OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
IN MEMORIA DI PAOLO VI
16 settembre 1979
IN MEMORIA DI PAOLO VI
16 settembre 1979
1. Nel Vangelo d’oggi San Marco riferisce lo stesso avvenimento, descritto da San Matteo nel capitolo 16. Nei pressi di Cesarea di Filippo Gesù interroga i discepoli: “Chi dice la gente che io sia?” (Mc 8,27). Dopo le diverse risposte, prende la parola Pietro e dice “Tu sei Cristo” (Mc 8,29) (che vuol dire “il Messia”). Nel Vangelo di Matteo la risposta è: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Poi segue la benedizione, rivolta a Pietro a motivo della sua fede, e la promessa che incomincia con le parole: “Tu sei Pietro” (pietra, roccia) (Mt 16,18). Testo sublime, che tutti conosciamo a memoria.
Nella redazione di Marco invece, immediatamente dopo la confessione di Pietro “Tu sei il Cristo”, Gesù passa all’annuncio della sua morte: “Il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire... poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare” (Mc 8,31). E allora Pietro, come leggiamo, “si mise a rimproverarlo” (Mc 8,32). Secondo Matteo questo rimprovero suonò: “Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai” (Mt 16,22). Pietro non vuole che Cristo parli della passione e morte. Non è capace di accettarle con il suo cuore che ama in maniera umana. Chi ama vuole preservare la persona amata dal male, perfino nel pensiero, perfino nell’immaginazione. Tuttavia, Cristo rimprovera Pietro, severamente lo rimprovera. Questo rimprovero che troviamo nell’odierno Evangelo di Marco è ancora più significativo nel testo di Matteo, per il contrasto con le parole precedenti, con cui Cristo aveva benedetto Pietro ed annunziato il suo primato nella Chiesa. È proprio il primato che non permette di sottrarsi al mistero della Croce, non permette di allontanarsi, neanche di un pollice, dalla sua realtà salvifica.
2. Ci siamo riuniti oggi nella Basilica di San Pietro per commemorare il primo anniversario della morte del Papa Paolo VI. Lo abbiamo già fatto nel giorno stesso dell’anniversario: il 6 agosto, nella festa della Trasfigurazione del Signore, in quella casa, a Castel Gandolfo, nella quale un anno fa egli concluse la sua giornata terrena. Oggi lo facciamo in modo solenne nella Basilica Vaticana, dove già da più di un anno riposano, nelle grotte, le spoglie mortali del grande Papa. La sua grandezza trova il fondamento nel mistero della croce di Cristo. Come Successore di Pietro, egli accettò quella benedizione e tutto il contenuto della promessa messianica che era stata pronunciata nella regione di Cesarea di Filippo, ed accettò, in tutta la sua pienezza, il mistero della croce. Ha portato questa croce non soltanto nelle sue mani, camminando, tutti gli anni, sulle orme della “via Crucis” nel Colosseo romano. L’ha portata dentro di sé, nel suo cuore, in tutta la sua missione: “...non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo” (Gal 6,14). Queste parole dell’Apostolo, il cui nome egli aveva assunto nell’anno 1963 all’inizio del pontificato, sono state confermate da tutta la sua vita.
Paolo VI: apostolo del Crocifisso, così come lo fu Paolo Apostolo. E così, come Paolo Apostolo, egli avrebbe potuto completare quella sua confessione del vanto nella croce di Cristo, dicendo “per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). E forse tali parole costituiscono una chiave essenziale per la comprensione della vita di Paolo VI, così come l’hanno costituita per la comprensione della vita e della missione di San Paolo.
3. La croce, così come insinuano nella liturgia odierna il profeta Isaia e poi il Salmo 114 (115), ha una sua dimensione interiore, e Paolo VI ha conosciuto questa dimensione interiore della croce. Eppure, non gli furono estranei gli “insulti” e gli “sputi” (cf.Is 50,6) che ha subìto come maestro e servitore della verità. Eppure, alla sua anima non furono estranee quella “tristezza e angoscia” (Sal 115,3) di cui parla il salmista. Tristezza e angoscia, che nascono dal senso di responsabilità per i più santi valori, per la grande causa che Dio affida all’uomo, possono essere superate soltanto nella preghiera; possono essere superate soltanto con la forza della fiducia senza limiti: “Buono e giusto è il Signore, il nostro Dio è misericordioso. Il Signore protegge gli umili: ero misero ed egli mi ha salvato” (Sal 115,5-6). Paolo VI era l’uomo di tale profonda, difficile – e proprio per questo – incrollabile fiducia. E proprio grazie ad essa, egli la pietra, la roccia sulla quale, in questo eccezionale periodo di grande cambiamento dopo il Concilio Vaticano II, si costruiva la Chiesa.
Alle prove interiori ed esteriori della Chiesa rispondeva con quella incrollabile fede, speranza e fiducia, che facevano di lui il Pietro dei nostri tempi. La grande saggezza e l’umiltà hanno accompagnato questa fede e questa speranza e le hanno rese proprio così ferme e inflessibili.
4. Ci insegnava con la parola e con le opere quella fede salvifica, di cui in modo tanto convincente parla oggi, nella seconda lettura, San Giacomo: “la fede, se non ha le opere, è morta in se stessa” (Gc 2,17).
Ci insegnava, dunque Paolo VI, la fede viva; insegnava a tutta la Chiesa la vita della fede a misura della nostra epoca. Che cosa altro, se non tale insegnamento della fede viva legata alle opere sono le sue grandi encicliche, in particolare la Populorum Progressio e, in un’altra dimensione, la Humanae Vitae? Oggi lo si capisce forse meglio che non una diecina di anni fa. La coerenza fra la fede e la vita deve trapelare da ogni opera. Deve manifestarsi in ogni campo del nostro agire.
5. Sarebbe difficile non far risuonare, in occasione dell’odierno ricordo del grande Papa, la sua voce, non far ascoltare le sue parole, sempre così piene di fede e di carità.
“Dinanzi... alla morte, al totale e definitivo distacco dalla vita presente, sento il dovere di celebrare il dono, la fortuna, la bellezza, il destino di questa stessa fugace esistenza: Signore, ti ringrazio che mi hai chiamato alla vita, ed ancor più che, facendomi cristiano, mi hai rigenerato e destinato alla pienezza della vita... Ora che la giornata tramonta, e tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena, come ancora ringraziare te, o Signore, dopo quello della vita naturale, del dono, anche superiore, della fede e della grazia, in cui alla fine unicamente si rifugia il mio essere superstite?... Chiudo gli occhi su questa terra dolorosa, drammatica e magnifica, chiamando ancora una volta su di essa la divina Bontà” (Paolo VI, Testamentum, 30 giugno 1965: Insegnamenti di Paolo VI, XVI [1978] 590).
6. Ascoltandole oggi, a poco più di un anno dalla sua morte, abbiamo ancora negli occhi quella dipartita. Se ne va affaticato e lascia dietro di sé una grande eredità. La morte lo stacca dai problemi di questa terra, dal ministero di questa Sede. Sembra dire, come un tempo ha detto Pietro: “Signore... comanda che io venga da te” (Mt 14,28). E il Signore lo lascia venire da lui.
Noi tutti che partecipiamo a questo sacrificio eucaristico, per raccomandare all’Eterno Padre l’anima di Paolo VI, ringraziamo per tutto ciò che ha fatto e per tutto ciò che egli è stato per la Chiesa.
“Beato te, Simone figlio di Giona” (Mt 16,17).
Nella redazione di Marco invece, immediatamente dopo la confessione di Pietro “Tu sei il Cristo”, Gesù passa all’annuncio della sua morte: “Il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire... poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare” (Mc 8,31). E allora Pietro, come leggiamo, “si mise a rimproverarlo” (Mc 8,32). Secondo Matteo questo rimprovero suonò: “Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai” (Mt 16,22). Pietro non vuole che Cristo parli della passione e morte. Non è capace di accettarle con il suo cuore che ama in maniera umana. Chi ama vuole preservare la persona amata dal male, perfino nel pensiero, perfino nell’immaginazione. Tuttavia, Cristo rimprovera Pietro, severamente lo rimprovera. Questo rimprovero che troviamo nell’odierno Evangelo di Marco è ancora più significativo nel testo di Matteo, per il contrasto con le parole precedenti, con cui Cristo aveva benedetto Pietro ed annunziato il suo primato nella Chiesa. È proprio il primato che non permette di sottrarsi al mistero della Croce, non permette di allontanarsi, neanche di un pollice, dalla sua realtà salvifica.
2. Ci siamo riuniti oggi nella Basilica di San Pietro per commemorare il primo anniversario della morte del Papa Paolo VI. Lo abbiamo già fatto nel giorno stesso dell’anniversario: il 6 agosto, nella festa della Trasfigurazione del Signore, in quella casa, a Castel Gandolfo, nella quale un anno fa egli concluse la sua giornata terrena. Oggi lo facciamo in modo solenne nella Basilica Vaticana, dove già da più di un anno riposano, nelle grotte, le spoglie mortali del grande Papa. La sua grandezza trova il fondamento nel mistero della croce di Cristo. Come Successore di Pietro, egli accettò quella benedizione e tutto il contenuto della promessa messianica che era stata pronunciata nella regione di Cesarea di Filippo, ed accettò, in tutta la sua pienezza, il mistero della croce. Ha portato questa croce non soltanto nelle sue mani, camminando, tutti gli anni, sulle orme della “via Crucis” nel Colosseo romano. L’ha portata dentro di sé, nel suo cuore, in tutta la sua missione: “...non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo” (Gal 6,14). Queste parole dell’Apostolo, il cui nome egli aveva assunto nell’anno 1963 all’inizio del pontificato, sono state confermate da tutta la sua vita.
Paolo VI: apostolo del Crocifisso, così come lo fu Paolo Apostolo. E così, come Paolo Apostolo, egli avrebbe potuto completare quella sua confessione del vanto nella croce di Cristo, dicendo “per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). E forse tali parole costituiscono una chiave essenziale per la comprensione della vita di Paolo VI, così come l’hanno costituita per la comprensione della vita e della missione di San Paolo.
3. La croce, così come insinuano nella liturgia odierna il profeta Isaia e poi il Salmo 114 (115), ha una sua dimensione interiore, e Paolo VI ha conosciuto questa dimensione interiore della croce. Eppure, non gli furono estranei gli “insulti” e gli “sputi” (cf.Is 50,6) che ha subìto come maestro e servitore della verità. Eppure, alla sua anima non furono estranee quella “tristezza e angoscia” (Sal 115,3) di cui parla il salmista. Tristezza e angoscia, che nascono dal senso di responsabilità per i più santi valori, per la grande causa che Dio affida all’uomo, possono essere superate soltanto nella preghiera; possono essere superate soltanto con la forza della fiducia senza limiti: “Buono e giusto è il Signore, il nostro Dio è misericordioso. Il Signore protegge gli umili: ero misero ed egli mi ha salvato” (Sal 115,5-6). Paolo VI era l’uomo di tale profonda, difficile – e proprio per questo – incrollabile fiducia. E proprio grazie ad essa, egli la pietra, la roccia sulla quale, in questo eccezionale periodo di grande cambiamento dopo il Concilio Vaticano II, si costruiva la Chiesa.
Alle prove interiori ed esteriori della Chiesa rispondeva con quella incrollabile fede, speranza e fiducia, che facevano di lui il Pietro dei nostri tempi. La grande saggezza e l’umiltà hanno accompagnato questa fede e questa speranza e le hanno rese proprio così ferme e inflessibili.
4. Ci insegnava con la parola e con le opere quella fede salvifica, di cui in modo tanto convincente parla oggi, nella seconda lettura, San Giacomo: “la fede, se non ha le opere, è morta in se stessa” (Gc 2,17).
Ci insegnava, dunque Paolo VI, la fede viva; insegnava a tutta la Chiesa la vita della fede a misura della nostra epoca. Che cosa altro, se non tale insegnamento della fede viva legata alle opere sono le sue grandi encicliche, in particolare la Populorum Progressio e, in un’altra dimensione, la Humanae Vitae? Oggi lo si capisce forse meglio che non una diecina di anni fa. La coerenza fra la fede e la vita deve trapelare da ogni opera. Deve manifestarsi in ogni campo del nostro agire.
5. Sarebbe difficile non far risuonare, in occasione dell’odierno ricordo del grande Papa, la sua voce, non far ascoltare le sue parole, sempre così piene di fede e di carità.
“Dinanzi... alla morte, al totale e definitivo distacco dalla vita presente, sento il dovere di celebrare il dono, la fortuna, la bellezza, il destino di questa stessa fugace esistenza: Signore, ti ringrazio che mi hai chiamato alla vita, ed ancor più che, facendomi cristiano, mi hai rigenerato e destinato alla pienezza della vita... Ora che la giornata tramonta, e tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena, come ancora ringraziare te, o Signore, dopo quello della vita naturale, del dono, anche superiore, della fede e della grazia, in cui alla fine unicamente si rifugia il mio essere superstite?... Chiudo gli occhi su questa terra dolorosa, drammatica e magnifica, chiamando ancora una volta su di essa la divina Bontà” (Paolo VI, Testamentum, 30 giugno 1965: Insegnamenti di Paolo VI, XVI [1978] 590).
6. Ascoltandole oggi, a poco più di un anno dalla sua morte, abbiamo ancora negli occhi quella dipartita. Se ne va affaticato e lascia dietro di sé una grande eredità. La morte lo stacca dai problemi di questa terra, dal ministero di questa Sede. Sembra dire, come un tempo ha detto Pietro: “Signore... comanda che io venga da te” (Mt 14,28). E il Signore lo lascia venire da lui.
Noi tutti che partecipiamo a questo sacrificio eucaristico, per raccomandare all’Eterno Padre l’anima di Paolo VI, ringraziamo per tutto ciò che ha fatto e per tutto ciò che egli è stato per la Chiesa.
“Beato te, Simone figlio di Giona” (Mt 16,17).
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