Vescovo Michele Pennisi: "La Chiesa come comunità inserita nella storia che esercita una responsabilità verso l'intera società non può non fare i conti con il fenomeno della mafia per esercitare un suo "servizio" in nome del messaggio di cui è portatrice. È un segno positivo l'attuale sensibilità che la Chiesa, a vari livelli, mostra nei confronti del fenomeno mafioso. È una sensibilità che si esprime nella denuncia dal pulpito e in una serie di iniziative concrete volte a creare un costume e una mentalità alternativi a quella della cultura in cui alligna la mafia. La Chiesa siciliana, di fronte alla mafia, ha trovato difficoltà ad elaborare una risposta che superasse il livello dell'etica civile, del comune rimando alla giustizia e alla condanna della violenza che stanno alla base di una società ordinata. È ovvio che questo piano è assolutamente necessario, ma dovrebbe essere altresì ovvio per il cristiano che esso resta insufficiente, perché esso non lascia emergere ancora l'originalità del messaggio evangelico. Spesso si sono usati termini presi dal vocabolario religioso, come quello di "pentito", che non necessariamente è coincisa con la persona che si è "convertito" deciso a cambiare vita a riparare il male fatto, ma spesso ha offerto la sua collaborazione allettato dallo sconto della pena o da incentivi economici e in qualche caso dalla convinzione che per distruggere il proprio avversario non era necessaria un arma ma bastava la lingua. Ho voluto fare questa premessa non per sostenere che bisogna abbassare la guardia per contrastare la criminalità mafiosa, ma per sostenere che i cristiani devono trovare motivazioni valide per contrastare questo fenomeno a partire dalla loro originale esperienza di fede e dalla loro appartenenza ecclesiale. Negli ultimi due decenni in seguito anche al grave e ripetuto manifestarsi dell'esclusiva natura criminale e dell'estrema pericolosità sociale dell'organizzazione mafiosa e, conseguentemente, al crescere di una diffusa coscienza collettiva di rifiuto di forme di tolleranza e di pur tacita e passiva connivenza col fenomeno , è maturata nella Chiesa siciliana una chiara, esplicita e ferma convinzione dell'incompatibilità dell'appartenenza mafiosa con la professione di fede cristiana: il mafioso , in forza della stessa appartenenza alla cosca dedita strutturalmente al crimine , si pone oggettivamente fuori della comunione ecclesiale.L'atteggiamento pastorale verso i mafiosi va accompagnato dalla esigenza di prevenire i fenomeni criminosi ed aiutare i mafiosi a pentirsi , a riparare il male fatto e a diventare persone nuove. Per la maturazione di questa mentalità sono stati importanti gli esempi di tanti cristiani preti e laici impegnati a prevenire e contrastare il fenomeno mafioso e i pronunciamenti episcopali e dello stesso papa Giovanni Paolo II, che ha contribuito alla interpretazione e alla condanna della mafia a partire dalle tradizionali e originali categorie cristiane. Il riferimento principale della predicazione è ridiventato il vangelo. Ciò appare con chiarezza nella predicazione di Giovanni Paolo II. Giovanni Paolo II, nel 1991, in occasione della visita ad limina dei vescovi siciliani, così si esprimeva: “Tale piaga sociale rappresenta una seria minaccia non solo alla società civile, ma anche alla missione della Chiesa, giacché mina dall'interno la coscienza etica e la cultura cristiana del popolo siciliano”.Nella Nota pastorale Nuova evangelizzazione e pastorale, la Conferenza episcopale siciliana, denunciando l'incompatibilità tra mafia e Vangelo, affermava che “tale incompatibilità è intrinseca alla mafia per se stessa, per le sue motivazioni e per le sue finalità, oltre che per i mezzi e per i metodi adoperati. La mafia appartiene, senza possibilità di eccezioni, al regno del peccato e fa dei suoi operatori altrettanti operai del maligno. Per questa ragione, tutti coloro che in qualsiasi modo deliberatamente fanno parte della mafia e ad essa aderiscono o pongono atti di connivenza con essa debbono sapere di essere e di vivere in insanabile opposizione al Vangelo di Gesù Cristo e, per conseguenza, di essere fuori dalla comunione della sua Chiesa” (n. 12). La stessa Conferenza, nella riflessione per il 50° anniversario dello Statuto della Regione Siciliana, ribadiva: “La mafia attenta, in maniera diretta e continuativa, alla coscienza etica di ogni uomo proponendogli una scala di valori propri, in aperto contrasto con quelli comunemente recepiti e provocando pertanto profonde lacerazioni nel tessuto etico della società. Essa, con la sua deleteria forza pervasiva, inquina la nostra civile convivenza e ne condiziona ogni suo possibile sviluppo e progresso, paralizza ogni lecita attività economica, distoglie dalla sua finalizzazione sociale e solidale ogni intervento pubblico, strumentalizzandolo ai suoi nefasti interessi” (n. 16). Questi e altri pronunciamenti culminano nel grido accorato del Papa ad Agrigento il 9 maggio 1993: “Dio ha detto una volta: "Non uccidere". Nessun uomo, nessuna associazione umana, nessuna mafia può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Questo popolo siciliano è un popolo che ama la vita, che dà la vita. Non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, di una civiltà della morte. Qui ci vuole la civiltà della vita. Nel nome Cristo, crocifisso e risorto, di Cristo che è Via, verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi, un giorno arriverà il giudizio di Dio". Si tratta di un appello chiaramente evangelico, di competenza specifica della Chiesa e che giustifica, quindi, l'intervento pastorale. Questa affermazione, che ha molto impressionato tutti i mass-media, è una chiave per comprendere l'atteggiamento di Giovanni Paolo II nei confronti della mafia o, meglio, dei mafiosi. Più e oltre che una condanna del fenomeno mafioso, il Papa lancia un richiamo forte e intenso alla conversione, andando al cuore del problema: ciascun uomo renderà conto del suo operato a Dio, con cui deve necessariamente rapportarsi. A Siracusa nel 1994 il Papa aveva detto : "colgo l'occasione per rivolgermi agli uomini della mafia e dir loro: In nome di Dio, basta con la violenza! Basta con il sopruso! E' tempo di aprire il cuore a quel Dio che è giusto e misericordioso insieme, e vi chiede un sincero cambiamento di vita”.E' significativo che il Papa si rivolga non al fenomeno, la mafia, ma a gli uomini che producono tale fenomeno e lo faccia in nome di Dio. A Catania il Papa ha detto “Chi si rende responsabile di violenze e sopraffazioni macchiate di sangue umano dovrà rispondere davanti al giudizio di Dio”.Da questi appelli si deduce che il ministero pastorale deve rivolgersi soprattutto agli uomini mafiosi per invitarli alla conversione.A questa chiara coscienza di radicale incompatibilità tra mafia e vita cristiana e di conseguente rifiuto di ogni compromissione della comunità ecclesiale col fenomeno mafioso, la Chiesa siciliana non può non sentirsi legata. Essa non può tornare indietro su questa via. Tanto più che questo cammino storico della Chiesa siciliana è stato, per così dire, suggellato dalla splendida testimonianza del martirio di don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia solo perché fedele al suo ministero. La memoria di questo martirio è impegnativa per la Chiesa siciliana tutta. Il suo "martirio" è venuto a siglare questa stagione di impegno ecclesiale anche se questo martirio non va disgiunto e isolato da quello di numerosi altri uomini tra cui alcuni magistrati e appartenenti alle forze dell'ordine. Da questo derivano alcune conseguenze in campo pastorale e dell'impegno morale. La Chiesa, particolarmente nella predicazione e negli interventi autorevoli, non può limitarsi alla denuncia del fenomeno mafioso, per la prevalente preoccupazione di parlare all'opinione pubblica, ma deve rivolgere il pressante appello e dare un vero aiuto alla conversione, facendo prevalere la preoccupazione di parlare alle coscienze.Urge formare una nuova coscienza di fronte alla mafia. Una nuova mentalità sarà in grado di creare una reale cultura "antimafia": qui la Chiesa deve ravvisare il campo specifico del suo intervento propositivo ed educativo. L'educazione alla legalità va coniugata con l'educazione alla socialità e ad una cittadinanza responsabile , nell'ambito di una educazione globale alla pace. La Conferenza Episcopale Italiana ha voluto sottolineare questo stretto legame con tre Note pastorali che costituiscono una piccola trilogia : Educare alla legalità (1991), Stato sociale ed educazione alla socialità (1995) ed Educare alla pace (1998). E' compito della Chiesa sia aiutare a prendere consapevolezza che tutti, anche i cristiani, alimentiamo l' humus dove alligna e facilmente cresce la mafia, sia indurre al superamento dell'attuale situazione attraverso la conversione al Vangelo, capace di creare una cultura antimafia fondata sulla consapevolezza che il bene comune è frutto dell'apporto responsabile di tutti e di ciascuno. La lotta alla mafia passa , anche se non si esaurisce, attraverso un rinnovato impegno educativo e pastorale che porti ad un cambiamento della mentalità e dei comportamenti concreti, ad una profonda "conversione" personale e comunitaria. La Chiesa sente di avere una sua responsabilità per la formazione di una diffusa coscienza civile di rifiuto del costume e della mentalità mafiosi e si impegna nell'opera educativa e formativa dei suoi fedeli e, più in generale, di quanti, anche non credenti, vengono a contatto con le strutture educative (ad es. scuole cattoliche) da essa condotte o animate. Essa non si sente estranea all'impegno, che è di tutta la società siciliana, di liberazione dalla triste piaga della mafia.Tuttavia non confonde la sua azione pastorale con quella dello Stato. Non intende configurare se stessa come una sorta di “religione civile”. Impegno civile e azione propriamente pastorale della Chiesa possono incontrarsi, ma non sono la stessa cosa. La Chiesa, in forza della sua stessa missione, non può non rivolgere anche ai mafiosi l'appello alla conversione e, quindi, mettere in atto quei passi che possono condurre i singoli mafiosi a tale conversione. Tuttavia essa deve vigilare affinché l'esercizio del ministero di annuncio della misericordia di Dio non sia strumentalizzato dal mafioso, ad esempio durante la sua latitanza, e non si configuri, di fatto, come copertura o favoreggiamento di quanti hanno violato e talvolta continuano a violare la legge di Dio e quella degli uomini. Bisogna analizzare poi criticamente il fatto che, spesso, vari mafiosi si ritengono membri della Chiesa a pieno titolo, nient'affatto fuori della sua comunione, nonostante la loro appartenenza a quella “struttura di peccato” che è la cosca mafiosa.Nel suo appello alla conversione la Chiesa non può non fare presenti le esigenze propie della conversione cristiana e quindi non ricordare, anche ai mafiosi, che: a) La conversione non può essere ridotta a fatto intimistico ma ha sempre una proiezione storica ed esige comunque la riparazione. Nel caso del mafioso, la conversione non potrà certo ridare la vita agli uccisi, ma comporta comunque un impegno fattivo affinché sia debellata la struttura organizzativa della mafia, fonte costante di ingiustizie e violenza; anche con l'indicazione all'autorità giudiziaria di situazioni e uomini, che se non fermati in tempo, potrebbero continuare a provocare ingiustizie. La mancanza di una tale indicazione da parte del mafioso convertito, oltre a configurarsi come atto di omertà, sembra ignorare il dovere della riparazione. b) C'è un nesso tra peccato di cui ci si pente e pena da assumere in espiazione del peccato.Lo slogan "pecca confessati e continua a peccare" ha poco a vedere con la dottrina cattolica, per la quale, come ricorda il CCC il peccato comporta oltre una pena eterna che viene rimessa con l' assoluzione a chi è veramente pentito, anche una pena temporale da scontare " o quaggiù, o dopo la morte, nello stato chiamato Purgatorio".La grazia del perdono è stata meritata da Gesù Cristo a caro prezzo- il prezzo della sua vita donata- e non può essere svenduta a prezzi di liquidazione.Nel caso di peccati legati all'appartenenza mafiosa, la “soddisfazione” del peccato sia da vedere anche nelle pene sancite dalla condanna detentiva della magistratura, alle quali perciò il mafioso convertito potrebbe cercare di non sottrarsi. Alla comunità cristiana si richiedono dei gesti originali che facciano superare la concezione della pena di carattere retributivo o vendicativo, e che interpellino cattolici e laici ad interrogarsi sulle modalità di una prevenzione dei reati collegati col fenomeno mafioso( favorire cooperative di lavoro, collaborare con fondazioni antiusura e associazioni antiracket, impegnarsi diffusione di una cultura della legalità al recupero ed inserimento sociale dei carcerati ed assistenza alle loro famiglie e ad un uso modigerato del denaro che non ne faccia l’idolo a cui sacrificare tutto). Per essere concreto vorrei citare alcuni piccoli segni che si stanno realizzando nella nostra diocesi. A Gela è sorta la Casa del Volontariato nata dalla collaborazione tra un centro di servizi per il volontariato e i gruppi giovanili ecclesiali. Si è realizzata una sinergia tra istituzioni civili e ecclesiali, per un progetto educativo che serva a costruire una città solidale. La prima sperimentazione è stata una manifestazione denominata 10 mila passi per Gela in cui migliaia di ragazzi hanno una messo una firma con l'impegno a contrasta la mafia e l’illegalità .Una seconda iniziativa è la costituzione di una cooperativa sociale in collaborazione con le Acli che ha avuto assegnato un terreno confiscato alla mafia che fa lavorare anche alcuni ex carcerati. Una terza iniziativa è il Polo di eccellenza Luigi e Mario Sturzo in collaborazione con il Rinnovamento nello Spirito che in un fondo donato alla diocesi dai fratelli Luigi e Mario Sturzo , attraverso una Fondazione diocesana si occupa del reinserimento sociale dei carcerati attraverso la riscoperta della fede, il lavoro, la cultura e la famiglia.A Pietraperzia la Comunità Frontiera , animata da un padre francescano(p. Giuseppe De Stefano) ha realizzato un centro giovanile e sta progettando una città dei ragazzi che interesserà anche il comune di Barrafranca. A Gela e a Niscemi alcuni ragazzi difficili o ex baby-mafiosi vengono seguiti nel progetto “Cieli e Terra nuova” promosso dalla Caritas con attività di catechesi, di recupero scolastico e di formazione professionale. Nel carcere di Enna nel reparto dell’alta sicurezza ci sono un gruppo di detenuti che stanno compiendo un cammino di fede animato da una comunità neocatecumenale. Per sconfiggere questa barriera invisibile, contro cui si infrangono i discorsi ufficiali, le denunzie morali, le prese di posizione istituzionali, è necessario un lavoro lungo, lento, capillare, volto ad educare più che a reprimere, a far capire, più che a promettere o minacciare, ad aprire prospettive nuove più che a dissertare su misure straordinarie. Per battere le mafie bisogna educare la gente, e per educare la gente bisogna essere convincenti. In famiglia, a scuola, in parrocchia, dev'essere possibile accompagnare le parole con l'indicazione di esempi efficaci; bisogna poter additare uomini e donne rappresentanti di una classe dirigente che non si ripiega su se stessa e sui propri interessi, lasciando il popolo al proprio destino, ma condivide davvero i problemi di tutti. Solo così il bene comune cesserà di essere un'elegante astrazione, buona per abbellire i discorsi di circostanza, e diventerà un valore condiviso anche dalla gente comune. E la criminalità organizzata quel giorno avrà davvero perduto la sua triste battaglia.In questo momento storico in cui vari imprenditori hanno avuto il coraggio di denunziare “il pizzo” e in cui vari appartenenti alla mafia sono stati catturati o uccisi è necessaria una collaborazione fra i vari settori della società civile ( imprenditori piccoli e grandi, sindacalisti, insegnanti, giornalisti) , Chiesa in tutte le sue articolazioni, e pubbliche istituzioni (magistratura, forze dell’ordine, amministratori locali, politici), ognuno nelle sue specifiche competenze senza confusioni di ruoli, per contrastare il fenomeno mafioso nella fondata speranza che la mafia può essere se non definitivamente debellata almeno significativamente ridimensionata e comunque isolata dal punto di vista morale e civile Verso questa direzione ci sono alcuni semi che bisogna far germogliare con la collaborazione di tutti. Alla chiara coscienza della radicale incompatibilità tra mafia e vita cristiana e di conseguente rifiuto di ogni compromissione della comunità ecclesiale col fenomeno mafioso, la Chiesa non solo siciliana non può non sentirsi legata. Tanto più che questa coscienza è stata suggellata dalla splendida testimonianza del martirio di don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia solo perché fedele al suo ministero. Bisogna ricordare che l’influsso nefasto delle mafie non è ristretto alla regioni meridionali ma ha dimensioni nazionali ed internazionali. Già nel 1900 don Luigi Sturzo scriveva che “la mafia ha i piedi in Sicilia ma afferra anche a Roma”. Di fronte a questa piaga profonda la Chiesa per non ridursi a “religione civile” deve dare sull’esempio di Giovanni Paolo II un giudizio originale a partire da categorie tipicamente evangeliche, come “peccato”, “conversione”, “giudizio di Dio” che le permettano di offrire un contributo specifico alla formazione di una rinnovata coscienza cristiana . Su questo tema mi sono espresso, come Tu sai, su Regno Documenti n. 11 del 2008 pp. 356-359. E' compito della Chiesa sia aiutare a prendere consapevolezza che tutti, anche i cristiani, alimentiamo l' humus dove alligna e facilmente cresce la mafia, sia mettere in atto quei passi che possono condurre i singoli mafiosi a tale conversione. Tuttavia essa deve vigilare affinché l'esercizio del ministero di annuncio della misericordia di Dio non sia strumentalizzato dal mafioso, ad esempio durante la sua latitanza, e non si configuri, di fatto, come copertura o favoreggiamento di quanti hanno violato e talvolta continuano a violare la legge di Dio e quella degli uomini. Per i mafiosi è più importante apparire religiosi che esserlo veramente. Io a Gela sono stato insultato e minacciato per aver proibito, d’accordo con le autorità civili, il funerale solenne di un capomafia, che rischiava di trasformarsi in una legittimazione sociale del suo comportamento oggettivamente peccaminoso. Bisogna analizzare criticamente il fatto che, spesso, vari mafiosi si ritengono membri della Chiesa a pieno titolo, nient'affatto fuori della sua comunione, e danno per scontato nonostante la loro appartenenza a quella “struttura di peccato” che è la cosca mafiosa. Questa mentalità risulta da alcune pubblicazioni recenti come “La mafia devota” della sociologa Alessandra Dino e “Dio dei mafiosi” di Augusto Cavadi. L'atteggiamento pastorale verso i mafiosi va accompagnato dalla esigenza di prevenire i fenomeni criminosi ed aiutare i mafiosi a pentirsi , a riparare il male fatto e a diventare persone nuove".
(fonte: La Stampa.it)
Monsignor Michele Pennisi |
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