domenica 6 febbraio 2011

La Chiesa, lo Stato e la famiglia

Approfittiamo dello scarso materiale che anche questa settimana la politica ci ha offerto (settimana prossima parleremo del federalismo in modo da avere tutti gli elementi per una corretta valutazione), per puntare la nostra attenzione su un documento di approfondimento che si occupa del rapporto tra Stato, Chiesa e famiglia! Il documento è del Professor Mario Casotti e risulta molto interessante anche per il nostro percorso: 

LA CHIESA, LO STATO E LA FAMIGLIA,

contro il "cripto-statalismo" di J. Maritain 

del Prof. MARIO CASOTTI
(Tratto da MARIO CASOTTI, Pedagogia generale, vol. 1, La scuola, Brescia 1952, pp. 99-114)

Dimostrato che Dio è il fine ultimo dell'educazione si chiede se vi siano altri fini. E la risposta è che, poiché il fine educativo è costituito dai trascendentali (ente, uno, vero, buono), tanti fini vi saranno, quante sono le forme in cui i trascendentali stessi possono attuarsi. Ora, se l'attuazione dei trascendentali è massima e per eccellenza in Dio è chiaro, d'altra parte, ch'essa si può avere solo dove una coscienza sia capace di concepirli nella loro trascendentalità, ossia negli esseri pensanti e ragionevoli. E poiché, lasciata la sfera dell'educazione religiosa, non abbiamo, ora, da occuparci di altri esseri ragionevoli, è chiaro che fine prossimo dell'educazione sia l'essere ragionevole del quale solo abbiamo esperienza per via naturale, cioè l'uomo.

Il che, del resto, non contraddice davvero a quanto abbiamo detto prima, poiché nel fine ultimo si realizzano eminentemente anche i fini secondari; e, infatti, l'uomo non attua in modo migliore e più completo la sua essenza che quando è elevato a un fine soprannaturale e fatto partecipe della stessa vita divina, come nella religione. D'altra parte, anche sotto l'aspetto naturale, l'essere umano non ha quiete né equilibrio, finche non ha risolto il problema dell'essere e non ha messo, a centro della sua cultura come della sua vita, il Principio Primo di tutta la realtà, cioè, ancora, Dio.

E' ovvio, quindi, che l'uomo non possa fare a meno di cercare se stesso e la piena attuazione di sé e della ,sua natura, pur cercando Dio; e che, perciò, ogni educazione, pur essendo primariamente religiosa, sia, in secondo luogo, umana. Onde precisamente il concetto di cultura umana come costituente una finalità essenziale dell'educazione.

Ma l'uomo, abbiamo già visto, e lo diceva Aristotele fin dalla antichità, è un essere sociale, o un "animale politico"? e l'educazione medesima, noi pur l'abbiamo detto, è un fatto sociale. Qual è, dunque, il fine secondario dell'educazione? L'uomo individuo, o l'uomo in società? E non basta. Società ve ne sono parecchie, alle quali l'uomo può appartenere, e appartiene di fatto. Vi è la Chiesa, che è una società d'ordine soprannaturale, e vi sono la Famiglia e lo Stato che sono due società d'ordine naturale. Di qui le importanti questioni della teleologia pedagogica sulla gerarchia dei fini che queste società rappresentano nella realtà educativa.

Sgombriamo anzitutto, il terreno dagli equivoci. La filosofia c'insegna che, nonostante i disperati tentativi di alcuni autori per stabilire il contrario, l'uomo esiste come individuo, o come sintesi anima-corpo; mentre la società non ha alcuna propria consistenza ontologica, e altro non può essere che un insieme d'individui. Non è già la società come tale, ch'è fornita d'intelletto e di volere, o ch'è capace di rappresentarsi e di perseguire il trascendentale, o di realizzarlo eminentemente in sé, come se fosse Dio! Non è, dunque nemmeno da pensare che la società possa, per se stessa, rappresentare un fine superiore, o sopraordinato all'Individuo. Onde segue, come abbiamo già visto" la condanna di tutte quelle teorie che, idealisticamente o materialisticamente, vorrebbero educare l'individuo come fosse chiamato ad essere solo una "cellula" del corpo sociale, o un "momento dialettico" dello stato. Queste teorie sono, più o meno consapevolmente e intimamente legate col "totemismo" del quale abbiamo parlato nel precedente capitolo, e col quale si collegano ponendo l'individuo umano come un momento e un aspetto inferiore di una realtà che prende la sua coscienza solo nella mente del "capo", in cui si rispecchia lo spirito dello Stato o della nazione.

Data, dunque, l'insostenibilità del totemismo, cesarista, razziale o classista o d'altro genere, è evidente che il rapporto va rovesciato, e che noi non possiamo parlare se non di fine dell'uomo in quanto individuo e persona, e della società, di ogni società, come di mezzo per conseguire tale fine. La teleologia sociale non può essere altra dalla teleologia individuale, dato che ogni società ha, e non può non avere, per scopo, il "bonum" (avrebbero detto i filosofi scolastici) dall'individuo; un "bonum" soprannaturale se si tratta della Chiesa; un "bonum" naturale se si tratta della famiglia e dello stato. I fini delle diverse società, dunque, non sono concepibili che come i "bona" che l'uomo individuo si propone e attua secondo la sua natura umana. La gerarchia di tali fini è, dunque, chiaramente determinabile come la gerarchia dei fini, o dei beni, che la natura umana può proporsi, data la sua socialità.

Stabilito questo, è chiaro alla teleologia pedagogica che, siccome il "bonum" soprannaturale è superiore al "bonum" naturale e, anzi, lo contiene "eminenter", la Chiesa è la prima società che può e deve, secondo il suo fine, regolare l'educazione. Ciò deriva da quanto abbiamo detto nel precedente capitolo sulla unità dell'educazione e sul carattere religioso del suo ultimo fine. Che se Dio possiamo conoscerlo e fruirne medianti una rivelazione, e questa rivelazione è affidata ad una chiesa che n'è il vivente organo, è chiaro che senza questa chiesa mai potremmo raggiungere, nel modo più perfetto, il fine principale dall'educazione, di conoscere Dio "ut Deus".

Coloro che trovassero ostica questa proposizione, non hanno che da riflettere alla sua universalità; cioè, ch'essa è valida per qualunque religione e per qualunque chiesa; dal Brahmanesimo e dal Giudaismo, fino al "totemismo" moderno (ancorché, certo, l'effetto di queste religioni sull'educazione sia relativo al maggiore o minor grado di verità e civiltà che contengono). Basti richiamare ancora il semplice fatto già visto che, cioè, dove si è voluta violentemente scacciare una Chiesa, ad esempio, la cattolica, per proclamare, al suo posto, i diritti dello Stato sull'educazione, in realtà si è, invece, scacciata una chiesa per metterne, al suo posto un'altra; di solito un partito politico, ma, in realtà, pretendente per sé tutti gli attributi della chiesa e, anzi, come s'è visto, assai più, compresa la divinità del suo capo (il S. Padre è infallibile solo "ex cathedra" per ispirazione divina: i "capi" sono infallibili sempre e in tutto e per virtù, propria!).

Questo, sempre per effetto della legge già constatata; che, dove la tendenza religiosa dell'uomo non è soddisfatta in modo normale. essa si costruisce uno sfogo in modo anormale; dove una Chiesa di secolare civiltà come la cattolica, è respinta, sorge una chiesa totemistica, che poté essere massonica, razzistica, classistica o d'altro genere, ma che si arroga lo stesso decisamente, il diritto d'imporre il suo fine all'educazione.

Il limite di questo diritto della Chiesa, è dato dal concetto stesso di "chiesa" e di "religione". Poiché il "bonum" soprannaturale supera, ma non può contraddire il "bonum" naturale, è manifesto che sarà una chiesa nel senso proprio della parola, solo quella società spirituale che attui in sé i valori universali e trascendentali: una chiesa che insegnasse e praticasse l'omicidio, il furto, l'adulterio; ovvero propagasse degli errori e impugnasse le verità naturalmente dall'uomo conosciute, non sarebbe una chiesa, se non nel senso in cui, la scienza dei contrari essendo una sola, le false chiese sono considerate insieme alla vera, come l'ombra è studiata insieme alla luce.

Si capisce che, anche qui bisogna considerare un fattore storico: data la civiltà antica, il paganesimo classico, benché contenesse errori e immoralità, era sempre meglio che l'assenza di ogni religione; similmente, nelle civiltà orientali, il brahmanesimo e il buddismo. Prima del Cristianesimo, il Giudaismo rappresentava, senza dubbio, la religione più alta. L'Islamismo è, senza dubbio, anche parlando solo sotto l'aspetto naturale, un regresso rispetto al cristianesimo; pure, è sempre superiore all'ateismo. Le chiese cristiane protestanti sono, certo, inferiori alla cattolica; pure, godono di un incontestabile diritto, tanto più quanto in esse risplende qualche cosa di simile al cattolicesimo, e tanto più quanto ad esso più si avvicinano. In tal senso, come vedremo meglio dopo, lo Stato non può, senza diventare tirannico e oppressivo, arrogarsi di limitare l'azione educativa delle chiese, o, peggio, sopprimerla; perché le chiesa si attuano in una sfera di valori spirituali ch'è superiore a quella di ogni Stato.

Lo stesso non si può, invece, ripetere del totemismo. Se lo si considera presso i popoli selvaggi, anche qui non si potrà mettere in dubbio ch'esso sia sempre preferibile all'anarchia e al disordine. Ma, considerato presso i popoli civili, non è ammesso in nessun modo, che vi si possano riconoscere i caratteri di una "chiesa", se non nel senso già chiarito in cui la scienza dei contrari è una sola. Arbitrariamente questo totemismo sostituisce lo Stato alla chiesa, la società temporale e materiale alla società spirituale e sostituisce al libero, interiore consenso dei credenti in Dio, la brutale violenza e costrizione sotto il giogo di un capo, come sostituisce, al possesso di una rivelazione divina esprimente solo valori trascendentali, l'imposizione di leggi positive aventi solo la loro giustificazione nell'arbitrio di un individuo.

Ma tutto ciò diverrà più chiaro quando avremo stabilito il fine, e i relativi diritti della seconda società di cui l'uomo fa parte, ossia dello Stato.



Lo Stato ha per oggetto, come dicevano gli antichi scolastici, il "bonum comune in ordine temporali"; è, cioè, quella società in cui gl'interessi degli uomini debbono essere sistemati nella miglior maniera possibile, secondo le esigenze di questa vita terrena. Per raggiungere il "bene comune" lo Stato deve, certo, accordare tra loro gl'interessi dei singoli individui, e però la sua autorità è ordinata a che ciascuno sacrifichi quel tanto dei suoi interessi propri che danneggerebbe gl'interessi degli altri. Senza dubbio, perché questo obiettivo sia raggiunto, è necessario un livello comune di moralità e di cultura, che è nell'essenza dello Stato di pretendere e promuovere fra i cittadini.

Ciò vediamo chiaro nel concetto moderno di Stato liberale, come si dice se s'interpreta rettamente la parola, democratico . Lo Stato garantisce la libertà di ciascuno, fino a quanto questa non si opponga alla libertà di tutti gli altri. Lo Stato non ha una sua dottrina da insegnare, né una sua speciale morale da imporre, perché non ha, a questo scopo, né la competenza, né gli organi adatti. Chi infatti, avrebbe competenza per insegnare una simile dottrina o morale? Il capo dello stato? Ma il capo dello Stato ha altro da fare che darsi alla filosofia; e fuori che nella repubblica di Platone, i filosofi non governano, né sono i più adatti per governare.

Resta, dunque, che lo Stato si fondi su quella comune dottrina e morale naturale ch'è nella coscienza di tutti gli uomini in quanto essi ragionevoli, e che metta i dotti nelle migliori condizioni perché ognuno sia libero di pensare e ricercare; col solo suddetto limite, che nessuno possa danneggiati la libertà altrui; cioè, nessuno sia libero di coltivare l'ignoranza o l'immoralità. E siccome, nel campo naturale, il processo della ricerca si svolge sempre fra tentativi ed errori, è interesse dello Stato che tutti gli uomini siano liberi di ricercare; sì che gli eventuali errori di qualcuno, siano corretti dalla libera critica degli altri.

Ciò è quanto dire che lo Stato non ha diritti suoi propri ed originali nel campo educativo, ma solo diritti derivati; ossia che suo compito è riconoscere e sanzionare i diritti impliciti nella natura umana, o, altrimenti, si trasforma in Stato tirannico e oppressivo, e menoma la sua medesima essenza di Stato, sostituendo al diritto, la violenza.

Diritti propri lo Stato ha solo dove essi riguardano il suo proprio funzionamento e la sua struttura; così, esso ha diritto di esigere (dentro certi limiti) il servizio militare; come ha diritto di esigere contributi economici, o diritto di pretendere che ognuno contribuisca colla propria attività, esercitando un'arte o mestiere di sua scelta, alla prosperità comune; onde i correlativi diritti, che si riflettono nel campo educativo di vigilare perché ognuno si fornisca, a tali scopi, delle necessarie nozioni e attitudini. Ma è ovvio che tutti questi diritti non toccano le coscienze, in quanto sono, sempre diritti a che il singolo sacrifichi determinati interessi particolari in vista del bene comune; ma diritti a che l'individuo sacrifichi la moralità o la verità, valori trascendentali superiori allo Stato e che, anzi, lo condizionano, perché senza essi nessuna vita comune potrebbe stabilirsi. E questi stessi diritti trovano il loro limite nel fatto che, per essi anche l'individuo possa raggiungere il suo "bonum"; che, quando i sacrifici richiesti fossero tali da implicare (non "per accidens" come accade, ad es. nella guerra, ove accade che taluno muoia, ma molti si salvano; sebbene, "per se", come nelle uccisioni dei vecchi e ammalati di tipo nazista) la distruzione dell'individuo, i legittimi diritti dello Stato sarebbero, ancora, oltrepassati, e la vita selvaggia nelle foreste apparirebbe superiore alla vita civile.

A ciò taluno potrebbe obiettare che noi, così abbiamo considerato solo il moderno Stato liberale o "stato di diritto", come lo chiamano i giuristi non il vecchio Stato di tipo "assolutista". Rispondiamo che il caso è, infatti, ben diverso, specie ove si consideri lo stato, occidentale del tipo cattolico, o almeno, cristiano. In esso lo Stato si arroga un'autorità più ampia di quella sopra descritta; ma si osservi ch'esso se l'arroga, daccapo, non per sé, e in quanto è stato, sebbene in quanto riconosce sopra di sé, una religione che unisce governanti e sudditi in un'unica credenza. Governanti e sudditi trovandosi d'accordo, allora, nel riconoscere una determinata dottrina come rivelata, e una determinata chiesa come la depositarla e maestra di tale rivelazione, non v'ha nessun dubbio che, anche la legislazione positiva debba riconoscere tale fatto. Né si potrebbe parlar di tirannide; poiché, se il capo dello Stato legifera in base a principi, poniamo, cattolici, non fa che applicare gli stessi principi che tutti i sudditi professano, ossia tutelare la loro medesima coscienza religiosa; la quale da ciò non si sente punto oppressa anzi, sollevata; come si sentirebbe, invece, al contrario, oppressa e ridotta in schiavitù, da un governo che legiferasse in base a principi anticristiani. D'altra parte, in tal caso, ogni arbitrio del governante è impedito anche dal fatto ch'esso ha riconosciuto il potere spirituale della chiesa, la quale è pronta a impedire, colla forza che le viene dal consenso universale dei cittadini, qualsiasi eventuale abuso della sua dottrina. Di fronte a Dio, anche il re più assoluto, sa di dover rendere conto delle sue azioni colla stessa severità, anzi, maggiore, colla quale deve renderne conto l'ultimo plebeo. |

Di questo non ci si rende conto quando si parla di assolutismo; o, peggio, quando si tenta di ripristinare, in tempi moderni, la forma e l'autorità dello Stato antico. Ben diverso è l'esser governati da un capo che riconosce, sopra di sé, una legge divina e si assoggetta ad essa come l'ultimo dei suoi sudditi; e l'esser governati da un capo il quale crede solo in sé stesso e non ammette nulla sopra di sé. In quest'ultimo caso, si deve necessariamente andare al totemismo moderno, con tutta l'orrenda tirannide e lo schiavismo ch'esso comporta: nell'altro caso, ci sono da temere soltanto i pericoli, reali, ma incomparabilmente minori e, in ogni caso, meglio rimediabili, dei re e degl'imperatori "sacrestani" o dei dissensi particolari fra autorità politica e autorità religiosa: tutte cose che l'umanità ha già sperimentalo, senz'averne, tutto considerato, nemmeno una minima parte in tanti secoli, del danno che il totemismo ha arrecato in pochi anni recentemente.

Si aggiunga, inoltre, che l'assolutismo monarchico non è niente affatto l'unica forma di governo che riconosca, sopra sé, una religione : vi sono state democrazie (si pensi ai Comuni del medioevo) e aristocrazie parimenti istituite su basi cristiane, e nelle quali la libertà umana non era, certo, trattata peggio che dalla legislazione naturalistica uscita dalla rivoluzione francese.

E la conclusione sarà, sempre, la solita. O agnostico e puramente liberale, o religioso e, come si dice "confessionale" lo Stato non ha, in educazione, che dei diritti derivati; sia dalla ragione naturale, sia dalla rivelazione religiosa, né può, all'uomo porre altri fini da quelli deducibili. L'unica differenza sembra esser questa: che lo Stato puramente liberale non avendo un "organo" adeguato per determinare a quali principi debba ispirarsi l'educazione fondata sulla ragione naturale, poiché gli uomini politici non sono, a ciò, competenti, e i dotti e i filosofi sono, fra loro, discordi, molto più facilmente corre il rischio che la stessa coscienza dei valori trascendentali sia smarrita e che tutto il sistema educativo degeneri. Viceversa, lo Stato confessionale, avendo un tale organo nella chiesa, con molta maggior facilità serba incorrotte ed efficienti le istituzioni educative.

Né è a dire che, nello Stato confessionale, la libertà di discussione e determinazione, indispensabile all'educare, venga meno: che, se non si pongono in discussione, e sarebbe impossibile, i principi trascendentali, o le loro realizzazioni eminenti in sede religiosa, larghissima sfera resta alla libera discussione e determinazione nell'attuare ed applicare i suddetti principi alle situazioni contingenti e ai particolari bisogni degl'individui e del popolo. Mettere ai voti se Dio esiste o meno, è assurdo quanto mettere ai voti se due e due fa quattro; viceversa il deliberare su una guerra, su un trattato, su una legge, su una o l'altra forma di governo, è logico e pienamente ammissibile, anche nello Stato più rigorosamente confessionale. E fanno semplicemente sorridere quelli i quali sostengono che in tempi, come il medioevo, nei quali l'individuo, purché fornito delle sole sue gambe, era libero di andare dove voleva e dappertutto trovava la possibilità di farsi, a suo modo, la sua vita, fossero meno liberi di tempi come gli odierni, nei quali solo per nascere e respirare occorre il beneplacito di non so quanti enti e autorità costituite, tutti ricchi di divieti, tasse, balzelli e costrizioni d'ogni genere. Vi fu mai misero servo della gleba che fosse così compassionevolmente legato da tutte le parti, come i civilissimi cittadini degli stati moderni, dopo la seconda guerra europea?



Bisogna ancora, in sede di teleologia pedagogica, richiamare una distinzione che, oggi, per effetti del totemismo statalistico, molti tendono a dimenticare. Quello fra Stato e governo. L'uno è la comunità di tutti i cittadini ordinata al bene comune: l'altro è solo il mezzo di ordinarla, o l'organo dell'ordine. Perché uno Stato non sia irrazionale e tirannico, è necessario che il governo sia solo l'interprete fedele e il buon amministratore dei bisogni e delle esigenze dei cittadini; non il padrone. Che se l'antico Stato, detto dai giuristi in una certa fase, Stato "patrimoniale", rendeva il territorio e i beni, e i cittadini stessi "proprietà" del monarca non bisogna dimenticare che questa era, appunto, una fase primitiva; e che, in ogni modo, nelle monarchie cristiane, risultava sempre temperata dal fatto ormai più volte ricordato; che il monarca, investito di diritto divino, era anche, a questo diritto, sottomesso; né poteva fare della sua proprietà altro uso da quello che la religione e la chiesa gli prescrivevano; pena l'esser privato del suo diritto e colpito di scomunica. In realtà, dunque, anche il re o l'imperatore era, di fronte a Dio, niente altro che "l'amministratore" del suo Stato; e similmente lo erano i nobili e i feudatari ai quali veniva delegata uria parte dell'autorità. Cosa assai diversa dallo Stato totemistico, che è, pure, Stato patrimoniale, in cui tutto appartiene al dittatore, ma senza alcun limite, né alcuna possibilità di controllo o di appello!

Di qui la famosa disputa, su qual sia la torma migliore di governo, se la monarchia, la democrazia o l'aristocrazia secondo che il potere sia, rispettivamente, in mano a uno solo, a tutti i cittadini, o solo ad alcuni di essi, e la non meno famosa soluzione di S. Tommaso proclamante, ad esempio di Aristotele, che il miglior governo è quello che contempera e unisce, in sé, tutte queste forme. Che, in sostanza, vuol dire essere il miglior governo, quello ch'è in mano di un solo, ma in cui tutti concorrono e collaborano e in cui alcuni sono, necessariamente investiti di particolari autorità.

Ma, a parte questo, ognuno vede che, in educazione, se lo Stato non ha diritti o fini suoi originali, molto meno può averli il governo, che dello Stato è solo una piccola parte; e al quale spetta solo interpretare il volere della collettività. Dovremo ricordarcene, quando si tratteranno le questioni della scuola pubblica e privata, statale e non statale; della libertà della scuola, dell'obbligo scolastico ecc.



La terza società della quale l'uomo fa parte, è la famiglia. Come lo Stato è, anch'essa, una società di carattere naturale, ma si trova in posizione ben differente da questo, nel fatto educativo. Poiché l'educazione è azione dell'individuo formato, o in atto perfetto, sull'individuo ancora in potenza, o in atto imperfetto, nessuno può negare che quest'azione, e s'inizii e si compia, per ciascun individuo, nella famiglia che gli da’ la nascita e che si continui in essa, per un tempo e con un'efficacia che non si riscontrano in nessun'altra istituzione educativa. Di fatto, l'individuo nasce incapace di sopperire, da sé, anche ai suoi più elementari bisogni materiali, e il padre e la madre agiscono per lui finch'egli non sia arrivato al possesso di quelle cognizioni e attitudini che gli permettano di provvedere da sé; periodo, dato il lento sviluppo dell'essere umano, assai lungo. Lo stesso ricorso ad altre istituzioni come la scuola, o all'opera, comunque, di altri educatori, è in mano della famiglia; sono il padre e la madre che determinano, per il figliuolo il quale non ne avrebbe la capacità, se e quando valersi, per esso, di altri educatori.

A ciò alcuni obiettano che questo diritto della famiglia non varrebbe nulla, se lo Stato non lo riconoscesse e non lo tutelasse; che, dunque, in realtà, è lo Stato e non la famiglia, l'autore di questo diritto. Ragionamento così poco fondato, come quello di chi dicesse che il diritto dell'uomo a studiare e conoscere la verità, non vale nulla se lo Stato non gli concede di comprare i libri, di avere delle stanze illuminate e riscaldate ecc.: dunque il diritto di conoscere la verità spetta allo stato. Ma lo Stato esiste, appunto, per il bene comune; ossia per far rispettare i diritti impliciti della natura umana; e, se non lo fa, distrugge se stesso, in quanto Stato, riabbassandosi ad un'orda!

E l'argomento si può, anche, facilmente ritorcere. Che cosa sarebbe lo Stato se non esistessero le famiglie, e gli uomini cessassero di nascere, o di essere allevati? Lo stato, fisicamente, non è che un insieme di famiglie. Inoltre, la famiglia, anche supposta nella selva primitiva o nelle condizioni di Robinson Crosuè, può sempre, ancorché con difficoltà, adempiere la sua funzione di generare, allevare, educare dei figli, senza il concorso di uno stato: viceversa, lo Stato senza famiglia non può neppure cominciare ad essere, in nessuna condizione. Non è, dunque, neppure lontanamente ammissibile. che si possa parlare delle finalità educative della famiglia, come di qualcosa che pioverebbe a lei per graziosa concessione dello Stato: il quale, riconoscendole, non fa che adempiere una doppia necessità, fisica e morale, che per nulla esso ha contribuito a produrre o, peggio, come amano dire alcuni a "creare"! La creazione, come i miracoli, è troppo al disopra del modestissimo potere che hanno anche le più grandi società umane!

Questa stessa priorità nel diritto naturale la famiglia conserva innanzi, non solo allo stato, ma alla Chiesa medesima. La quale, benché sola possa conferire all'individuo la vita soprannaturale ed eserciti, quindi, in questo senso, una maternità tanto reale quanto quella della famiglia; conscia che il soprannaturale eleva e perfeziona la natura, ma non la distrugge, ha sempre rispettato questa priorità, ed ammesso che il figlio appartiene al padre, finché non giunga all'autonomia. Com'è noto, infatti, dall'antica disputa medioevale, se fosse lecito, per il bene delle loro anime, strappare i figli dalle famiglie e battezzarli, nonostante il volere dei genitori; e dalla costante risposta negativa che ispirò la prassi della Chiesa cattolica (purtroppo non seguita da alcuni capi di stato; onde il falso zelo dei battesimi forzati e delle "conversioni in massa" presso certe nazioni).

La famiglia è l'ente in cui l'individuo, che ha cominciato la sua vita in condizioni simili a quelle di un animale, giunge per la prima volta alla coscienza del vero, del buono, del bello, cioè dei trascendentali. Essa ha, dunque, un originala e insostituibile valore educativo, e la sua finalità è quella di rendere l'individuo autonomo, cioè capace di sopperire ai propri bisogni e adempiere i doveri della vita quotidiana.

D'altra parte, è pure necessario ricordare che, come lo Stato, nemmeno la famiglia è "creatrice" di valori, e che, perciò, se essa può, sotto un certo aspetto, vantare una "proprietà" rispetto ai figli, in quanto essi sono ancora incapaci d'agire e di pensare per se stessi, e, perciò, debbono essere sostituiti in queste funzioni, dai genitori: tale proprietà cessa coll'assurgere dei figli all'autonomia, e non può essere diretta che secondo i valori trascendentali, sia religiosamente che naturalmente considerati. La famiglia che piegasse i figli ad azioni immorali, o li tenesse nell'errore e nel falso, o li considerasse come schiavi, esorbiterebbe dal suo diritto e in ultima analisi, distruggerebbe se stessa, in quanto verrebbe meno alla sua funzione di educare, riducendosi a un puro aggregato materiale di individui.

Dobbiamo, perciò concludere come avevamo cominciato. Nessuna società, per quanto perfetta, può costituire, esattamente parlando, un fine per l'educazione; in quanto il "bonum" che in essa si attua è sempre e solo un valore trascendentale, non posto, ma solo riconosciuto dalla società come ragione della sua medesima esistenza.

Qual è dunque, la loro funzione teleologica? Essa è una funzione di motore, data dal fatto che l'individuo, posta la sua natura sociale, è portato dalla necessità a far parte di questi complessi collettivi e, perciò, ad obbedire, in essi, a un'autorità che lo spinge a fare ciò che da solo non farebbe, o farebbe molto più tardi e con maggiori difficoltà ed ostacoli. Se quest'autorità è ben diretta, cioè conforme ai valori trascendentali, l'individuo viene portato verso questi, più rapidamente ed agevolmente che se fosse solo: nel che si deve ravvisare una vera e propria azione educativa, consistente nell'azione degli individui già formati, in atto perfetto, su individui non ancor formati e in potenza, o in atto imperfetto.

Ora, l'obbediente, dice S. Tommaso, è mosso dall'imperio di colui che comanda, da una certa necessità di giustizia ("quadam necessitate justitiae") come un cosa, in natura, è mossa dalla forza che la muove, per necessità di natura ("necessitate naturae"). Ma questa possente forza dell'obbedienza ha dei limiti. Una cosa in natura può resistere alla forza che la muove, per due ragioni: o per l'impedimento che le viene da un'altra forza maggiore, come un legno che resiste all'azione del fuoco, perché penetrato d'acqua: ovvero per difetto di proporzione fra il movente e il mosso, che si assoggetta al movente solo sotto un certo aspetto, e non in tutto, come il liquido che si assoggetta al calore in quanto è riscaldato, ma non in quanto allo svaporare, se il calore non è Stato sufficiente.

Allo stesso modo, per due ragioni, l'individuo può resistere all'obbedienza. In primo luogo, per il comando di un'altra autorità superiore a quella che comanda attualmente, come quando, poniamo, lo Stato o la famiglia vogliono ordinargli cose contro l'autorità religiosa. In secondo luogo, per difetto di proporzione nel comando, in quanto un'autorità comandi cose che non ha il diritto di comandare, e nelle quali il comandato non le è soggetto. Così, per ciò che riguarda i moti interiori della volontà, l'uomo non è tenuto d'obbedire all'uomo, ma solo a Dio. E, anche per gli atti esterni, l'uomo non è tenuto ad obbedire all'uomo in ciò che riguarda la natura del corpo stesso, per la quale tutti gli uomini sono eguali; come per la nutrizione o per la generazione della prole e, in genere, per i beni necessari alla vita. Ma nelle cose che riguardano la disposizione degli atti e delle cose umane, l'individuo è tenuto ad obbedire al suo superiore "secundum rationem superioritatis", come i soldati al capitano in ciò che riguardo il servizio militare, il servo al padrone in ciò che riguarda il servizio domestico, il figlio al padre in ciò che riguarda la disciplina della vita familiare, e via dicendo (S. Thom., Summa Theol., II, 2.ae. Q. CIV, art. V In corp.).

Qui il limite delle varie società, in quanto motrici dell'educazione. Nessuna di esse può imperare direttamente all'interno della volontà, contrariamente a quanto accade negli stati totemistici o totalitari che presumono disporre dell'anima dei sudditi, come fosse loro possesso. E, anche quanto agli atti esterni, ogni società può comandare solamente, "ratione superioritatis", cioè per quello soltanto in cui l'individuo le è soggetto; lo Stato per il servizio militare, le tasse, l'ordine pubblico; la famiglia per la disciplina della vita domestica; la chiesa, per il conseguimento dei beni soprannaturali.

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