel tenere sveglia la coscienza degli italiani sul fronte della vita concepita eppure esposta alla scelta sempre tragica dell’aborto. Anche il Santo Padre ieri, dopo il Regina Caeli ha fatto menzione a questo impegno (Benedetto XVI, Al Regina Caeli, 22 maggio 2011). Se nella cultura italiana l’opzione abortiva non è diventato un «normale» dato di fatto molto lo si deve all’iniziativa di questo volontariato e dei media che l’hanno costantemente assecondato. Un impegno che non potrà certo diradarsi proprio ora.
Il tema della famiglia resta cruciale nella sensibilità comune come anche nell’attenzione dei media. Crediamo di non andare lontano dal vero se diciamo che sull’analisi delle carenze e delle debolezze che riguardano l’assetto dell’istituto familiare ci sia ormai nel Paese una larga convergenza. Ciò che serve, ed è quanto mai urgente, è passare alla parte propositiva, agli interventi strutturali efficaci per dare dignità e robustezza a questa esperienza decisiva per la tenuta del Paese e il suo futuro. Nulla è davvero garantito se a perdere è la famiglia; mentre ogni altra riforma, in modo diretto o indiretto, si avvantaggia se la famiglia prende quota. La denatalità è un’emergenza dai contorni obiettivamente allarmanti. L’Italia del 2040 o del 2050 chiede, anzi supplica l’Italia di oggi, a porre mente alle questioni che stanno compromettendo alla radice le condizioni per un affidabile equilibrio demografico. Su questo tema è in elaborazione il nuovo Rapporto-proposta da parte del nostro Comitato per il Progetto culturale.
Il lavoro che manca, o è precario in maniera eccedente ogni ragionevole parametro, è motivo di angoscia per una parte cospicua delle famiglie italiane. Questa angoscia è anche nostra: sappiamo infatti che nel lavoro c’è la ragione della tranquillità delle persone, della progettualità delle famiglie, del futuro dei giovani. Vorremmo quindi che niente rimanesse intentato per salvare e recuperare posti di lavoro. Vorremmo che si riabilitasse anche il lavoro manuale, contadino e artigiano. Vorremmo che gli adulti non trasmettessero ai figli atteggiamenti di sufficienza o disistima verso lavori dignitosi e tuttavia negletti o snobbati. Vorremmo che il denaro non fosse l’unica misura per giudicare un posto di lavoro. Vorremmo che i lavoratori non fossero lasciati soli e incerti rispetto ai cambiamenti necessari e alle ristrutturazioni in atto. Vorremmo che gli imprenditori si sentissero stimati e stimolati a garantire condizioni di sicurezza nell’ambiente di lavoro e a reinvestire nelle imprese i proventi delle loro attività. Vorremmo che tutti i cittadini sentissero l’onore di contribuire alle necessità dello Stato, e avvertissero come peccato l’evasione fiscale. Vorremmo che il sindacato, libero mentalmente, fosse sempre più concentrato nella difesa sagace e concreta della dignità del lavoro e di chi lo compie, o non riesce ad averne. Vorremmo che le banche avvertissero come preminente la destinazione sociale della loro impresa e di quelle che ad esse si affidano. Vorremmo che scattasse da subito tra le diverse categorie un’alleanza esplicita per il lavoro che va non solo salvato, ma anche generato. Vorremmo che i giovani, in particolare, avvertissero che la comunità pensa a loro e in loro scorge fin d’ora il ponte praticabile per il futuro. Le manifestazioni giovanili in atto, in diverse piazze europee, non possono essere liquidate da alcuno con sufficienza.
Infine è la scuola, tutta la scuola, che dobbiamo amare con predilezione, qualificando certo la spesa ma non prosciugando risorse che lasciano scoperti servizi essenziali come le materne, il tempo pieno, le scuole professionali, la ricerca. Ai Confratelli Vescovi e Sacerdoti impegnati nei rispettivi territori a combattere ed emarginare la malavita, a recuperare ed educare energie potenzialmente positive, a incoraggiare e promuovere legalità e fiducia, diciamo tutta la nostra ammirazione e garantiamo la nostra cordiale solidarietà.
Ci sono studiosi di fenomeni sociali che, sulla base delle loro misurazioni, si dicono certi del fatto che non pochi semi buoni stanno schiudendosi. Noi Vescovi abbiamo altri campi di ascolto, ma possiamo confermare che nell’animo degli italiani non sta venendo meno la voglia di migliorarsi, di crescere, di impegnarsi. La maggioranza non si è staccata dalla vita concreta, ha resistito al canto delle sirene che continuano a veicolare modelli di vita facile, di successo effimero, di mondi virtuali, del “tutto e subito”. Sono messaggi suadenti che accarezzano il peggio dell’uomo, e alla fine anche violenti per la loro insistenza e la loro pervasività. Sembra che la schiuma di superficie sia inesorabilmente inquinata dai moduli dell’apparire a scapito del valore insito nell’esistenza concreta, intessuta di onestà, sobrietà, sacrificio, e meritevole di una conquista quotidiana. Come se la «normalità» del giorno per giorno, e la pazienza necessaria a costruire famiglia, affetti, lavoro, assetto sociale, fosse qualcosa di insopportabile, al pari di un morbo da scongiurare, spingendo l’acceleratore invece nella ricerca spasmodica di esperienze eccezionali e passerelle effimere, o guadagni facili, da ottenere magari attraverso il demone del gioco che molto promette per lasciare poi sul lastrico persone e famiglie. Gli antichi dicevano con grande acutezza: corruptio optimi pessima! E così è per tutti! Per questo, corrompere i costumi, e ancor più il modo di pensare – da qualunque parte provenga –, è un crimine contro Dio, la persona e la società intera. Sovvertire le categorie valoriali, mettendo − ad esempio − a repentaglio con l’istituto familiare l’asse portante di ogni società, significa sventrare – per miopia intellettuale o per lucida strategia – il fondamento antropologico del benessere civile. Viene da chiedersi: a vantaggio di chi o di che cosa una simile opera demolitrice, pseudo culturale e ipocritamente umanistica? Il cinismo degli adulti induce i giovani a subire la vita, anziché incontrarla con positività, e diventarne protagonisti umili e gioiosi. Diamo fiducia alla voglia di futuro, tanto più che il mondo sembra attendere da noi proprio questo.
9. Accennavamo prima alle insurrezioni che dal mese di gennaio sono in atto nel Nordafrica e nel vicino Medio Oriente. Il fatto che l’accensione di queste sommosse sia avvenuta come in una sequenza di micce tra loro collegate, induce talora a ragionare come se si trattasse di situazioni omogenee con evoluzioni raccordabili. In realtà si tratta di contesti nazionali molto vari, in cui gli elementi che hanno avuto la funzione di detonatore sono in parte gli stessi e in parte assai diversi. Così che, a distanza di settimane, lo sviluppo dei fatti risulta tutt’altro che univoco. In Siria, la rivolta popolare è da oltre tre mesi in corso con manifestazioni alle quali il regime non ha prestato all’inizio il dovuto ascolto, reagendo poi con eccessi di violenza, che è causa di una sequenza interminabile di lutti, specialmente tra la popolazione civile. Arduo immaginare a breve esiti di ricomposizione sulla base dell’assetto preesistente, superato il quale tuttavia assai impervia appare la prospettiva di una coesistenza pacifica tra le diverse componenti etniche e religiose. Una questione questa che, tra il silenzio degli osservatori internazionali, ha trovato nel frattempo in Libano terreno per pericolose involuzioni. Mentre in Egitto, dove all’inizio si erano registrate perfino forme interreligiose di protesta, non hanno tardato le avvisaglie di lievitazione fondamentalista, giunte nelle ultime settimane a nuovi massacri a danno della minoranza copta. La quale non è, nella storia egiziana, una componente avventizia o aggiuntiva: essa, com’è noto, ha alle spalle una vicenda quasi bi-millenaria e può rivendicare un’identità autoctona. In altre parole, va affacciandosi il rischio di intollerabili imposizioni che schiacciano le minoranze, costringendole a scegliere tra discriminazione o emigrazione. Se in simili contesti può apparire una forzatura concepire l’emancipazione dai regimi dittatoriali nelle forme di una evoluzione democratica di tipo occidentale, è però ancor più evidente l’incongruenza di un’idea di cittadinanza imperfetta, in cui la parità tra i cittadini è gravemente inficiata dal peso delle appartenenze religiose. Occorre piuttosto che, nella rimodellatura di queste società e nella definizione dei loro sistemi giuridici, si affermi il concetto di cittadinanza egualitaria, per la quale non sono le maggioranze a garantire o a proteggere le minoranze, ma le une e le altre si riconoscono in un trattamento alla pari che ha perno sul valore della persona. Era questo, ci sembra, l’auspicio scaturito dal Sinodo per il Medio Oriente, celebratosi a Roma prima dell’avvio dei movimenti insurrezionali.
Il caso della Libia ci ha coinvolto fatalmente di più per evidenti motivi di vicinanza geografica, ma anche perché la repressione là intentata ha finito per provocare una reazione dapprima esitante, poi confusamente accelerata, da parte di singoli Paesi occidentali e infine della Nato stessa, autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. C’è da dire che la non chiarezza emersa al momento dell’ingaggio, ha continuato a pesare sullo sviluppo temporale e strategico delle operazioni che avrebbero dovuto avere la forma dell’ingerenza umanitaria, e hanno ugualmente causato gravissime perdite umane, anche tra i civili. Difficile oggi non convenire che nel concreto non esistono interventi armati “puliti”. È, questo, allora un motivo in più per intensificare gli sforzi che portino ad un cessate il fuoco, e quindi a sveltire la strada della diplomazia, preservando l’incolumità dei cittadini e garantendo l’accesso agli indispensabili soccorsi umani. Con ciò ci uniamo alle parole accorate del Papa: «la via del negoziato e del dialogo prevalga su quella della violenza, con l’aiuto degli Organismi internazionali che già si stanno adoperando nella ricerca di una soluzione alla crisi» (Appello al Regina Caeli, 15 maggio 2011).
Non può non colpire tuttavia il diverso atteggiamento adottato a livello internazionale tra la disponibilità all’interposizione armata e l’indisponibilità a suddividere il carico delle conseguenze umanitarie che lo scontro armato determina. Il nostro Paese, con la sua esposizione geografica, si è trovato e rimane in prima linea sul fronte degli aiuti e soprattutto della prima accoglienza per gli sfollati, i profughi e i richiedenti asilo che giungono sulle coste italiane, le quali sono ad un tempo il confine sud dell’Europa. Va da sé che se non avanza un più maturo senso di condivisione circa le responsabilità comuni, si aprono nel processo di integrazione falle di difficile rimedio. Ovvio che i cittadini d’Europa sinceramente comunitari vogliano a questo punto capire perché per i missili c’erano soldi e intesa politica, mentre per i profughi non ci sono i primi ed è inesistente la seconda. Quando è di ogni evidenza ormai la necessità di individuare una «via africana» verso il futuro, che dia speranza a quei giovani ma coinvolga significativamente anche i popoli dell’Occidente. Non tutto − bisogna dirlo − ha prontamente funzionato nei dispositivi di accoglienza messi in campo dalle autorità italiane, come non sono mancati i momenti di incertezza, o di esitazione nel mantenere gli impegni già presi. In generale però il Paese non può non essere fiero di quel che infine gli è riuscito complessivamente di offrire, a cominciare dalla gente di Lampedusa che, pur stressata da mesi di tensione e pur preoccupata per la prossima stagione turistica, ha saputo dar prova di un altruismo eroico, portando in salvo i naufraghi dell’ennesima imbarcazione incagliata nelle rocce. La visita che il 18 maggio scorso ho compiuto nella piccola isola, era un segno di vicinanza di noi Vescovi al Pastore di quella Chiesa, S.E. mons. Francesco Montenegro, e voleva avere il senso dell’ammirata solidarietà e della concreta amicizia da parte dell’intera comunità ecclesiale a quell’avamposto d’Italia che così bene sa interpretare il valore dell’accoglienza nonostante tutto, nonostante tante condizioni avverse: sia di esempio e di efficace stimolo per l’intera comunità nazionale. Questo il Santo Padre ha chiesto a noi e a tutti di fare, senza la paura per il diverso e lo straniero, giacché è proprio ciò che viene messo in campo che contribuisce al riconoscerci fratelli (cfr. Benedetto XVI, Discorso all’assemblea cit.).
Concludo, venerati a cari Confratelli, ringraziando sentitamente per il vostro amabile ascolto, anticipo di quello scambio che ora e nei prossimi giorni contrassegnerà il nostro lavoro. Ho inteso dare eco anche a sollecitazioni preziose e degnissime, nella convinzione che ciò che a noi serve è l’orizzonte entro cui collocare le varie preoccupazioni e i diversi progetti. La vita delle nostre Chiese non ci abbandona mai ed è regola ai nostri passi. Sui quali invochiamo la benedizione del beato Giovanni Paolo II e insieme preghiamo − perché ci assistano − Guido Maria Conforti e Luigi Guanella che il Papa Benedetto XVI iscriverà − con il gaudio nostro, delle loro famiglie religiose, e delle nostre Chiese − nel libro d’oro dei santi, il prossimo 23 ottobre. Ci custodisca Maria, Salus popoli Romani et Italici. Grazie.