giovedì 24 febbraio 2011

La piaga della mafia - Io, Falcone, vi spiego cos'è la mafia

Continuiamo il nostro appuntamento settimanale contro la piaga della mafia attraverso le parole di Giovanni Falcone di cui abbiamo riscoperto la storia nella settimana scorsa. Si tratta di un discorso in cui il giudice Falcone spiega l'evoluzione dell'organizzazione mafiosa denunciando la sottovalutazione del fenomeno mafioso da parte delle istituzioni che, per molto tempo, hanno fatto finta di niente. Tal discorso è stato pubblicato su "L'Unità" il 31 maggio 1992 e considerandone la lunghezza, preferiamolo dividerlo in tre parti per un approfondimento più corretto:

Nella relazione finale della Commissione d'inchiesta Franchetti-Sonnino del lontano 1875/76 si legge che «la mafia non è un'associazione che abbia forme stabili e organismi speciali... Non ha statuti, non ha compartecipazioni di lucro, non tiene riunioni, non ha capi riconosciuti, se non i più forti ed i più abili; ma è piuttosto lo sviluppo ed il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male». Si legge ancora: «Questa forma criminosa, non... specialissima della Sicilia», esercita «sopra tutte queste varietà di reati»...«una grande influenza» imprimendo «a tutti quel carattere speciale che distingue dalle altre la criminalità siciliana e senza la quale molti reati o non si commetterebbero o lascerebbero scoprirne gli autori»; si rileva, inoltre, che «i mali sono antichi, ma ebbero ed hanno periodi di mitigazione e di esacerbazione» e che, già sotto il governo di re Ferdinando, la mafia si era infiltrata anche nelle altre classi, cosa che da alcune testimonianze è ritenuta vera anche oggidì». Già nel secolo scorso, quindi, il problema mafia si manifestava in tutta la gravità; infatti si legge nella richiamata relazione:«Le forze militari concentrate per questo servizio in Sicilia risultavano 22 battaglioni e mezzo fra fanteria e bersaglieri, due squadroni di cavalleria e quattro plotoni di bersaglieri montani, oltre i Carabinieri in numero di 3120».
Da allora, bisogna attendere i tempi del prefetto Mori per registrare un tentativo di seria repressione del fenomeno mafioso, ma i limiti di quel tentativo sono ben noti a tutti.
Nell'immediato dopoguerra e fino ai tragici fatti di sangue della prima guerra di mafia degli anni 1962/1963 gli organismi responsabili ed i mezzi di informazione sembrano fare a gara per minimizzare il fenomeno. Al riguardo, appaiono significativi i discorsi di inaugurazione dell'anno giudiziario pronunciati dai Procuratori Generali di Palermo.
Nel discorso inaugurale del 1954, il primo del dopoguerra, si insisteva nel concetto che la mafia «più che una associazione tenebrosa costituisce un diffuso potere occulto», ma non si manca di fare un accenno alla gravissima vicenda del banditismo ed ai comportamenti non ortodossi di "qualcuno che avrebbe dovuto e potuto stroncare l'attività criminosa"; il riferimento è chiaro, riguarda il Procuratore Generale di Palermo, dottor Pili espressamente menzionato nella sentenza emessa dalla Corte d'Assise di Viterbo il 3/5/1952: «Giuliano ebbe rapporti, oltre che con funzionari di Pubblica Sicurezza, anche con un magistrato, precisamente con chi era a capo della Procura Generale presso la Corte d'appello di Palermo: Emanuele Pili».
Nella relazioni inaugurali degli anni successivi gli accenni alla mafia, in piena armonia con un clima generale di minimizzazione del problema, sono fugaci e del tutto rassicuranti.
Così, nella relazione del 1956 si legge che il fenomeno della delinquenza associata è scomparso e, in quella del 1957, si accenna appena a delitti di sangue da scrivere, si dice ad «opposti gruppi di delinquenti».
Nella relazione del 1967, si asserisce che il fenomeno della criminalità mafiosa era entrato in una fase di «lenta ma costante sua eliminazione» e, in quella del 1968, si raccomanda l'adozione della misura di prevenzione del soggiorno obbligato, dato che «il mafioso fuori del proprio ambiente diventa pressoché innocuo».
Questi brevissimi richiami storici danno la misura di come il problema mafia sia stato sistematicamente valutato da parte degli organismi responsabili benché il fenomeno, nel tempo, lungi dall'esaurirsi, abbia accresciuto la sua pericolosità.
E non mi sembra azzardato affermare che una delle cause dall'attuale virulenza della mafia risieda, proprio, nella scarsa attenzione complessiva dello Stato nei confronti di questa secolare realtà.
Debbo registrare con soddisfazione, dunque, il discorso pronunciato dal Capo della Polizia, Vincenzo Parisi, alla Scuola di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza. In tale intervento, particolarmente significativo per l'autorevolezza della fonte, il Capo della Polizia, in sostanza, individua nella criminalità organizzata e in quella economica i proventi della maggior parte delle attività illecite del nostro paese tra le quali spiccano soprattutto il traffico di stupefacenti e il commercio clandestino di armi. Sottolineando che la criminalità organizzata - e quella mafiosa in particolare - è, come si sostiene in quell'intervento, «la più significativa sintesi delinquenziale fra elementi atavici... e acquisizioni culturali moderne ed interagisce sempre più frequentemente con la criminalità economica, allo scopo di individuare nuove soluzioni per la ripulitura ed il reimpiego del denaro sporco».

L'argomentazione del prefetto Parisi, ovviamente fondata su dati concreti, ha riacceso l'attenzione sulla specifica realtà delle organizzazioni criminali e denuncia, con toni giustamente allarmanti, il pericolo di una saldatura tra criminalità tradizionale e criminalità degli affari: un pericolo che minaccia la stessa sopravvivenza delle istituzioni democratiche come ci insegnano le esperienze di alcuni paesi del Terzo mondo, in cui i trafficanti di droga hanno acquisito una potenza economica tale che si sono perfino offerti - ovviamente, non senza contropartite - di ripianare il deficit del bilancio statale. Ci si domanda allora, come sia potuto accadere che una organizzazione criminale come la mafia anziché avviarsi al tramonto, in correlazione col miglioramento delle condizioni di vita e del funzionamento complessivo delle istituzioni, abbia, invece, vieppiù accresciuto la sua virulenza e la sua pericolosità.


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