sabato 30 aprile 2011

La Chiesa nel mondo contemporaneo - XVIII parte

Continuiamo il nostro cammino di lettura della Costituzione Pastorale "Gaudiem et spes" di Papa Paolo VI. Si parla ancora in riferimento all'attività umana e vediamo come la preoccupazione, molto attuale, di Paolo VI riguarda essenzialmente la tentazione all'individualismo che comporta il progresso. Molte volte abbiamo sottolineato il carattere lungimirante di Paolo VI capace di analizzare il contesto socio-economico con l'occhio proiettato verso il futuro: ancora una volta vediamo come le sue preoccupazioni erano fondate in quanto il progresso a cui siamo giunti oggi, ha rafforzato proprio gli egoismi, a scapito delle unioni solidali e umane. Fortunatamente abbiamo Gesù come elemento che ci tiene ancora ancorati ai valori della carità e della solidarietà, ma c'è bisogno di osare di più: c'è bisogno che ognuno di noi viva il progresso non come un qualcosa con cui rafforzare i focolari domestici (o il proprio interesse economico), ma come qualcosa che possa risultare utile al prossimo e a chi ha bisogno: 

CAPITOLO III

L'ATTIVITÀ UMANA NELL'UNIVERSO  

37. L'attività umana corrotta dal peccato.

La sacra Scrittura, però, con cui si accorda l'esperienza dei secoli, insegna agli uomini che il progresso umano, che pure è un grande bene dell'uomo, porta con sé una seria tentazione.

Infatti, sconvolto l'ordine dei valori e mescolando il male col bene, gli individui e i gruppi guardano solamente agli interessi propri e non a quelli degli altri; cosi il mondo cessa di essere il campo di una genuina fraternità, mentre invece l'aumento della potenza umana minaccia di distruggere ormai lo stesso genere umano.

Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall'origine del mondo, destinata a durare, come dice il Signore, fino all'ultimo giorno (64).

Inserito in questa battaglia, l'uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche, con l'aiuto della grazia di Dio. Per questo la Chiesa di Cristo, fiduciosa nel piano provvidenziale del Creatore, mentre riconosce che il progresso umano può servire alla vera felicità degli uomini, non può tuttavia fare a meno di far risuonare il detto dell'Apostolo: « Non vogliate adattarvi allo stile di questo mondo » (Rm12,2) e cioè a quello spirito di vanità e di malizia che stravolge in strumento di peccato l'operosità umana, ordinata al servizio di Dio e dell'uomo.

Se dunque ci si chiede come può essere vinta tale miserevole situazione, i cristiani per risposta affermano che tutte le attività umane, che son messe in pericolo quotidianamente dalla superbia e dall'amore disordinato di se stessi, devono venir purificate e rese perfette per mezzo della croce e della risurrezione di Cristo.

Redento da Cristo e diventato nuova creatura nello Spirito Santo, l'uomo, infatti, può e deve amare anche le cose che Dio ha creato.

Da Dio le riceve: le vede come uscire dalle sue mani e le rispetta.

Di esse ringrazia il divino benefattore e, usando e godendo delle creature in spirito di povertà e di libertà, viene introdotto nel vero possesso del mondo, come qualcuno che non ha niente e che possiede tutto (65): «Tutto, infatti, è vostro: ma voi siete di Cristo e il Cristo è di Dio » (1Cor3,22).

38. L'attività umana elevata a perfezione nel mistero pasquale.

Il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, fattosi carne lui stesso e venuto ad abitare sulla terra degli uomini (66), entrò nella storia del mondo come uomo perfetto, assumendo questa e ricapitolandola in sé (67). Egli ci rivela « che Dio è carità » (1Gv4,8) e insieme ci insegna che la legge fondamentale della umana perfezione, e perciò anche della trasformazione del mondo, è il nuovo comandamento dell'amore.

Coloro pertanto che credono alla carità divina, sono da lui resi certi che la strada della carità è aperta a tutti gli uomini e che gli sforzi intesi a realizzare la fraternità universale non sono vani.

Così pure egli ammonisce a non camminare sulla strada della carità solamente nelle grandi cose, bensì e soprattutto nelle circostanze ordinarie della vita.

Accettando di morire per noi tutti peccatori (68), egli ci insegna con il suo esempio che è necessario anche portare quella croce che dalla carne e dal mondo viene messa sulle spalle di quanti cercano la pace e la giustizia. Con la sua risurrezione costituito Signore, egli, il Cristo cui è stato dato ogni potere in cielo e in terra (69), agisce ora nel cuore degli uomini con la virtù del suo Spirito; non solo suscita il desiderio del mondo futuro, ma con ciò stesso ispira anche, purifica e fortifica quei generosi propositi con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra.

Ma i doni dello Spirito sono vari: alcuni li chiama a dare testimonianza manifesta al desiderio della dimora celeste, contribuendo così a mantenerlo vivo nell'umanità; altri li chiama a consacrarsi al servizio terreno degli uomini, così da preparare-attraverso tale loro ministero quasi la materia per il regno dei cieli. Di tutti, però, fa degli uomini liberi, in quanto nel rinnegamento dell'egoismo e convogliando tutte le forze terrene verso la vita umana, essi si proiettano nel futuro, quando l'umanità stessa diventerà offerta accetta a Dio (70).

Un pegno di questa speranza e un alimento per il cammino il Signore lo ha lasciato ai suoi in quel sacramento della fede nel quale degli elementi naturali coltivati dall'uomo vengono trasmutati nel Corpo e nel Sangue glorioso di lui, in un banchetto di comunione fraterna che è pregustazione del convito del cielo.

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Continuando la via verso la Beatificazione

Continuiamo la strada verso la Beatificazione di Giovanni Paolo II, in programma nella giornata di domani, presentando due articoli molto interessanti: il primo mostra un miracolo che sembra esser frutto dell'intercessione di Papa Wojtyla (una bimba nasce sana nonostante fosse stato diagnosticata la sindrome di down); il secondo invece concerne un'intervista di Radio Vaticana al Cardinal Angelo Amato che ci trasmette l'idea di una Chiesa universalmente in festa per la beatificazione di Karol Wojtyla. Ormai le parole si sprecano, ma ogni volta sembra esserci un pezzetto nuovo che aiuta a completare il puzzle noto come Giovanni Paolo II:

(AGI) - CdV - "Nel 2007 alla tedesca Claudia, incinta di quattro mesi, l'ecografia aveva diagnosticato che la nascitura sarebbe stata affetta da trisomia 21". La donna invoco' l'aiuto di Giovanni Paolo II pregando intensamente affinche' la bambina invece nascesse sana e cosi' e' stato. "Al sesto mese una nuova indagine clinica mise in luce un ritardo della crescita fetale.
All'ottavo mese si manifesto' nella donna una gestosi, con ipertensione arteriosa ed edemi agli arti, che condussero a un parto prematuro, il 17 agosto. La piccola Helena risulto' perfettamente sana e continua anche attualmente a crescere normalmente". Lo racconta Saverio Gaeta nel libro 'Il miracolo di Karol', edito da Rizzoli, che ha potuto consultare quel "fiume ininterrotto di lettere che segnalano grazie e guarigioni" e che, rivela il giornalista, "ha continuato intanto ad affluire nella Postulazione della causa. E alcune di queste risultano straordinarie anche agli occhi di un profano".
Anche il caso di Jesse era considerato molto grave e le speranze che ne uscisse indenne erano molto poche. E, scrive Gaeta, "il nonno invoco' Papa Wojtyla e gli chiese di assistere il nipotino". Le indagini cliniche avevano infatti messo in luce che il suo fegato era stato danneggiato al punto da non essere piu' in grado di secernere diversi fattori della coagulazione necessari per la digestione, con il risultato che il suo stomaco stava avendo un'emorragia interna. Nel contempo non venivano prodotti gli enzimi che metabolizzano l'ammoniaca nel sangue. Il livello di ammoniaca aveva ormai superato quota 600, mentre il livello accettabile e' di 50, e ormai era imminente il rischio di irreversibili danni cerebrali. Il piccolo fu attaccato a una macchina per la dialisi del sangue, che riusci' a portare il livello a 200, comunque quattro volte piu' alto del normale. Gli vennero somministrati dei medicinali per aiutare, ma si sviluppo' un'emorragia per bocca difficoltosa da controllare. Dopo cinque giorni dal ricovero, con grande sorpresa dei sanitari, il neonato era ancora vivo.
Il livello dell'ammoniaca era ancora a 200, sebbene la dialisi fosse costante. Furono fatti un elettroencefalogramma e una tomografia del cranio, da cui ci si attendeva di vedere massive emorragie. Invece tutto risulto' privo di danni. Lo specialista dichiaro' che Jesse era "un sopravvissuto". Dalla Francia la cinquantenne Joelle, madre di un bambino che oggi ha 12 anni, descrive le proprie vicende. Nata con un foro cardiaco, che causa una non corretta circolazione (il cosiddetto "sangue blu"), venne sottoposta a diversi interventi chirurgici, che le "rattopparono" il cuore. Nel 2000 una indagine clinica mise pero' in luce un aneurisma all'aorta, che lo specialista consiglio' comunque di non operare, dati i rischi mortali.
Purtroppo pero' la situazione si aggravo' ulteriormente, tanto da rendere necessario, nel 2003, un intervento d'urgenza. A febbraio 2005, la donna si converti' al cattolicesimo durante un pellegrinaggio a Medjugorje e, subito dopo la morte di Giovanni Paolo II, provo' per lui una grande devozione. Il 6 aprile 2005, racconta la signora Joelle a Saverio Gaeta, "un dolore folgorante invade il mio torace: vedo la mia morte, prego il Papa: "Pieta', non voglio morire! Non voglio raggiungervi", e perdo conoscenza". Immediato il trasporto in ospedale e il ricovero in rianimazione cardiaca. La diagnosi e' chiara: dissezione dell'aorta, rottura dell'aneurisma. Nei giorni seguenti gli esami con il Doppler e l'Angio-scan consentono invece ai medici di constatare che tutto e' normale: incomprensibilmente, non si vede neppure la cicatrice dell'intervento che aveva sistemato l'aorta con un rivestimento di teflon. "Lei ha un cuore nuovo", e' lo stupefatto commento.
FONTE: AGI NEWS

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R. - Con sentimenti di gratitudine a Dio Trinità per il dono di questo grande Pontefice, che ha vissuto con radicalità il Vangelo di Cristo, da lui proclamato con coraggio ai quattro angoli della terra. Un aspetto significativo del suo pontificato è stato proprio l’entusiasmo missionario. I suoi viaggi apostolici erano vere e proprie “missiones ad gentes” per testimoniare la parola di vita e di verità di Nostro Signore Gesù Cristo.

D. - Papa Wojtyła ha ripetuto lungo tutto il suo Pontificato che la Chiesa e il mondo hanno bisogno di Santi. La sua Beatificazione ne è una conferma?

R. - Certamente. Se i conti sono giusti, Papa Wojtyła ha celebrato 1.338 beatificazioni (in questo numero ci sono anche gruppi di centinaia di martiri per una sola cerimonia) e 482 canonizzazioni. Sono tre le ragioni di questo autentico impegno pastorale: 1. ricordare ai fedeli di onorare con fedeltà gli impegni battesimali, corrispondendo alla loro chiamata alla santità (come dice il Vaticano II nel capo V della Lumen gentium); 2. mostrare al mondo che i beati e i santi, vivendo le beatitudini evangeliche, sono delle “buone notizie” per tutti. Essi, infatti, sono stati miti, misericordiosi, pacifici. I Santi sono autentici benefattori dell’umanità con l’accoglienza dei poveri e dei bisognosi, con la consolazione degli afflitti, con l’istruzione degli ignoranti, con la difesa dei deboli; 3. con il loro spirito di preghiera e di adorazione, i santi ci richiamano costantemente a vivere protesi verso la Gerusalemme celeste. I santi cioè spalancano la finestra di questo mondo al sole eterno della vita divina trinitaria. Uno degli aspetti più qualificanti del pontificato di Papa Wojtyła è stata la sua attenzione pastorale alla valorizzazione della santità. Del resto, mediante i beati e i santi molte famiglie cristiane e non sono state soccorse da miracoli clamorosi ottenuti con la loro intercessione. È come un potente raggio di grazia divina che risana le ferite dell’umanità.

D. - Per elevare un Servo di Dio all’onore degli altare c’è bisogno di un miracolo che nel caso di Giovanni Paolo II è stato accertato scientificamente. Ma quante altre testimonianze di santità avete ricevuto in questi anni dopo la sua morte?

R. - Una Beatificazione esige due elementi: la fama sanctitatis, e cioè la diffusa convinzione tra i fedeli della vita santa di un Servo di Dio, e la fama signorum, che è una conseguenza della fama di santità e che consiste nell’abbondanza di grazie e di favori ottenuti dai fedeli mediante l’intercessione di un Servo di Dio. Da questo punto di vista la causa di Giovanni Paolo II è stata facilitata sia da una diffusissima fama sanctitatis, sia anche da un’altrettanto solida fama signorum. Sono infatti innumerevoli le grazie – tra esse c’è anche il miracolo ottenuto da Suor Marie Simon Pierre – che i fedeli di tutto il mondo hanno ricevuto con l’intercessione di Papa Wojtyła. Ancora oggi arrivano testimonianze in tal senso. Proprio ieri mattina sul “Giornale” c’è la testimonianza della scrittrice Margherita Enrico che in un suo libro narra, fra l’altro, anche la guarigione miracolosa ottenuta dal suo bambino.

D. - Dopo l’annuncio della Beatificazione, che reazioni ha raccolto da parte della Chiesa nel mondo?

R. - Sono state tutte risposte di soddisfazione e di esultanza da parte dei Pastori e dei fedeli. Finalmente essi vedevano realizzato il sogno di venerare come Beato il Papa venuto dall’est. Dopo la sua morte, i cattolici di tutto il mondo erano profondamente convinti che Papa Wojtyła godeva già la comunione con Dio Trinità. Del resto, la sua tomba è stata ogni giorno meta di pellegrinaggi quotidiani, in tutte le stagioni, anche nelle giornate piovose e fredde. La beatificazione è la conferma solenne della convinzione del popolo di Dio, che crede che Giovanni Paolo II si trovi già in paradiso, da dove continua a ricordarsi di noi e a intercedere per i nostri bisogni spirituali e temporali.

D. - In molti già si chiedono quanto tempo trascorrerà prima della Canonizzazione di Giovanni Paolo II. Si può fare una previsione?

R. - Per la canonizzazione ci vuole un altro miracolo. Non credo che si possa fare una previsione precisa sulla data. Si può solo dire che dopo la beatificazione la postulazione si metterà all’opera per la raccolta delle grazie e per una loro eventuale valutazione. Una volta individuata una grazia, che potrebbe configurarsi come straordinaria, dopo l’indagine diocesana, ci sarà il processo romano, che comprende alcuni passaggi obbligati: commissione scientifica, consulta teologica, voti dei Padri Cardinali e Vescovi della Congregazione delle Cause dei Santi. Se tutto va bene, il Prefetto porta la documentazione dal Santo Padre per il suo consenso. Una volta espletata la procedura canonica, il Papa indice un concistoro pubblico, nel quale annuncia la data della canonizzazione. Vorrei fare una considerazione sul tempo. C’è in tutti una grande aspettativa di urgenza. È una realtà positiva. Vorrei solo aggiungere che il tempo in vista della canonizzazione non dovrebbe essere considerato tempo vuoto o semplice tempo di attesa. Questi mesi, questi anni sono un tempo provvidenziale per conoscere meglio la figura del Beato, per corrispondere con più fedeltà ai suoi esempi e insegnamenti. Questo tempo di attesa è quindi un tempo da riempire sia con la contemplazione del Beato sia con l’imitazione delle sue virtù. Un Santo non è solo da celebrare, ma soprattutto da imitare.

D. - Quali frutti si aspetta per la Chiesa da questa Beatificazione del primo maggio?

R. - Io credo che sono molti i frutti che la Chiesa si aspetta. Per i singoli fedeli Papa Wojtyła sarà ancora una volta ispiratore di conversione alla vita buona, di vocazione alla missione, di invito a “prendere il largo” (Lc 5,4) abbandonando gli atteggiamenti egoistici e incentivando gli abiti virtuosi della fede, della speranza, della carità, della fortezza. Per le nazioni “cristiane” la beatificazione di Papa Wojtyła sarà un richiamo serio a essere fedeli alle radici cristiane della loro civiltà, a evitare la deriva del materialismo pratico (dopo il perverso materialismo ideologico) e del relativismo etico, rifiutando l’aborto, le manipolazioni genetiche, l’eutanasia, la contraccezione, il divorzio. La Beatificazione non è solo un evento mediatico o sentimentale, ma un evento di grazia che deve produrre frutti spirituali di maggiore fedeltà al Vangelo. Se la beatificazione di Papa Wojtyła produrrà questi frutti sarà un’ulteriore conferma della sua santità.
FONTE: Radio Vaticana
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venerdì 29 aprile 2011

Noi ricordiamo - I appuntamento

Iniziamo oggi un nuovo appuntamento settimanale che ci porterà a ricordare l'orrore dell'Olocausto che ha avuto origine a causa della pazzia di un'ideologia politico-sociale nota come nazismo. E' importante pensare a ricordare perchè il mondo si dimentica facilmente delle cose avvenute in passato e già oggi vediamo prendere sempre più forma le varie teorie negazioniste che cercano di coprire la vergogna compiuta dall'uomo. Tutti oggi incolpano solo Adolf Hitler e la sua pazzia: in realtà non è solo la pazzia di un uomo che ha causato l'orrore della Shoah: la pazzia è stata di tutti quegli uomini che hanno obbedito; di tutti quei cittadini che hanno gridato insieme al Fuhrer, nelle piazze; di tutti coloro che deliberatamente hanno tratto piacere dal tentare di eliminare la razza ebraica dalla faccia della Terra. Sapere che l'uomo può giungere a compiere atti simili, fa davvero ribrezzo e ci spaventa molto perchè purtroppo abbiamo visto come non ci vuole molto né per dimenticare nè per cambiare la morale del proprio Paese. La politica ha un peso sulle coscienze: ha un peso che può davvero giungere a cambiare le coscienze, attraverso un'opera di lobotimizzazione, di lavaggio del cervello, di assopimento delle coscienze. E' dunque nostro dovere non smettere mai di ricordare e di trasmettere queste cose ai figli e ai figli dei nostri figli affinché imparino che nulla può giustificare un odio animalesco e la ghettizzazione di uomini diversi da noi. E la politica deve fare altrettanto, senza mai nemmeno porre un piccolo dubbio su queste cose e senza mai tentare di alimentare l'odio verso una categoria di persone, come in questi anni è accaduto nei confronti dei clandestini (grazie a Dio la Corte di Giustizia Europea ha nettamente bocciato la nostra legge che prevedeva il reato penale di clandestinità). 
Fatta queste doverosa premessa, cominciamo a leggere il documento della Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo, che ci chiarisce il perchè di tale iniziativa e il dovere della memoria:

COMMISSIONE PER I RAPPORTI RELIGIOSI CON L'EBRAISMO 
NOI RICORDIAMO:
UNA RIFLESSIONE SULLA SHOAH

Al Signor Cardinale
EDWARD IDRIS CASSIDY
Presidente della Commissione
per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo

In numerose occasioni durante il mio Pontificato ho richiamato con senso di profondo rammarico le sofferenze del popolo ebreo durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il crimine che è diventato noto come la Shoah rimane un'indelebile macchia nella storia del secolo che si sta concludendo.

Preparandoci ad iniziare il terzo millennio dell'era cristiana, la Chiesa è consapevole che la gioia di un Giubileo è soprattutto una gioia fondata sul perdono dei peccati e
sulla riconciliazione con Dio e con il prossimo. Perciò Essa incoraggia i suoi figli e figlie a purificare i loro cuori, attraverso il pentimento per gli errori e le infedeltà del passato. Essa li chiama a mettersi umilmente di fronte a Dio e ad esaminarsi sulla responsabilità che anch'essi hanno per i mali del nostro tempo.

È mia fervida speranza che il documento: Noi ricordiamo: una Riflessione sulla Shoah, che la Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo ha preparato sotto la Sua guida, aiuti veramente a guarire le ferite delle incomprensioni ed ingiustizie del passato. Possa esso abilitare la memoria a svolgere il suo necessario ruolo nel processo di costruzione di un futuro nel quale l'indicibile iniquità della Shoah non sia mai più possibile. Possa il Signore della storia guidare gli sforzi di Cattolici ed Ebrei e di tutti gli uomini e donne di buona volontà così che lavorino insieme per un mondo di autentico rispetto per la vita e la dignità di ogni essere umano, poiché tutti sono stati creati ad immagine e somiglianza di Dio.

Dal Vaticano, 12 marzo 1998.

COMMISSIONE PER I RAPPORTI RELIGIOSI CON L'EBRAISMO

NOI RICORDIAMO: UNA RIFLESSIONE SULLA SHOAH

I. La tragedia della Shoah ed il dovere della memoria

Si sta rapidamente concludendo il XX secolo e spunta ormai l'aurora di un nuovo millennio cristiano. Il Bimillenario della nascita di Gesù Cristo sollecita tutti i cristiani, e invita in realtà ogni uomo e ogni donna, a cercare di scoprire nel fluire della storia i segni della divina Provvidenza all'opera, come pure i modi in cui l'immagine del Creatore presente nell'uomo è stata offesa e sfigurata.

Questa riflessione riguarda uno dei principali settori in cui i cattolici possono seriamente prendere a cuore il richiamo loro rivolto da Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Tertio millennio adveniente: « È giusto pertanto che, mentre il secondo Millennio del cristianesimo volge al termine, la Chiesa si faccia carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli nel ricordo di tutte quelle circostanze in cui, nell'arco della storia, essi si sono allontanati dallo spirito di Cristo e del suo Vangelo, offrendo al mondo, anziché la testimonianza di una vita ispirata ai valori della fede, lo spettacolo di modi di pensare e di agire che erano vere forme di antitestimonianza e di scandalo ».(1)

Il secolo attuale è stato testimone di un'indicibile tragedia, che non potrà mai essere dimenticata: il tentativo del regime nazista di sterminare il popolo ebraico, con la conseguente uccisione di milioni di ebrei. Uomini e donne, vecchi e giovani, bambini ed infanti, solo perché di origine ebraica, furono perseguitati e deportati. Alcuni furono uccisi immediatamente, altri furono umiliati, maltrattati, torturati e privati completamente della loro dignità umana, e infine uccisi. Pochissimi di quanti furono internati nei campi di concentramento sopravvissero, e i superstiti rimasero terrorizzati per tutta la vita. Questa fu la Shoah: uno dei principali drammi della storia di questo secolo, un fatto che ci riguarda ancora oggi.

Dinanzi a questo orribile genocidio, che i responsabili delle nazioni e le stesse comunità ebraiche trovarono difficile da credere nel momento in cui veniva perpetrato senza misericordia, nessuno può restare indifferente, meno di tutti la Chiesa, in ragione dei suoi legami strettissimi di parentela spirituale con il popolo ebraico e del ricordo che essa nutre delle ingiustizie del passato. La relazione della Chiesa con il popolo ebraico è diversa da quella che condivide con ogni altra religione.(2) Non è soltanto questione di ritornare al passato. Il futuro comune di ebrei e cristiani esige che noi ricordiamo, perché « non c'è futuro senza memoria ».(3) La storia stessa è memoria futuri.

Nel rivolgere questa riflessione ai nostri fratelli e sorelle della Chiesa cattolica sparsi nel mondo, chiediamo a tutti i cristiani di unirsi a noi nel riflettere sulla catastrofe che colpì il popolo ebraico, e sull'imperativo morale di far sì che mai più l'egoismo e l'odio abbiano a crescere fino al punto da seminare sofferenze e morte.(4) In modo particolare, chiediamo ai nostri amici ebrei, « il cui terribile destino è divenuto simbolo dell'aberrazione cui può giungere l'uomo, quando si volge contro Dio »,(5) di predisporre il loro cuore ad ascoltarci.

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Giovanni Paolo II: un Grande Piccolo della Gioia

Continuiamo la nostra strada verso la Beatificazione di Giovanni Paolo II, attraverso la lettura di un articolo di Don Giacomo Pavanello (pubblicato da Nuovi Orizzonti) che si sofferma sulla figura del nostro caro Papa polacco: 

Ancora qualche giorno e saremo tutti pienamente immersi nella festa per la Beatificazione di Giovanni Paolo II il Grande. Abbiamo ancora in mente quel giorno di aprile del 2005, quando i cardinali e i vescovi riuniti a Piazza San Pietro, gli occhi fissi sulla bara del pontefice, cercavano di ripararsi da un forte vento che scompigliava le sacre vesti e i vestiti da cerimonia dei diplomatici presenti. Quello stesso vento giocava sfogliando le pagine della Sacra Scrittura appoggiate sul legno della cassa, fino a chiudere definitivamente il libro. Difficile non cogliere la potente metafora che la Natura voleva trasmettere in mondovisione: un’esistenza terrena si chiude, ma il vento continua; lo start è stato dato, ora inizia la gara.

Penso a quanto vento Giovanni Paolo II abbia permesso che soffiasse nella Chiesa e nel mondo: è giustamente considerato un Grande perché non si è limitato a scrivere e a parlare di nuova evangelizzazione, ma ha pure agito in prima persona, dando un esempio per evitare il rischio di un equivoco. Papa Wojtyła non ha assunto la logica dell’«Armiamoci e partite!», ma ha viaggiato in prima persona più di qualunque altro uomo di Dio. La stessa scelta del nome Giovanni Paolo, indicò fin dall’inizio la volontà di essere Apostolo delle genti, non stando dietro una scrivania o presiedendo riunioni e sinodi, ma mettendosi letteralmente in marcia. Fu molto criticato per questo suo protagonismo e per questo suo essere così visibile, tanto che alcuni vedevano in questo il rischio di mettere in ombra la Chiesa o, addirittura, Gesù Cristo. Io stesso, a Tor Vergata nel 2000, durante la Giornata Mondiale della Gioventù, scandivo il nome “Giovanni Paolo” e non “Gesù”: tuttavia, è a Lui che il papa polacco indirizzava l’attenzione, parlando sempre di Gesù e mai di sé.

La Comunità “Nuovi Orizzonti” nasce sotto il suo pontificato: come non pensare che tutti noi ci siamo abbeverati ad una fonte indicata con forza da Wojtyła? Chiara iniziò a percorrere gli inferi di Stazione Termini nel 1991. Proprio al 1991 risale un’enciclica capolavoro di Giovanni Paolo II che è la “Redemptoris Missio”, un faro per la nuova evangelizzazione. Non dimentichiamo che lo stesso termine “nuova evangelizzazione” fu coniato ed esportato in ogni angolo della terra proprio dal Papa. Nel testo citato, l’esordio è fulminante: “La missione della Chiesa è ancora agli inizi”. Viene da pensare che il Papa fosse male informato: come può dire che la missione della chiesa è appena agli inizi? Eppure, fatti alla mano, l’essere battezzati, addirittura l’essere consacrati, non garantisce di essere stati evangelizzati, cioè di aver permesso che l’annuncio di un Dio nato, vissuto, morto e risorto per la salvezza degli uomini diventasse esperienza di vita, s’incarnasse nel profondo della vita quotidiana di ciascuno. Quando proponiamo incontri di formazione all’evangelizzazione di strada, ricordiamo sempre che l’attenzione maggiore non va data alle tecniche o alle modalità; centrale è la persona in sé. Quante volte Papa Wojtyła ha voluto lottare contro ogni messa in ombra dell’unicità e irripetibilità di ogni essere umano!! In svariate occasioni ha ripreso in mano passaggi e concetti della Costituzione Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II dedicata alla posizione della Chiesa nel mondo contemporaneo, alla cui stesura lui stesso, ancora vescovo di Cracovia, diede un contributo particolare.

Se Paolo VI, con l’Evangelii Nuntiandi, ha dato il “LA” alla nuova stagione di evangelizzazione della Chiesa, Giovanni Paolo II è stato il nocchiero che ha preso in mano il timone e ha aperto la rotta, consegnando poi la barca della Chiesa a Benedetto XVI, chiamato a confermare tutti noi nella Verità.

Nuovi Orizzonti non può che essere riconoscente al grande pontefice polacco, perché ha rappresentato la paternità e il vivo esempio di ciò che era urgente fare per questi tempi. Egli però è stato una luce per tutti noi, non solo per le iniziative o gli spunti pastorali inerenti alla nuova evangelizzazione, ma anche per altri due aspetti. In primo luogo, ha incarnato in fondo la Gioia vera. Non mi spendo in parole: tutti noi conserviamo nel cuore tanti fotogrammi del papa polacco col sorriso stampato e gli occhi furbi accesi di vita. Un Piccolo della Gioia luminoso!! In secondo luogo, il suo rapporto con il dolore e la sofferenza. Mai se n’è sottratto! In un mondo come quello attuale, in cui si fa a gara per trovare la modalità più veloce e più efficace di togliere di mezzo non solo il dolore, quanto anche qualsiasi forma di disagio, Giovanni Paolo II è andato controcorrente. Ha voluto caricarsi coraggiosamente di ogni croce, sia quelle fisiche che quelle morali, sia quelle proprie che quelle altrui. Si è immerso con amore in quell’abisso di dolore in cui fin troppe volte l’umanità si trova a cadere, sapendo che niente come il soffrire apre e dilata il cuore, rendendolo capace di amare senza misura. Giovanni Paolo II ha insegnato a vivere quello che lui personalmente ha sperimentato: non si può annunciare quello di cui non si è fatto esperienza. Difficilmente si può essere credibili: si parlerà di Gesù, ma non sarà certo Gesù a parlare in noi. Nel 1993, a Denver, Giovanni Paolo II invitò i giovani con forza ad un rinnovato impegno evangelizzatore: parole quanto mai attuali.

“Non abbiate paura ad andare per le strade e nelle pubbliche piazze, come i primi Apostoli che predicavano il Cristo e la Buona Novella della salvezza sulle piazze delle città, delle borgate, dei villaggi. Non è ora di vergognarsi del vangelo! È ora di predicarlo dall’alto dei tetti!”

Grazie, Karol, il tuo spenderti senza risparmio ha aperto una strada luminosa di santità su cui ogni giorno cerchiamo di incamminarci. Grazie per aver dischiuso nuovi orizzonti per la Chiesa. Grazie per averci testimoniato con la vita che Gesù Cristo è gioia e amare è vita eterna. Grazie per aver mostrato con coraggio che il dolore è dignità che dilata il cuore. Grazie per aver abbracciato la croce. Fino alla fine. Grazie, Santità!
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giovedì 28 aprile 2011

La piaga della mafia - Discorso di Giovanni Paolo II

Torna l'appuntamento di approfondimento sulla piaga della mafia. Prima dell'interruzione del Triduo Pasquale, avevamo visto l'intervento del Venerabile Giovanni Paolo II, in piazza Politeama con i giovani siciliani. Oggi, vediamo l'ultimo discorso del Papa polacco, tenutosi sempre in Piazza Politeama, ma stavolta rivolto all'intera comunità civile cittadina: 

VISITA PASTORALE NEL BELICE E A PALERMO

INCONTRO DI GIOVANNI PAOLO II
CON LA COMUNITÀ CIVILE CITTADINA

Piazza Politeama (Palermo)
 Sabato, 20 novembre 1982

Illustri Signori!
Carissimi fratelli e sorelle!

1. Ringrazio sinceramente il Signor Ministro, il Presidente della Regione Siciliana e il Sindaco di Palermo per le nobili espressioni con cui hanno accolto il mio viaggio apostolico in questa Città, la capitale dell’Isola del sole; e ringrazio altresì tutti coloro che hanno voluto, al mio arrivo, manifestarmi il loro entusiasmo e la loro gioia.

Da parte mia, vi dico la mia grande letizia nell’essere finalmente qui, con voi, fra voi, per questa visita pastorale, che si compie in occasione dell’importante ricorrenza liturgica di Cristo Re. Giunga a voi tutti il mio saluto cordiale; un saluto che estendo volentieri alle popolazioni degli altri centri dell’Isola, nella speranza di poter ritornare in futuro a visitare di persona anche le loro comunità. Mi pare di sentire oggi con noi tutti gli abitanti della Sicilia, presenti qui, in questa antica ed illustre Capitale, che durante la sua plurisecolare storia ha spesso svolto un ruolo di protagonista: centro di convergenza e di incontro - come del resto tutta quest’Isola - di culture diverse; capitale durante il periodo degli Arabi e dei Normanni; ricca di insigni monumenti e importante centro culturale ed artistico.

Ma questa storia gloriosa, frutto del genio proprio del popolo palermitano, è stata arricchita ed animata nei secoli dalla fede cristiana, intensa e profonda, che ha trovato la sua più alta e pura espressione nei santi e nelle sante, fioriti, nel corso dei secoli, in Palermo e in tutta la Sicilia. Non posso non ricordare la vostra santa Rosalia, la “santuzza”, che voi venerate ed onorate e che, dal Monte Pellegrino, veglia sulla vostra città, di cui è patrona. Il vostro senso religioso ha ispirato ed orientato per secoli la vita familiare; l’esemplare capacità di donazione e di solidarietà verso gli altri, specialmente i sofferenti; l’innato rispetto per la vita; l’ammirevole senso del dovere e dell’onore. E questo profondo senso religioso ha trovato una delicata manifestazione nella secolare devozione a Maria santissima Immacolata, celeste patrona dell’arcidiocesi palermitana, la cui festività è celebrata in Sicilia fin dal IX secolo.

2. Quando gli antichi Greci approdarono in questa zona, la chiamarono “Panormo”, cioè “tutto porto aperto”; un nome che voleva indicare sicurezza, pace, serenità.

E venendo per la prima volta fra di voi, il mio augurio è che veramente questa Città, mantenendo sempre vivi i valori migliori della sua storia e della sua tradizione, sappia sempre realizzare per i suoi abitanti e per tutto il resto della Nazione l’auspicio di serenità e di pace, sintetizzato nel suo nome.

Questo comune desiderio può essere attuato soltanto mediante la collaborazione fattiva, continua e sincera di tutti i cittadini palermitani, e nel rispetto dei dettami della coscienza la quale, in nome di Dio, impegna a fare il bene ed a fuggire il male; ad amare e non ad odiare. Occorre pertanto ridare forza alla voce della coscienza, che ci parla della Legge di Dio, di quella Legge che egli ha inciso nel nostro spirito e che corrisponde alle esigenze della vera dignità della persona umana.

È alla luce di questa voce che vanno affrontati e risolti i problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli che in quelli della società. Occorre cercare sempre la verità e il bene, impegnandosi con tutte le forze a realizzarli nella vita personale ed in quella dei rapporti comunitari.

3. La realizzazione concreta di quell’augurio di serenità e di pace, implicito nel nome della vostra città, impegna tutti, direttamente e personalmente, alla promozione del bene comune e, in particolare, al continuo ed effettivo rispetto della persona umana, alla vigile ed amorevole attenzione ai bisogni dei più piccoli, degli emarginati, degli “ultimi”: sono queste infatti le condizioni fondamentali per una civile ed ordinata convivenza alla quale Palermo vuole tendere per essere oggi porto sicuro di vita concorde, serena ed onesta. I fatti di violenza barbara, che da troppo tempo insanguinano le strade di questa splendida Città, offendono la dignità umana; come la offendono anche le condizioni subumane di vita, le discriminazioni nei diritti fondamentali, le disuguaglianze economiche e sociali: fenomeni che sono contrari alla giustizia, alla equità, alla pace sociale ed inquinano i rapporti umani impedendo il raggiungimento del bene comune, cioè dell’insieme di quelle condizioni di vita sociale, che permettono ai singoli ed ai gruppi di raggiungere più pienamente e più speditamente la propria maturazione e perfezione.

Non dubito che voi tutti, fratelli e sorelle, guardando al vostro glorioso passato, sappiate impegnarvi nel costruire il presente, forti soprattutto della vostra grande tradizione cristiana, per preparare il vostro futuro. È l’augurio che di cuore formulo.

 Diletta Palermo, approdo aperto, approdo sicuro, vivi in serenità e pace!

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Giovanni Paolo II, acclamato “Rabbino capo”dagli ebrei di Israele

Ci sono "luoghi" nella rete dove si incontrano cristiani di ogni specie: cattolici, evangelici, mormoni ecc... Ci sono molti esempi di concordia e rispetto e ci sono altri esempi di incredibile intolleranza e mancanza di rispetto. Eppure, c'è stato un uomo che ha saputo davvero riunire tutte le religioni monoteiste: Karol Wojtyla. Quest'uomo, ormai prossimo alla Beatificazione, è stato capace davvero di fare passi da gigante verso l'integrazione, le relazioni stabili e verso una vera pace e concordia. Abbiamo visto come al suo funerale vi erano rappresentanti delle più diverse religioni  e questo è stato il segno finale dell'opera compiuta in vita da Papa polacco. Egli è un esempio per noi e per tutti: mentre tutti cercano di vedere le differenze, i motivi che dividono, Giovanni Paolo II ha visto ciò che ci unisce e cioè l'amore verso lo stesso Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e per questo è sempre stato amato e benvoluto. Oggi, abbiamo un nuovo frutto nato dalla sua opera e lo scopriamo grazie ad AsiaNews che ci parla di un'acclamazione particolare da parte degli ebrei...: 

Gerusalemme (AsiaNews) - Papa Giovanni Paolo II, che il Pontefice regnante, Benedetto XVI ha felicemente deciso di annoverare tra i Beati, ha gettato le fondamenta, ha aperto la strada per una profonda trasformazione dei rapporti Chiesa-Stato in Israele, lasciando anche qui alla Chiesa una preziosa eredità da far fruttificare.

L’11 dicembre 1992, in un discorso programmatico (seppur all’epoca poco notato), ad un convegno di giuristi riuniti presso la Pontificio Università Lateranense, Giovanni Paolo II svelò la sua visione per una Chiesa, anche nel Medio Oriente, non più “protetta” ma libera e attiva, con membri che godono, non dello statuto di una “minoranza” tollerata, ma dei pieni diritti umani e civili, in base di eguaglianza con tutti i loro concittadini. In quel momento era già pronto per la firma il primo esempio di questo nuovo ordine, l’Accordo fondamentale con Israele, che sarà solennemente firmato, per mandato del Sovrano Pontefice, il 30 dello stesso mese (il 15 febbraio 2000 sarà firmato l’analogo Accordo di base con i palestinesi). Così si voleva dire il definitivo “addio” a tredici secoli di emarginazione della Chiesa e dei cristiani, nella regione. Come suggerito dalla denominazione stessa di “fondamentale”, l’Accordo non è in sé compiuto, e richiede una serie di accordi integrativi, perché la grande promessa che esso rappresenta diventi pienamente realtà. Giovanni Paolo II poté ancora dare il mandato per la firma di un secondo Accordo, nel 1997, che garantisce il pieno riconoscimento civile alla personalità giuridica degli enti ecclesiastici, e poi benedire l’avviamento, nel 1999, dei negoziati (tuttora in corso) per un Accordo a tutela dei beni della Chiesa, specie i Luoghi Santi, e del suo statuto fiscale. In programma sarebbero accordi sugli altri temi adombrati da quello fondamentale, notevolmente sulla residenza del clero e dei religiosi provenienti da tutte le parti della Cattolicità; sull’assistenza religiosa ai carcerati, ai militari e ai degenti nei nosocomi; sulla corretta presentazione nelle scuole, di Cristo, del cristianesimo e della Chiesa.

Ma i trattati giuridici devono essere vivificati da un dialogo vero, non solo con lo Stato, ma con la società, onde il significato dell’enorme impatto sul pubblico israeliano della testimonianza di Giovanni Paolo II nel corso del Pellegrinaggio dell’Anno 2000. Così profondamente colpiti erano gli ebrei israeliani dalla sua Persona e dalle sue parole che, seppur non più che freddamente corretti alla vigilia, al momento della partenza del Papa, una grande maggioranza disse ai sondaggisti di volerlo Rabbino Capo della Nazione!

Onde far perseverare nel tempo quel benefico influsso, radicarlo nella coscienza del popolo, renderlo duraturo, nel 2003 il Papa volle nominare il primo Vescovo per i cattolici di espressione ebraica in Israele. Tale Vescovo (ora morto – si sarebbe in attesa di successore) avrebbe reso l’incontro della Chiesa con gli israeliani di espressione ebraica “interno”, avrebbe permesso alla Chiesa di rapportarsi ai componenti della società israeliana di espressione ebraica, non più come “estranea”, ma “dall’interno” della loro cultura, della loro esperienza, e nella propria lingua, come del resto è normale in ogni popolo e nazione.

Troppo poche e povere sono queste parole per descrivere l’eredità lasciata da Giovanni Paolo II alla Chiesa in Israele. Soprattutto il suo ricordo ci invita, ci sfida ad andare oltre, progredire, costruire ed osare ancora, sempre di nuovo, sempre di più. E per intercessione del Beato Giovanni Paolo II, tutto di Maria perché tutto di Cristo, possiamo sempre trovarci idealmente accanto alla Beata Vergine Maria di Nazaret mentre ascolta e crede all’assicurazione dell’angelo “Nulla è impossibile a Dio”.
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mercoledì 27 aprile 2011

Carità e Verità: Caritas in Veritate - XX

Continuiamo la lettura della nuova Enciclica di Papa Benedetto XVI "Caritas in veritate". Siamo ancora nel quarto capitolo del documento, interamente incentrato sulla dinamica dello sviluppo dei popoli, tenendo presenti i diritti e i doveri nonché il rispetto dell'ambiente che fungono da limite invalicabile oltre il quale non si dovrebbe mai andare.: 


48. Il tema dello sviluppo è oggi fortemente collegato anche ai doveri che nascono dal rapporto dell'uomo con l'ambiente naturale. Questo è stato donato da Dio a tutti, e il suo uso rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l'umanità intera. Se la natura, e per primo l'essere umano, vengono considerati come frutto del caso o del determinismo evolutivo, la consapevolezza della responsabilità si attenua nelle coscienze. Nella natura il credente riconosce il meraviglioso risultato dell'intervento creativo di Dio, che l'uomo può responsabilmente utilizzare per soddisfare i suoi legittimi bisogni — materiali e immateriali — nel rispetto degli intrinseci equilibri del creato stesso. Se tale visione viene meno, l'uomo finisce o per considerare la natura un tabù intoccabile o, al contrario, per abusarne. Ambedue questi atteggiamenti non sono conformi alla visione cristiana della natura, frutto della creazione di Dio.

La natura è espressione di un disegno di amore e di verità. Essa ci precede e ci è donata da Dio come ambiente di vita. Ci parla del Creatore (cfr Rm 1, 20) e del suo amore per l'umanità. È destinata ad essere « ricapitolata » in Cristo alla fine dei tempi (cfr Ef 1, 9-10; Col 1, 19-20). Anch'essa, quindi, è una « vocazione » [115]. La natura è a nostra disposizione non come « un mucchio di rifiuti sparsi a caso » [116], bensì come un dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l'uomo ne tragga gli orientamenti doverosi per “custodirla e coltivarla” (Gn 2,15). Ma bisogna anche sottolineare che è contrario al vero sviluppo considerare la natura più importante della stessa persona umana. Questa posizione induce ad atteggiamenti neopagani o di nuovo panteismo: dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, non può derivare la salvezza per l'uomo. Peraltro, bisogna anche rifiutare la posizione contraria, che mira alla sua completa tecnicizzazione, perché l'ambiente naturale non è solo materia di cui disporre a nostro piacimento, ma opera mirabile del Creatore, recante in sé una “grammatica” che indica finalità e criteri per un utilizzo sapiente, non strumentale e arbitrario. Oggi molti danni allo sviluppo provengono proprio da queste concezioni distorte. Ridurre completamente la natura ad un insieme di semplici dati di fatto finisce per essere fonte di violenza nei confronti dell'ambiente e addirittura per motivare azioni irrispettose verso la stessa natura dell'uomo. Questa, in quanto costituita non solo di materia ma anche di spirito e, come tale, essendo ricca di significati e di fini trascendenti da raggiungere, ha un carattere normativo anche per la cultura. L'uomo interpreta e modella l'ambiente naturale mediante la cultura, la quale a sua volta viene orientata mediante la libertà responsabile, attenta ai dettami della legge morale. I progetti per uno sviluppo umano integrale non possono pertanto ignorare le generazioni successive, ma devono essere improntati a solidarietà e a giustizia intergenerazionali, tenendo conto di molteplici ambiti: l'ecologico, il giuridico, l'economico, il politico, il culturale [117].

49. Le questioni legate alla cura e alla salvaguardia dell'ambiente devono oggi tenere in debita considerazione le problematiche energetiche. L'accaparramento delle risorse energetiche non rinnovabili da parte di alcuni Stati, gruppi di potere e imprese costituisce, infatti, un grave impedimento per lo sviluppo dei Paesi poveri. Questi non hanno i mezzi economici né per accedere alle esistenti fonti energetiche non rinnovabili né per finanziare la ricerca di fonti nuove e alternative. L'incetta delle risorse naturali, che in molti casi si trovano proprio nei Paesi poveri, genera sfruttamento e frequenti conflitti tra le Nazioni e al loro interno. Tali conflitti si combattono spesso proprio sul suolo di quei Paesi, con pesanti bilanci in termini di morte, distruzione e ulteriore degrado. La comunità internazionale ha il compito imprescindibile di trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, con la partecipazione anche dei Paesi poveri, in modo da pianificare insieme il futuro.

Anche su questo fronte vi è l'urgente necessità morale di una rinnovata solidarietà, specialmente nei rapporti tra i Paesi in via di sviluppo e i Paesi altamente industrializzati [118]. Le società tecnologicamente avanzate possono e devono diminuire il proprio fabbisogno energetico sia perché le attività manifatturiere evolvono, sia perché tra i loro cittadini si diffonde una sensibilità ecologica maggiore. Si deve inoltre aggiungere che oggi è realizzabile un miglioramento dell'efficienza energetica ed è al tempo stesso possibile far avanzare la ricerca di energie alternative. È però anche necessaria una ridistribuzione planetaria delle risorse energetiche, in modo che anche i Paesi che ne sono privi possano accedervi. Il loro destino non può essere lasciato nelle mani del primo arrivato o alla logica del più forte. Si tratta di problemi rilevanti che, per essere affrontati in modo adeguato, richiedono da parte di tutti la responsabile presa di coscienza delle conseguenze che si riverseranno sulle nuove generazioni, soprattutto sui moltissimi giovani presenti nei popoli poveri, i quali « reclamano la parte attiva che loro spetta nella costruzione d'un mondo migliore » [119].

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Papa Benedetto XVI risponde ... "A Sua Immagine"

Lo scorso Venerdì Santo, la trasmissione "A Sua Immagine" ha mandato in onda le risposte di Papa Benedetto XVI a sette domande, poste da fedeli di ogni parte del mondo. E' stato un appuntamento bellissimo, avvenuto per la prima volta nella storia della televisione, dove il Papa ha dimostrato tutte le sue doti di oratore, rispondendo non in modo scontato, ma molto profondo e veritiero. L'Osservatorio della Vigna vuole proporvi il testo integrale delle domande e delle risposte in modo da consentire, a chi non avesse potuto o non aveva saputo, di leggere le risposte del nostro Papa alle domande più sentite tra noi fedeli:

D. Santo Padre, voglio dirLe grazie per questa Sua presenza che ci riempie di gioia e ci aiuta a ricordare che oggi è il giorno in cui Gesù dimostra nel modo più radicale il Suo amore, cioè morendo in Croce da innocente. E proprio sul tema del dolore innocente è la prima domanda che arriva da una bambina giapponese di sette anni, che Le dice: “Mi chiamo Elena, sono giapponese ed ho sette anni. Ho tanta paura perché la casa in cui mi sentivo sicura ha tremato, tanto tanto, e molti miei coetanei sono morti. Non posso andare a giocare nel parco. Chiedo: perché devo avere tanta paura? Perché i bambini devono avere tanta tristezza? Chiedo al Papa, che parla con Dio, di spiegarmelo”.

R. Cara Elena, ti saluto di cuore. Anche a me vengono le stesse domande: perché è così? Perché voi dovete soffrire tanto, mentre altri vivono in comodità? E non abbiamo le risposte, ma sappiamo che Gesù ha sofferto come voi, innocente, che il Dio vero che si mostra in Gesù, sta dalla vostra parte. Questo mi sembra molto importante, anche se non abbiamo risposte, se rimane la tristezza: Dio sta dalla vostra parte, e siate sicuri che questo vi aiuterà. E un giorno potremo anche capire perché era così. In questo momento mi sembra importante che sappiate: “Dio mi ama”, anche se sembra che non mi conosca. No, mi ama, sta dalla mia parte, e dovete essere sicuri che nel mondo, nell’universo, tanti sono con voi, pensano a voi, fanno per quanto possono qualcosa per voi, per aiutarvi. Ed essere consapevoli che, un giorno, io capirò che questa sofferenza non era vuota, non era invano, ma che dietro di essa c’è un progetto buono, un progetto di amore. Non è un caso. Stai sicura, noi siamo con te, con tutti i bambini giapponesi che soffrono, vogliamo aiutarvi con la preghiera, con i nostri atti e siate sicuri che Dio vi aiuta. E in questo senso preghiamo insieme perché per voi venga luce quanto prima.

D. La seconda domanda ci presenta un calvario, perché abbiamo una mamma sotto la croce di un figlio. E’ italiana, si chiama Maria Teresa questa mamma, e Le dice: “Santità, l’anima di questo mio figlio Francesco, in stato vegetativo dal giorno di Pasqua 2009, ha abbandonato il suo corpo, visto che lui non è più cosciente, o è ancora vicino a lui?”

R. Certamente l’anima è ancora presente nel corpo. La situazione, forse, è come quella di una chitarra le cui corde sono spezzate, così non si possono suonare. Così anche lo strumento del corpo è fragile, è vulnerabile, e l’anima non può suonare, per così dire, ma rimane presente. Io sono anche sicuro che quest’anima nascosta sente in profondità il vostro amore, anche se non capisce i dettagli, le parole, eccetera, ma la presenza di un amore la sente. E perciò questa vostra presenza, cari genitori, cara mamma, accanto a lui, ore ed ore ogni giorno, è un atto vero di amore di grande valore, perché questa presenza entra nella profondità di quest’anima nascosta e il vostro atto è, quindi, anche una testimonianza di fede in Dio, di fede nell’uomo, di fede, diciamo di impegno per la vita, di rispetto per la vita umana, anche nelle situazioni più tristi. Quindi vi incoraggio a continuare, a sapere che fate un grande servizio all’umanità con questo segno di fiducia, con questo segno di rispetto della vita, con questo amore per un corpo lacerato, un’anima sofferente.

D. La terza domanda ci porta in Iraq, tra i giovani di Baghdad, cristiani perseguitati che Le mandano questa domanda: “Salute al Santo Padre dall’Iraq – dicono – Noi cristiani di Baghdad siamo stati perseguitati come Gesù. Santo Padre, secondo Lei, in che modo possiamo aiutare la nostra comunità cristiana a riconsiderare il desiderio di emigrare in altri Paesi, convincendola che partire non è l’unica soluzione?”

R. Vorrei innanzitutto salutare di cuore tutti i cristiani dell’Iraq, nostri fratelli, e devo dire che prego ogni giorno per i cristiani in Iraq. Sono i nostri fratelli sofferenti, come anche in altre terre del mondo, e quindi sono particolarmente vicini al nostro cuore e noi dobbiamo fare, per quanto possiamo, il possibile perché possano rimanere, perché possano resistere alla tentazione di migrare, perché è molto comprensibile nelle condizioni nelle quali vivono. Io direi che è importante che noi siamo vicini a voi, cari fratelli in Iraq, che noi vogliamo aiutarvi, anche quando venite, ricevervi realmente come fratelli. E naturalmente, le istituzioni, tutti coloro che hanno realmente una possibilità di fare qualcosa in Iraq per voi, devono farlo. La Santa Sede è in permanente contatto con le diverse comunità, non solo con le comunità cattoliche, con le altre comunità cristiane, ma anche con i fratelli musulmani, sia sciiti, sia sunniti. E vogliamo fare un lavoro di riconciliazione, di comprensione, anche con il governo, aiutarlo in questo cammino difficile di ricomporre una società lacerata. Perché questo è il problema, che la società è profondamente divisa, lacerata, che non c’è più questa consapevolezza: “Noi siamo nelle diversità un popolo con una storia comune, dove ognuno ha il suo posto”. E devono ricostruire questa consapevolezza che, nella diversità, hanno una storia in comune, una comune determinazione. E noi vogliamo, in dialogo, proprio con i diversi gruppi, aiutare il processo di ricostruzione e incoraggiare voi, cari fratelli cristiani in Iraq, di avere fiducia, di avere pazienza, di avere fiducia in Dio, di collaborare in questo processo difficile. Siate sicuri della nostra preghiera.

D. La prossima domanda Le viene rivolta da una donna musulmana della Costa d’Avorio, un Paese in guerra da anni. Questa signora, si chiama Bintù, e Le manda un saluto in arabo che suona così: “Che Dio sia in mezzo a tutte le parole che ci diremo e che Dio sia con te”. È un’espressione che loro usano quando cominciano un discorso. E poi continua in francese: “Caro Santo Padre, qui in Costa d’Avorio abbiamo sempre vissuto in armonia tra cristiani e musulmani. Le famiglie sono spesso formate da membri di entrambe le religioni; esiste anche una diversità di etnie, ma non abbiamo mai avuto problemi. Ora tutto è cambiato: la crisi che viviamo, causata dalla politica, sta seminando divisioni. Quanti innocenti hanno perso la vita! Quanti sfollati, quante mamme e quanti bambini traumatizzati! I messaggeri hanno esortato alla pace, i profeti hanno esortato alla pace. Gesù è un uomo di pace. Lei, in quanto ambasciatore di Gesù, cosa consiglierebbe per il nostro Paese?"

R. Vorrei rispondere al saluto: Dio sia anche con te, ti aiuti sempre. E devo dire che ho ricevuto lettere laceranti dalla Costa d'Avorio, dove vedo tutta la tristezza, la profondità della sofferenza, e rimango triste che possiamo fare così poco. Possiamo fare una cosa, sempre: essere in preghiera con voi, e in quanto sono possibili, faremo opere di carità e soprattutto vogliamo aiutare, secondo le nostre possibilità, i contatti politici, umani. Ho incaricato il card. Turkson, che è presidente del nostro Consiglio Giustizia e Pace di andare in Costa d’Avorio e di cercare di mediare, di parlare con i diversi gruppi, con le diverse persone per incoraggiare un nuovo inizio. E soprattutto vogliamo far sentire la voce di Gesù, che anche Lei crede come profeta. Lui era sempre l’uomo della pace. Ci si poteva aspettare che, quando Dio viene in terra, sarà un uomo di grande forza, distruggerebbe le potenze avverse, che sarebbe un uomo di una violenza forte come strumento di pace. Niente di questo: è venuto debole, è venuto solo con la forza dell’amore, totalmente senza violenza fino ad andare alla croce. E questo ci mostra il vero volto di Dio, che la violenza non viene mai da Dio, mai aiuta a dare le cose buone, ma è un mezzo distruttivo e non è il cammino per uscire dalle difficoltà. Quindi è una forte voce contro ogni tipo di violenza. E invito fortemente tutte le parti a rinunciare alla violenza, a cercare le vie della pace. Non potete servire la ricomposizione del vostro popolo con mezzi di violenza, anche se pensate di avere ragione. L’unica via è rinunciare alla violenza, ricominciare con il dialogo, con tentativi di trovare insieme la pace, con la nuova attenzione l’uno per l’altro, con la nuova disponibilità ad aprirsi l’uno all’altro. E questo, cara Signora, è il vero messaggio di Gesù: cercate la pace con i mezzi della pace e lasciate la violenza. Noi preghiamo per voi, che tutti i componenti della vostra società sentano questa voce di Gesù e che così ritorni la pace e la comunione.

D. Santo Padre, la prossima domanda è sul tema della morte e della Risurrezione di Gesù, e arriva dall’Italia. Gliela leggo: “Santità, che cosa fa Gesù nel lasso di tempo tra la morte e la Risurrezione? E visto che nella recita del Credo si dice che Gesù, dopo la morte, discese negli Inferi, possiamo pensare che sarà una cosa che accadrà anche a noi, dopo la morte, prima di salire al Cielo?”

R. Innanzitutto, questa discesa dell’anima di Gesù non si deve immaginare come un viaggio geografico, locale, da un continente all’altro. È un viaggio dell’anima. Dobbiamo tener presente che l’anima di Gesù tocca sempre il Padre, è sempre in contatto con il Padre, ma nello stesso tempo quest’anima umana si estende fino agli ultimi confini dell’essere umano. In questo senso va in profondità, va ai perduti, va a tutti quanti non sono arrivati alla meta della loro vita, e trascende così i continenti del passato. Questa parola della discesa del Signore agli Inferi vuol soprattutto dire che anche il passato è raggiunto da Gesù, che l’efficacia della Redenzione non comincia nell’anno zero o trenta, ma va anche al passato, abbraccia il passato, tutti gli uomini di tutti i tempi. I Padri dicono, con un’immagine molto bella, che Gesù prende per mano Adamo ed Eva, cioè l’umanità, e la guida avanti, la guida in alto. E crea così l’accesso a Dio, perché l’uomo, di per sé, non può arrivare fino all’altezza di Dio. Lui stesso, essendo uomo, prendendo in mano l’uomo, apre l’accesso, apre cosa? La realtà che noi chiamiamo Cielo. Quindi questa discesa agli Inferi, cioè nelle profondità dell’essere umano, nelle profondità del passato dell’umanità, è una parte essenziale della missione di Gesù, della sua missione di Redentore e non si applica a noi. La nostra vita è diversa, noi siamo già redenti dal Signore e noi arriviamo davanti al volto del Giudice, dopo la nostra morte, sotto lo sguardo di Gesù, e questo sguardo da una parte sarà purificante: penso che tutti noi, in maggiore o minore misura, avremo bisogno di purificazione. Lo sguardo di Gesù ci purifica e poi ci rende capaci di vivere con Dio, di vivere con i Santi, di vivere soprattutto in comunione con i nostri cari che ci hanno preceduto.

D. Anche la prossima domanda è sul tema della Risurrezione e arriva dall’Italia: “Santità, quando le donne giungono al sepolcro, la domenica dopo la morte di Gesù, non riconoscono il Maestro, lo confondono con un altro. Succede anche agli Apostoli: Gesù deve mostrare le ferite, spezzare il pane per essere riconosciuto, appunto, dai gesti. È un corpo vero, di carne, ma anche un corpo glorioso. Il fatto che il suo corpo risorto non abbia le stesse fattezze di quello di prima, che cosa vuol dire? Cosa significa, esattamente, corpo glorioso? E la Risurrezione sarà per noi così?”

R. Naturalmente, non possiamo definire il corpo glorioso perché sta oltre le nostre esperienze. Possiamo solo registrare i segni che Gesù ci ha dato per capire almeno un po’ in quale direzione dobbiamo cercare questa realtà. Primo segno: la tomba è vuota. Cioè, Gesù non ha lasciato il suo corpo alla corruzione, ci ha mostrato che anche la materia è destinata all’eternità, che realmente è risorto, che non rimane una cosa perduta. Gesù ha preso anche la materia con sé, e così la materia ha anche la promessa dell’eternità. Ma poi ha assunto questa materia in una nuova condizione di vita, questo è il secondo punto: Gesù non muore più, cioè sta sopra le leggi della biologia, della fisica, perché sottomesso a queste uno muore. Quindi c’è una condizione nuova, diversa, che noi non conosciamo, ma che si mostra nel fatto di Gesù, ed è la grande promessa per noi tutti che c’è un mondo nuovo, una vita nuova, verso la quale noi siamo in cammino. E, essendo in queste condizioni, Gesù ha la possibilità di farsi palpare, di dare la mano ai suoi, di mangiare con i suoi, ma tuttavia sta sopra le condizioni della vita biologica, come noi la viviamo. E sappiamo che, da una parte, è un vero uomo, non un fantasma, che vive una vera vita, ma una vita nuova che non è più sottomessa alla morte e che è la nostra grande promessa. È importante capire questo, almeno in quanto si può, per l’Eucaristia: nell’Eucaristia, il Signore ci dona il suo corpo glorioso, non ci dona carne da mangiare nel senso della biologia, ci dà se stesso, questa novità che Lui è, entra nel nostro essere uomini, nel nostro, nel mio essere persona, come persona, e ci tocca interiormente con il suo essere, così che possiamo lasciarci penetrare dalla sua presenza, trasformare nella sua presenza. E’ un punto importante, perché così siamo già in contatto con questa nuova vita, questo nuovo tipo di vita, essendo Lui entrato in me, e io sono uscito da me e mi estendo verso una nuova dimensione di vita. Io penso che questo aspetto della promessa, della realtà che Lui si dà a me e mi tira fuori da me, in alto, è il punto più importante: non si tratta di registrare cose che non possiamo capire, ma di essere in cammino verso la novità che comincia, sempre, di nuovo, nell’Eucaristia.

D. Santo Padre, l’ultima domanda è su Maria. Sotto la croce, assistiamo ad un dialogo toccante tra Gesù, sua madre e Giovanni, nel quale Gesù dice a Maria: “Ecco tuo Figlio”, e a Giovanni: “Ecco tua madre”. Nel suo ultimo libro, “Gesù di Nazaret”, Lei lo definisce “un’ultima disposizione di Gesù”. Come dobbiamo intendere queste parole? Che significato avevano in quel momento e che significato hanno oggi? E in tema di affidamento, ha in cuore di rinnovare una consacrazione alla Vergine all’inizio di questo nuovo millennio?

R. Queste parole di Gesù sono soprattutto un atto molto umano. Vediamo Gesù come vero uomo che fa un atto di uomo, un atto di amore per la madre e affida la madre al giovane Giovanni perché sia sicura. Una donna sola, in Oriente, in quel tempo, era in una situazione impossibile. Affida la mamma a questo giovane e al giovane dà la mamma, quindi Gesù realmente agisce da uomo con un sentimento profondamente umano. Questo mi sembra molto bello, molto importante, che prima di ogni teologia vediamo in questo la vera umanità, il vero umanesimo di Gesù. Ma naturalmente questo attua diverse dimensioni, non riguarda solo questo momento, ma concerne tutta la storia. In Giovanni Gesù affida tutti noi, tutta la Chiesa, tutti i discepoli futuri, alla madre e la madre a noi. E questo si è realizzato nel corso della storia: sempre più l’umanità e i cristiani hanno capito che la madre di Gesù è la loro madre. E sempre più si sono affidati alla Madre: pensiamo ai grandi santuari, pensiamo a questa devozione per Maria dove sempre più la gente sente “Questa è la Madre”. E anche alcuni che quasi hanno difficoltà di accesso a Gesù nella sua grandezza di Figlio di Dio, si affidano senza difficoltà alla Madre. Qualcuno dice: “Ma questo non ha fondamento biblico!”. Qui risponderei con San Gregorio Magno: “Con il leggere - egli dice - crescono le parole della Scrittura”. Cioè, si sviluppano nella realtà, crescono, e sempre più nella storia si sviluppa questa Parola. Vediamo come tutti possiamo essere grati perché la Madre c’è realmente, a noi tutti è data una madre. E possiamo con grande fiducia andare da questa Madre, che anche per ognuno dei cristiani è sua Madre. E d’altra parte vale anche che la Madre esprime pure la Chiesa. Non possiamo essere cristiani da soli, con un cristianesimo costruito secondo la mia idea. La Madre è immagine della Chiesa, della Madre Chiesa, e affidandoci a Maria dobbiamo anche affidarci alla Chiesa, vivere la Chiesa, essere la Chiesa con Maria. E così arrivo al punto dell’affidamento: i Papi – sia Pio XII, sia Paolo VI, sia Giovanni Paolo II – hanno fatto un grande atto di affidamento alla Madonna e mi sembra, come gesto davanti all’umanità, davanti a Maria stessa, era un gesto molto importante. Io penso che adesso sia importante di interiorizzare questo atto, di lasciarci penetrare, di realizzarlo in noi stessi. In questo senso, sono andato in alcuni grandi santuari mariani nel mondo: Lourdes, Fatima, Czestochowa, Altötting…, sempre con questo senso di concretizzare, di interiorizzare questo atto di affidamento, perché diventi realmente il nostro atto. Penso che l’atto grande, pubblico, sia stato fatto. Forse un giorno sarà necessario ripeterlo, ma al momento mi sembra più importante viverlo, realizzarlo, entrare in questo affidamento, perché sia realmente nostro. Per esempio, a Fatima ho visto come le migliaia di persone presenti sono realmente entrate in questo affidamento, si sono affidate, hanno concretizzato in se stesse, per se stesse, questo affidamento. Così esso diventa realtà nella Chiesa vivente e così cresce anche la Chiesa. L’affidamento comune a Maria, il lasciarsi tutti penetrare da questa presenza e formare, entrare in comunione con Maria, ci rende Chiesa, ci rende, insieme con Maria, realmente questa sposa di Cristo. Quindi, al momento non avrei l’intenzione di un nuovo pubblico affidamento, ma tanto più vorrei invitare ad entrare in questo affidamento già fatto, perché sia realtà vissuta da noi ogni giorno e cresca così una Chiesa realmente mariana, che è Madre e Sposa e Figlia di Gesù.

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martedì 26 aprile 2011

Cento anni dopo - Centesimus Annus - IV parte

Torna l'appuntamento con l'Enciclica del Venerabile Giovanni Paolo II, intitolata "Centesimus Annus" e promulgata nel centenario della Rerum Novarum. Oggi continuiamo a veder richiamati i tratti caratteristici dell'Enciclica di Leone XIII ed in particolare il Venerabile Giovanni Paolo II fa riferimento alla concezione dei rapporti tra lo Stato e i cittadini. In sostanza il pensiero è rivolto a come e quando lo Stato deve intervenire nella vita dei cittadini e il riferimento al principio di solidarietà su cui si devono imprimere le relazioni non solo nell'ordine nazionale, ma anche in quello internazionale. Lo Stato deve quindi intervenire laddove c'è un reale bisogno del suo intervento a causa di una debolezza intrinseca, come nel caso della classe operaia che, soprattutto oggi, si ritrova a vivere una condizione di debolezza contrattuale che sta mettendo a repentaglio anche i diritti più basilari (e questo ci fa capire l'incredibile lungimiranza di Leone XIII in quanto la Rerum Novarum continua ad avere una forte attualità):

10. Un'altra importante nota, ricca di insegnamenti per i nostri giorni, è la concezione dei rapporti tra lo Stato ed i cittadini. La Rerum novarum critica i due sistemi sociali ed economici: il socialismo e il liberalismo. Al primo è dedicata la parte iniziale, nella quale si riafferma il diritto alla proprietà privata; al secondo non è dedicata una speciale sezione, ma — cosa meritevole di attenzione — si riservano le critiche, quando si affronta il tema dei doveri dello Stato.32 Questo non puo’ limitarsi a «provvedere ad una parte dei cittadini», cioè a quella ricca e prospera, e non puo’ «trascurare l'altra», che rappresenta indubbiamente la grande maggioranza del corpo sociale; altrimenti si offende la giustizia, che vuole si renda a ciascuno il suo. «Tuttavia, nel tutelare questi diritti dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. La classe dei ricchi, forte per se stessa, ha meno bisogno della pubblica difesa; la classe proletaria, mancando di un proprio sostegno, ha speciale necessità di cercarla nella protezione dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e bisognosi, lo Stato deve rivolgere di preferenza le sue cure e provvidenze».33

Questi passi oggi hanno valore soprattutto di fronte alle nuove forme di povertà esistenti nel mondo, anche perché sono affermazioni che non dipendono da una determinata concezione dello Stato né da una particolare teoria politica. Il Papa ribadisce un elementare principio di ogni sana organizzazione politica, cioè che gli individui, quanto più sono indifesi in una società, tanto più necessitano dell'interessamento e della cura degli altri e, in particolare, dell'intervento dell'autorità pubblica.

In tal modo il principio, che oggi chiamiamo di solidarietà, e la cui validità, sia nell'ordine interno a ciascuna Nazione, sia nell'ordine internazionale, ho richiamato nella Sollicitudo rei socialis,34 si dimostra come uno dei principi basilari della concezione cristiana dell'organizzazione sociale e politica. Esso è più volte enunciato da Leone XIII col nome di «amicizia», che troviamo già nella filosofia greca; da Pio XI è designato col nome non meno significativo di «carità sociale», mentre Paolo VI, ampliando il concetto secondo le moderne e molteplici dimensioni della questione sociale, parlava di «civiltà dell'amore».35

11. La rilettura dell'Enciclica alla luce delle realtà contemporanee permette di apprezzare la costante preoccupazione e dedizione della Chiesa verso quelle categorie di persone, che sono oggetto di predilezione da parte del Signore Gesù. Il contenuto del testo è un'eccellente testimonianza della continuità, nella Chiesa, della cosiddetta «opzione preferenziale per i poveri», opzione che ho definito come una «forma speciale di primato nell'esercizio della carità cristiana».36 L'Enciclica sulla «questione operaia», dunque, è un'Enciclica sui poveri e sulla terribile condizione, alla quale il nuovo e non di raro violento processo di industrializzazione aveva ridotto grandi moltitudini. Anche oggi, in gran parte del mondo, simili processi di trasformazione economica, sociale e politica producono i medesimi mali.

Se Leone XIII si appella allo Stato per rimediare secondo giustizia alla condizione dei poveri, lo fa anche perché riconosce opportunamente che lo Stato ha il compito di sovraintendere al bene comune e di curare che ogni settore della vita sociale, non escluso quello economico, contribuisca a promuoverlo, pur nel rispetto della giusta autonomia di ciascuno di essi. Ciò, però, non deve far pensare che per Papa Leone ogni soluzione della questione sociale debba venire dallo Stato. Al contrario, egli insiste più volte sui necessari limiti dell'intervento dello Stato e sul suo carattere strumentale, giacché l'individuo, la famiglia e la società gli sono anteriori ed esso esiste per tutelare i diritti dell'uno e delle altre, e non già per soffocarli.37

A nessuno sfugge l'attualità di queste riflessioni. Sull'importante tema delle limitazioni inerenti alla natura dello Stato converrà tornare più avanti; intanto, i punti sottolineati, non certo gli unici dell'Enciclica, si pongono in continuità nel Magistero sociale della Chiesa, anche alla luce di una sana concezione della proprietà privata, del lavoro, del processo economico, della realtà dello Stato e, prima di tutto, dell'uomo stesso. Altri temi saranno menzionati in seguito nell'esaminare taluni aspetti della realtà contemporanea; ma occorre tener presente fin d'ora che ciò che fa da trama e, in certo modo, da guida all'Enciclica ed a tutta la dottrina sociale della Chiesa, è la corretta concezione della persona umana e del suo valore unico, in quanto «l'uomo ... in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa».38 In lui ha scolpito la sua immagine e somiglianza (cf Gn 1,26), conferendogli una dignità incomparabile, sulla quale più volte insiste l'Enciclica. In effetti, al di là dei diritti che l'uomo acquista col proprio lavoro, esistono diritti che non sono il corrispettivo di nessuna opera da lui prestata, ma che derivano dall'essenziale sua dignità di persona.

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Uno spettacolo per interpretare la visione di Chiara Luce Badano

C'è stata una ragazza dei nostri tempi che non ha avuto bisogno di libri né di paroloni né di segni particolari per rendere testimonianza all'amore e alla Luce di Dio. Questa ragazza, di soli 19 anni, ormai la conosciamo bene:  si chiama Chiara Badano, proclamata da poco beata. Abbiamo già conosciuto la sua storia, ma ogni volta rimaniamo stupefatti dalla semplicità con la quale è riuscita a trasmetterci Dio: ed è proprio questa semplicità il miglior modo per testimoniare Colui che per primo si è comportato in maniera semplice e umile e cioè Gesù. Egli, infatti, non è venuto in pompa magna: non ha voluto tappeti rossi, non ha voluto i Re intorno a Lui e non ha voluto nemmeno uno squillo di tromba. Egli è venuto in silenzio, quasi come se avesse paura di disturbare: ed in questo silenzio, rotto dai prodigi compiuti con la mano di Dio, ha cambiato la storia del mondo e degli uomini. Chiara ha seguito le Sue orme perchè nel silenzio ha compiuto la vera opera di testimonianza, assolvendo al meglio il suo compito di evangelizzazione. Per questo noi, appena possiamo, la ricordiamo volentieri perchè è per noi un grande esempio di semplicità, umiltà e allo stesso tempo di forza ed incisione perchè il suo esempio ha portato numerosi frutti di conversione. Ed ad esser colpito da Chiara, vi è anche un agnostico di nome Franz Coriasco, il quale è stato narratore di uno spettacolo particolare che ha posto a confronto due visioni del mondo opposte, ma nemmeno poi così tanto...:

di f.z. © Il Risveglio Popolare

"Abbiamo solo una vita e vale la pena spenderla bene", è il testamento di una giovane ragazza divenuta Beata. "Abbiamo solo una vita e non la capiamo: chi siamo, dove andiamo, perché esiste il male?", sono i dubbi di un agnostico di mezza età che non sa trovare risposte convincenti.

Dal contrasto tra due visioni del mondo così diverse è emerso uno spettacolo fatto di parole, immagini e suoni, che sabato scorso ha riunito 800 spettatori al polifunzionale di Agliè.

Lo spettacolo s'intitola "Dai tetti in giù. Chiara Luce Badano raccontata dal basso". Il narratore era Franz Coriasco, giornalista, autore teatrale e radio-televisivo che, interpretando se stesso, agnostico tormentato dai dubbi, ha ripercorso la luminosa parabola di "Chiaretta", la focolarina morta a nemmeno 19 anni per un osteosarcoma, ora elevata all'onore degli altari.

La vicenda ha saputo toccare sia il cuore sia la mente dello spettatore. Fra sentimenti e riflessioni, un viaggio che partiva da dialoghi quasi irriverenti con Dio, espressi da Coriasco, per arrivare all'affidamento totale a Lui, incarnato da Chiara Badano. La quale si conformò alle virtù evangeliche nella vita quotidiana, diventando eccezionale nel momento della malattia, quando non solo evitò la disperazione, ma diventò fonte di consolazione e sollievo per chi le stava intorno.

La profondità dei pensieri della giovane Beata era espressa da ben quattro figure femminili: le attrici Alessandra Fallucchi e Vanina Marini si sono fatte interpreti della voce, la ballerina Chiara Romani, con passi ora lenti ora decisi, era immagine della tensione spirituale, mentre la bravissima cantautrice Grazia Cinquetti ha catturato, con alcuni brani molto riusciti, l'essenza della vita di Chiara Luce.

Lo spettacolo, già visto e pienamente approvato dai genitori di Chiara, è molto lontano dalla letteratura agiografica, e per questo ancora più convincente nel raccontare una storia straordinaria. Era presente in sala Chicca, la migliore amica di Chiara, nonché sorella minore di Franz Coriasco, e trait d'union tra due figure ai poli opposti, eppure unite dalla sete d'infinito, e da quelle domande che gli uomini continuano a porsi.

Le risposte, come insegna la vicenda di Chiara, a volte possono trovarsi nel vivere al meglio la vita ordinaria, a volte nell'affrontare con coraggio le difficoltà e perfino le tragedie, nel totale abbandono a Dio.
FONTE
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lunedì 25 aprile 2011

Discorso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Dopo la pausa riflessiva del Triduo Pasquale, lo spazio torna nuovamente attivo, per celebrare il 66° anniversario della Liberazione. Il modo migliore di festeggiare una simile ricorrenza è senza dubbio quello di lasciare la parola al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che si è soffermato anche sul tema attuale delle riforme:

"Il 25 aprile festa della Liberazione si colloca quest'anno nella scia delle celebrazioni del centocinquantenario dell'Unità d'Italia che hanno nel marzo scorso toccato il culmine in tutto il paese. Nel richiamare entrambi gli anniversari i punti di contatto appaiono evidenti. Nonostante la distanza e la diversità dei periodi e degli eventi storici, ritroviamo le forze migliori della nazione impegnate a perseguire gli stessi grandi obbiettivi ideali: libertà, indipendenza, unità".

Lo ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della celebrazione del 66° anniversario della Liberazione all'Altare della Patria, ricordando che "quei valori già affermatisi attraverso il moto risorgimentale e sanciti con la nascita dello Stato nazionale italiano, dovettero essere a caro prezzo recuperati fra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Fu necessario riconquistare con le nostre forze - cooperando con gli eserciti alleati, senza attenderne passivamente i decisivi successi - le libertà negate dal fascismo, l'indipendenza violata dall'occupazione e dal dominio nazista, l'unità di un'Italia divisa in due".

Il Capo dello Stato ha ricordato di essersi riferito "nel parlare - il 17 marzo scorso a Montecitorio - delle ardue prove superate nel corso della nostra storia di 150 anni" anche e in particolare "all'esperienza rigeneratrice della Resistenza come risposta a colpi durissimi e a rischi estremi vissuti dalla nazione. Dalla memoria e dalla viva consapevolezza di prove come quella possiamo trarre - voglio ripeterlo - la fiducia indispensabile per affrontare le sfide di oggi e del futuro. La complessità di queste sfide e delle incognite che vi si accompagnano, la difficoltà dei problemi che già ci si pongono e ci incalzano, richiedono un nuovo senso di responsabilità nazionale, una rinnovata capacità di coesione, nel libero confronto delle posizioni e delle idee, e insieme nella ricerca di ogni possibile terreno di convergenza. E' questa consapevolezza, è questa sollecitazione che abbiamo sentito esprimersi nelle celebrazioni del centocinquantenario lo scorso marzo".

"Certo, sono poi seguite settimane di aspra tensione nella vita istituzionale e nei rapporti politici, anche per l'avvicinarsi di normali scadenze elettorali. Ebbene, è nell'interesse comune - ha rilevato il Presidente Napolitano - che le esigenze della competizione in vista del voto non facciano prevalere una logica di acceso e cieco scontro; è nell'interesse comune che dal richiamo di oggi, 25 aprile, agli anni della Resistenza, della ricostruzione democratica e del rilancio economico, sociale e civile dell'Italia, dal richiamo a quelle grandi prove di impegno collettivo, venga lo stimolo a tener fermo quel che ci unisce e deve unirci come italiani. E parlo del lascito della Resistenza, dell'eredità di quell'Assemblea Costituente che sull'onda della Liberazione nacque insieme con la Repubblica".

"Si proceda - ha concluso il Presidente della Repubblica - alle riforme considerate mature e necessarie, come in questi anni ho sempre auspicato; lo si faccia con la serietà che è doverosa e senza mettere in forse punti di riferimento essenziali in cui tutti possono riconoscersi. Senza mettere in forse quei principi, e quella sintesi - così comprensiva e limpida - dei diritti di libertà, dei diritti e dei doveri civili, sociali e politici, che la Costituzione ha nella sua Prima Parte sancito. Rendiamo così omaggio a coloro che combatterono e caddero sognando un'Italia libera, prospera e solidale, non più fatalmente lacerata, capace di rinnovare e rafforzare le basi della sua unità".

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Lunedì dell'Angelo - Regina Caeli da Castel Gandolfo


BENEDETTO XVI

REGINA CÆLI

Lunedì dell'Angelo
Castel Gandolfo, 25 aprile 2011

 

Cari fratelli e sorelle!

Surrexit Dominus vere! Alleluja! La Risurrezione del Signore segna il rinnovamento della nostra condizione umana. Cristo ha sconfitto la morte, causata dal nostro peccato, e ci riporta alla vita immortale. Da tale evento promana l’intera vita della Chiesa e l’esistenza stessa dei cristiani. Lo leggiamo proprio oggi, Lunedì dell’Angelo, nel primo discorso missionario della Chiesa nascente: “Questo Gesù – proclama l’apostolo Pietro – Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire” (At 2,32-33). Uno dei segni caratteristici della fede nella Risurrezione è il saluto tra i cristiani nel tempo pasquale, ispirato dall’antico inno liturgico: “Cristo è risorto! / E’ veramente risorto!”. È una professione di fede e un impegno di vita, proprio come è accaduto alle donne descritte nel Vangelo di san Matteo: “Ed ecco, Gesù venne loro incontro e disse: «Salute a voi!». Ed esse si avvicinarono, gli abbracciarono i piedi e lo adorarono. Allora Gesù disse loro: «Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno” (28,9-10). “Tutta la Chiesa – scrive il Servo di Dio Paolo VI – riceve la missione di evangelizzare, e l’opera di ciascuno è importante per il tutto. Essa resta come un segno insieme opaco e luminoso di una nuova presenza di Gesù, della sua dipartita e della sua permanenza. Essa la prolunga e lo continua” (Es. Ap. Evangelii Nuntiandi, 8 dicembre 1975, 15: AAS 68 [1976], 14).

In che modo possiamo incontrare il Signore e diventare sempre più suoi autentici testimoni? San Massimo di Torino afferma: “Chiunque vuole raggiungere il Salvatore, per prima cosa lo deve porre con la propria fede alla destra della divinità e collocarlo con la persuasione del cuore nei cieli” (Sermo XXXIX a, 3: CCL 23, 157), deve cioè imparare a rivolgere costantemente lo sguardo della mente e del cuore verso l’altezza di Dio, dove è il Cristo risorto. Nella preghiera, nell’adorazione, dunque, Dio incontra l’uomo. Il teologo Romano Guardini osserva che “l’adorazione non è qualcosa di accessorio, secondario … si tratta dell’interesse ultimo, del senso e dell’essere. Nell’adorazione l’uomo riconosce ciò che vale in senso puro e semplice e santo” (La Pasqua, Meditazioni, Brescia 1995, 62). Solo se sappiamo rivolgerci a Dio, pregarLo, noi possiamo scoprire il significato più profondo della nostra vita, e il cammino quotidiano viene illuminato dalla luce del Risorto.

Cari amici, la Chiesa, in Oriente e in Occidente, oggi festeggia san Marco evangelista, sapiente annunciatore del Verbo e scrittore delle dottrine di Cristo – come in antico veniva definito. Egli è anche il Patrono della città di Venezia, dove, a Dio piacendo, mi recherò in visita pastorale il 7 e 8 maggio prossimo. Invochiamo ora la Vergine Maria, affinché ci aiuti a compiere fedelmente e nella gioia la missione che il Signore Risorto affida a ciascuno.

Dopo il Regina Caeli - Saluti in varie lingue

Chers frères et sœurs francophones, je suis heureux de vous saluer en ce lundi de Pâques. Que le Christ, vainqueur du mal et de la mort, soit la lumière de notre vie! Laissons-nous saisir par Lui pour transmettre au monde, à la suite des apôtres, la Bonne nouvelle du Salut. En partageant l’allégresse de la Vierge Marie et celle de toute la création, manifestons parmi nos frères la joie d’être aimés, pardonnés et sauvés. A tous, je souhaite de Saintes Fêtes de Pâques!

I am pleased to greet all the English-speaking visitors and pilgrims here present for today’s Regina Caeli prayers. With greater joy than ever, the Church celebrates these eight days in a special way, as she recalls the Lord Jesus’s resurrection from the dead. Let us pray fervently that the joy and peace of Our Lady, Mary of Magdala and the Apostles will be our own as we welcome the risen Lord into our hearts and lives. I invoke God’s abundant blessings upon you all!

„Der Herr ist wirklich auferstanden und ist dem Simon erschienen“ (Lk 24,34). Mit diesem österlichen Gruß heiße ich alle Brüder und Schwestern deutscher Sprache hier in Castelgandolfo willkommen. Das leere Grab ist keine Täuschung. Christus hat den Tod besiegt, er lebt und zeigt sich den Seinen als der Lebendige. Diese Freude des Ostermorgens erfülle auch uns und mache uns heute zu Zeugen der Auferstehung. Gesegneten Ostermontag!

Dirijo mi cordial saludo a los peregrinos de lengua española que participan en esta oración mariana. Que no deje de resonar en el mundo y en la Iglesia la alegre noticia de la resurrección de Jesucristo de entre los muertos. Que la paz, que nace del triunfo del Señor sobre el pecado, se extienda por toda la tierra, en particular por aquellas regiones que más la necesitan. Que la claridad victoriosa de su semblante ilumine vuestras vidas, vuestras familias y vuestras ciudades, y fortalezca también vuestros corazones con la esperanza de la salvación que Cristo nos ha ganado con su pasión gloriosa. Feliz Pascua a todos.

„Chrystus zmartwychwstał, jak zapowiedział, radujmy się wszyscy, ponieważ króluje na wieki”. Drodzy Polacy, niech ta radość trwa zawsze w sercach wierzących i niech będzie dla wszystkich ludzi znakiem Bożej miłości. Niech Pan wam błogosławi!

(Cristo è risorto, come aveva promesso, rallegriamoci tutti, perché regna in eterno”. Cari polacchi, questa gioia duri sempre nei cuori dei fedeli e sia per tutti gli uomini un segno dell’amore di Dio. Il Signore vi benedica).

Saluto infine i pellegrini di lingua italiana, con un ricordo particolare per le autorità e gli abitanti di Castel Gandolfo sempre così ospitali. Rivolgo uno speciale saluto ai rappresentanti dell’Associazione “Meter”, promotrice della Giornata nazionale per i bambini vittime della violenza, dello sfruttamento e dell’indifferenza, e li incoraggio a proseguire la loro opera di prevenzione e di sensibilizzazione delle coscienze al fianco delle varie agenzie educative: penso in particolare alle parrocchie, agli oratori e alle altre realtà ecclesiali che si dedicano con generosità alla formazione delle nuove generazioni. A tutti auguro di trascorrere serenamente questo Lunedì dell'Angelo, in cui risuona con forza l'annuncio gioioso della Pasqua. 

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domenica 24 aprile 2011

Papa Benedetto XVI: l'uomo non è un prodotto casuale dell'evoluzione

L'Osservatorio torna attivo e non poteva farlo in maniera migliore: pubblichiamo, infatti, il testo integrale dell'omelia di Papa Benedetto XVI, pronunciata in occasione della Veglia Pasquale nella Notte Santa!: 

VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE SANTA

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana
 Sabato Santo, 23 aprile 2011

Cari fratelli e sorelle!

Due grandi segni caratterizzano la celebrazione liturgica della Veglia Pasquale. C’è innanzitutto il fuoco che diventa luce. La luce del cero pasquale, che nella processione attraverso la chiesa avvolta nel buio della notte diventa un’onda di luci, ci parla di Cristo quale vera stella del mattino, che non tramonta in eterno – del Risorto nel quale la luce ha vinto le tenebre. Il secondo segno è l’acqua. Essa richiama, da una parte, le acque del Mar Rosso, lo sprofondamento e la morte, il mistero della Croce. Poi però ci si presenta come acqua sorgiva, come elemento che dà vita nella siccità. Diventa così l’immagine del Sacramento del Battesimo, che ci rende partecipi della morte e risurrezione di Gesù Cristo.

Della liturgia della Veglia Pasquale, tuttavia, fanno parte non soltanto i grandi segni della creazione, luce e acqua. Caratteristica del tutto essenziale della Veglia è anche il fatto che essa ci conduce ad un ampio incontro con la parola della Sacra Scrittura. Prima della riforma liturgica c’erano dodici letture veterotestamentarie e due neotestamentarie. Quelle del Nuovo Testamento sono rimaste. Il numero delle letture dell’Antico Testamento è stato fissato a sette, ma può, a seconda delle situazioni locali, essere ridotto anche a tre letture. La Chiesa vuole condurci, attraverso una grande visione panoramica, lungo la via della storia della salvezza, dalla creazione attraverso l’elezione e la liberazione di Israele fino alle testimonianze profetiche, con le quali tutta questa storia si dirige sempre più chiaramente verso Gesù Cristo. Nella tradizione liturgica tutte queste letture venivano chiamate profezie. Anche quando non sono direttamente preannunci di avvenimenti futuri, esse hanno un carattere profetico, ci mostrano l’intimo fondamento e l’orientamento della storia. Esse fanno in modo che la creazione e la storia diventino trasparenti all’essenziale. Così ci prendono per mano e ci conducono verso Cristo, ci mostrano la vera Luce.

Il cammino attraverso le vie della Sacra Scrittura comincia, nella Veglia Pasquale, con il racconto della creazione. Con ciò la liturgia vuole dirci che anche il racconto della creazione è una profezia. Non è un’informazione sullo svolgimento esteriore del divenire del cosmo e dell’uomo. I Padri della Chiesa ne erano ben consapevoli. Non intesero tale racconto come narrazione sullo svolgimento delle origini delle cose, bensì quale rimando all’essenziale, al vero principio e al fine del nostro essere. Ora, ci si può chiedere: ma è veramente importante nella Veglia Pasquale parlare anche della creazione? Non si potrebbe cominciare con gli avvenimenti in cui Dio chiama l’uomo, si forma un popolo e crea la sua storia con gli uomini sulla terra? La risposta deve essere: no. Omettere la creazione significherebbe fraintendere la stessa storia di Dio con gli uomini, sminuirla, non vedere più il suo vero ordine di grandezza. Il raggio della storia che Dio ha fondato giunge fino alle origini, fino alla creazione. La nostra professione di fede inizia con le parole: “Credo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra”. Se omettiamo questo primo articolo del Credo, l’intera storia della salvezza diventa troppo ristretta e troppo piccola. La Chiesa non è una qualsiasi associazione che si occupa dei bisogni religiosi degli uomini, ma che ha, appunto, lo scopo limitato di tale associazione. No, essa porta l’uomo in contatto con Dio e quindi con il principio di ogni cosa. Per questo Dio ci riguarda come Creatore, e per questo abbiamo una responsabilità per la creazione. La nostra responsabilità si estende fino alla creazione, perché essa proviene dal Creatore. Solo perché Dio ha creato il tutto, può darci vita e guidare la nostra vita. La vita nella fede della Chiesa non abbraccia soltanto un ambito di sensazioni e di sentimenti e forse di obblighi morali. Essa abbraccia l’uomo nella sua interezza, dalle sue origini e in prospettiva dell’eternità. Solo perché la creazione appartiene a Dio, noi possiamo far affidamento su di Lui fino in fondo. E solo perché Egli è Creatore, può darci la vita per l’eternità. La gioia per la creazione, la gratitudine per la creazione e la responsabilità per essa vanno una insieme all’altra.

Il messaggio centrale del racconto della creazione si lascia determinare ancora più precisamente. San Giovanni, nelle prime parole del suo Vangelo, ha riassunto il significato essenziale di tale racconto in quest’unica frase: “In principio era il Verbo”. In effetti, il racconto della creazione che abbiamo ascoltato prima è caratterizzato dalla frase che ricorre con regolarità: “Dio disse…”. Il mondo è un prodotto della Parola, del Logos, come si esprime Giovanni con un termine centrale della lingua greca. “Logos” significa “ragione”, “senso”, “parola”. Non è soltanto ragione, ma Ragione creatrice che parla e che comunica se stessa. È Ragione che è senso e che crea essa stessa senso. Il racconto della creazione ci dice, dunque, che il mondo è un prodotto della Ragione creatrice. E con ciò esso ci dice che all’origine di tutte le cose non stava ciò che è senza ragione, senza libertà, bensì il principio di tutte le cose è la Ragione creatrice, è l’amore, è la libertà. Qui ci troviamo di fronte all’alternativa ultima che è in gioco nella disputa tra fede ed incredulità: sono l’irrazionalità, l'assenza di libertà e il caso il principio di tutto, oppure sono ragione, libertà, amore il principio dell’essere? Il primato spetta all’irrazionalità o alla ragione? È questa la domanda di cui si tratta in ultima analisi. Come credenti rispondiamo con il racconto della creazione e con San Giovanni: all’origine sta la ragione. All’origine sta la libertà. Per questo è cosa buona essere una persona umana. Non è così che nell’universo in espansione, alla fine, in un piccolo angolo qualsiasi del cosmo si formò per caso anche una qualche specie di essere vivente, capace di ragionare e di tentare di trovare nella creazione una ragione o di portarla in essa. Se l’uomo fosse soltanto un tale prodotto casuale dell’evoluzione in qualche posto al margine dell’universo, allora la sua vita sarebbe priva di senso o addirittura un disturbo della natura. Invece no: la Ragione è all’inizio, la Ragione creatrice, divina. E siccome è Ragione, essa ha creato anche la libertà; e siccome della libertà si può fare uso indebito, esiste anche ciò che è avverso alla creazione. Per questo si estende, per così dire, una spessa linea oscura attraverso la struttura dell’universo e attraverso la natura dell’uomo. Ma nonostante questa contraddizione, la creazione come tale rimane buona, la vita rimane buona, perché all’origine sta la Ragione buona, l’amore creatore di Dio. Per questo il mondo può essere salvato. Per questo possiamo e dobbiamo metterci dalla parte della ragione, della libertà e dell’amore – dalla parte di Dio che ci ama così tanto che Egli ha sofferto per noi, affinché dalla sua morte potesse sorgere una vita nuova, definitiva, risanata.

Il racconto veterotestamentario della creazione, che abbiamo ascoltato, indica chiaramente quest’ordine delle realtà. Ma ci fa fare un passo ancora più avanti. Ha strutturato il processo della creazione nel quadro di una settimana che va verso il Sabato, trovando in esso il suo compimento. Per Israele, il Sabato era il giorno in cui tutti potevano partecipare al riposo di Dio, in cui uomo e animale, padrone e schiavo, grandi e piccoli erano uniti nella libertà di Dio. Così il Sabato era espressione dell’alleanza tra Dio e uomo e la creazione. In questo modo, la comunione tra Dio e uomo non appare come qualcosa di aggiunto, instaurato successivamente in un mondo la cui creazione era già terminata. L’alleanza, la comunione tra Dio e l’uomo, è predisposta nel più profondo della creazione. Sì, l’alleanza è la ragione intrinseca della creazione come la creazione è il presupposto esteriore dell’alleanza. Dio ha fatto il mondo, perché ci sia un luogo dove Egli possa comunicare il suo amore e dal quale la risposta d’amore ritorni a Lui. Davanti a Dio, il cuore dell’uomo che gli risponde è più grande e più importante dell’intero immenso cosmo materiale che, certamente, ci lascia intravedere qualcosa della grandezza di Dio.

A Pasqua e dall’esperienza pasquale dei cristiani, però, dobbiamo ora fare ancora un ulteriore passo. Il Sabato è il settimo giorno della settimana. Dopo sei giorni, in cui l’uomo partecipa, in un certo senso, al lavoro della creazione di Dio, il Sabato è il giorno del riposo. Ma nella Chiesa nascente è successo qualcosa di inaudito: al posto del Sabato, del settimo giorno, subentra il primo giorno. Come giorno dell’assemblea liturgica, esso è il giorno dell’incontro con Dio mediante Gesù Cristo, il quale nel primo giorno, la Domenica, ha incontrato i suoi come Risorto dopo che essi avevano trovato vuoto il sepolcro. La struttura della settimana è ora capovolta. Essa non è più diretta verso il settimo giorno, per partecipare in esso al riposo di Dio. Essa inizia con il primo giorno come giorno dell’incontro con il Risorto. Questo incontro avviene sempre nuovamente nella celebrazione dell’Eucaristia, in cui il Signore entra di nuovo in mezzo ai suoi e si dona a loro, si lascia, per così dire, toccare da loro, si mette a tavola con loro. Questo cambiamento è un fatto straordinario, se si considera che il Sabato, il settimo giorno come giorno dell’incontro con Dio, è profondamente radicato nell’Antico Testamento. Se teniamo presente quanto il corso dal lavoro verso il giorno del riposo corrisponda anche ad una logica naturale, la drammaticità di tale svolta diventa ancora più evidente. Questo processo rivoluzionario, che si è verificato subito all’inizio dello sviluppo della Chiesa, è spiegabile soltanto col fatto che in tale giorno era successo qualcosa di inaudito. Il primo giorno della settimana era il terzo giorno dopo la morte di Gesù. Era il giorno in cui Egli si era mostrato ai suoi come il Risorto. Questo incontro, infatti, aveva in sé qualcosa di sconvolgente. Il mondo era cambiato. Colui che era morto viveva di una vita, che non era più minacciata da alcuna morte. Si era inaugurata una nuova forma di vita, una nuova dimensione della creazione. Il primo giorno, secondo il racconto della Genesi, è il giorno in cui prende inizio la creazione. Ora esso era diventato in un modo nuovo il giorno della creazione, era diventato il giorno della nuova creazione. Noi celebriamo il primo giorno. Con ciò celebriamo Dio, il Creatore, e la sua creazione. Sì, credo in Dio, Creatore del cielo e della terra. E celebriamo il Dio che si è fatto uomo, ha patito, è morto ed è stato sepolto ed è risorto. Celebriamo la vittoria definitiva del Creatore e della sua creazione. Celebriamo questo giorno come origine e, al tempo stesso, come meta della nostra vita. Lo celebriamo perché ora, grazie al Risorto, vale in modo definitivo che la ragione è più forte dell’irrazionalità, la verità più forte della menzogna, l’amore più forte della morte. Celebriamo il primo giorno, perché sappiamo che la linea oscura che attraversa la creazione non rimane per sempre. Lo celebriamo, perché sappiamo che ora vale definitivamente ciò che è detto alla fine del racconto della creazione: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31). Amen

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