martedì 2 agosto 2011

Cento anni dopo - Centesimus Annus - XIV parte

Dopo due settimane di interruzione, ritorna l'appuntamento con la Lettera Enciclica del Beato Giovanni Paolo II, intitolata "Centesimus Annus" e promulgata nel centenario della Rerum Novarum.  La scorsa volta abbiamo terminato la lettura del paragrafo inerente ai fatti dell'anno 1989. Oggi entriamo infatti in nuovo capitolo dedicato alla proprietà privata e all'universale destinazioni dei beni. La proprietà privata è un diritto poiché viene acquistata con il lavoro dell'uomo, ma questo non conferisce all'uomo un diritto assoluto, come vedremo tra poco. Infatti se l'uomo ha il diritto della proprietà privata ha anche il dovere di disporre di questi beni per l'utilità comune. Oggi però non è cosi nella maggior parte dei casi, infatti l'uomo pur possedendo beni privati che gli consentono di vivere nel benessere, non si contenta di quello che già possiede ma vuole precludere agli altri il godimento dei beni terreni per averne un uso esclusivo. Sappiamo però che Dio ha creato la terra per tutti e non solo per alcuni fortunati. Alcuni esempi ci vengono da persone che possiedono più di una proprietà privata e ciò nonostante restano indifferenti ai bisogni altrui. Gesù ci dà la certezza del Giudizio finale nel quale chi ha avuto e non ha condiviso sarà sottoposto a giudizio. La povertà è presente nel mondo non solo a causa di eventi climatici, ma anche e soprattutto a causa dell'egoismo e dell'indifferenza. Un esempio recente di condivisione ci è stato dato da Maria Pyle, figlia spirituale di San Pio da Pietrelcina la quale donna ricca ha venduto i suoi averi per aiutare i bisognosi e ha messo a disposizione la sua casa per i poveri e per coloro che andavano a San Giovanni Rotondo per fare visita al Santo frate. Viviamo in una società individualista, chiusa in sé stessa dove si fa a gara per avere assicurato il proprio benessere, senza curarsi di quello altrui. La condivisione dei beni invece non solo soddisferebbe tutti, ma permetterebbe un maggior sviluppo economico e sociale:



Ioannes Paulus PP. II
Centesimus annus
nel centenario della "Rerum novarum"

1991.05.01

IV - La proprietà privata e l'universale destinazione dei beni


30. Nella Rerum novarum Leone XIII affermava con forza e con vari argomenti, contro il socialismo del suo tempo, il carattere naturale del diritto di proprietà privata.65 Tale diritto, fondamentale per l'autonomia e lo sviluppo della persona, è stato sempre difeso dalla Chiesa fino ai nostri giorni. Parimenti, la Chiesa insegna che la proprietà dei beni non è un diritto assoluto, ma porta inscritti nella sua natura di diritto umano i propri limiti.


Mentre proclamava il diritto di proprietà privata, il Pontefice affermava con pari chiarezza che l'«uso» dei beni, affidato alla libertà, è subordinato alla loro originaria destinazione comune di beni creati ed anche alla volontà di Gesù Cristo, manifestata nel Vangelo. Infatti scriveva: «I fortunati dunque sono ammoniti ...: i ricchi debbono tremare, pensando alle minacce di Gesù Cristo ...; dell'uso dei loro beni dovranno un giorno rendere rigorosissimo conto a Dio giudice»; e, citando san Tommaso d'Aquino, aggiungeva: «Ma se si domanda quale debba essere l'uso di tali beni, la Chiesa ... non esita a rispondere che a questo proposito l'uomo non deve possedere i beni esterni come propri, ma come comuni», perché «sopra le leggi e i giudizi degli uomini sta la legge, il giudizio di Cristo».66

I successori di Leone XIII hanno ripetuto la duplice affermazione: la necessità e, quindi, la liceità della proprietà privata ed insieme i limiti che gravano su di essa.67 Anche il Concilio Vaticano II ha riproposto la dottrina tradizionale con parole che meritano di essere riportate esattamente: «L'uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possono giovare non unicamente a lui, ma anche agli altri». E poco oltre: «La proprietà privata o un qualche potere sui beni esterni assicurano a ciascuno una zona del tutto necessaria di autonomia personale e familiare, e devono considerarsi come un prolungamento della libertà umana ... La stessa proprietà privata ha per sua natura anche una funzione sociale, che si fonda sulla legge della comune destinazione dei beni».68 La stessa dottrina ho ripreso prima nel discorso alla III Conferenza dell'Episcopato latino-americano a Puebla, e poi nelle Encicliche Laborem exercens e Sollicitudo rei socialis.69

31. Rileggendo tale insegnamento sul diritto di proprietà e la destinazione comune dei beni in rapporto al nostro tempo, si può porre la domanda circa l'origine dei beni che sostentano la vita dell'uomo, soddisfano i suoi bisogni e sono oggetto dei suoi diritti.

La prima origine di tutto ciò che è bene è l'atto stesso di Dio che ha creato la terra e l'uomo, ed all'uomo ha dato la terra perché la domini col suo lavoro e ne goda i frutti (cf Gn 1,28-29). Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno. È qui la radice dell'universale destinazione dei beni della terra. Questa, in ragione della sua stessa fecondità e capacità di soddisfare i bisogni dell'uomo, è il primo dono di Dio per il sostentamento della vita umana. Ora, la terra non dona i suoi frutti senza una peculiare risposta dell'uomo al dono di Dio, cioè senza il lavoro: è mediante il lavoro che l'uomo, usando la sua intelligenza e la sua libertà, riesce a dominarla e ne fa la sua degna dimora. In tal modo egli fa propria una parte della terra, che appunto si è acquistata col lavoro. È qui l'origine della proprietà individuale. E ovviamente egli ha anche la responsabilità di non impedire che altri uomini abbiano la loro parte del dono di Dio, anzi deve cooperare con loro per dominare insieme tutta la terra.

Nella storia si ritrovano sempre questi due fattori, il lavoro e la terra, al principio di ogni società umana; non sempre, però, essi stanno nella medesima relazione tra loro. Un tempo la naturale fecondità della terra appariva e di fatto era il principale fattore della ricchezza, mentre il lavoro era come l'aiuto ed il sostegno di tale fecondità. Nel nostro tempo diventa sempre più rilevante il ruolo del lavoro umano, come fattore produttivo delle ricchezze immateriali e materiali; diventa, inoltre, evidente come il lavoro di un uomo si intrecci naturalmente con quello di altri uomini. Oggi più che mai lavorare è un lavorare con gli altri e un lavorare per gli altri: è un fare qualcosa per qualcuno. Il lavoro è tanto più fecondo e produttivo, quanto più l'uomo è capace di conoscere le potenzialità produttive della terra e di leggere in profondità i bisogni dell'altro uomo, per il quale il lavoro è fatto.


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