domenica 10 aprile 2011

Il punto della settimana - La prolusione del Cardinal Bagnasco

Eccoci nuovamente all'appuntamento domenicale di analisi della settimana. In realtà, questa settimana non ci ha offerto nulla di diverso rispetto alla settimana precedente per cui, le considerazioni di Domenica scorsa, restano valide anche per la settimana appena trascorsa. Per questo motivo, approfittiamo dell'appuntamento odierno e pubblichiamo il testo integrale della prolusione del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ai lavori del Consiglio permanente della Conferenza Episcopale Italiana (Roma, 28-31 marzo 2011). E' un testo abbastanza lungo, ma che rappresenta un'ottima analisi dell'attuale situazione socio-politica:

Venerati e Cari Confratelli,

in nomine Domini: abbiamo invocato il nome del Signore per identificare la giusta prospettiva dei lavori di questa sessione primaverile del Consiglio Permanente, avendo sullo sfondo eventi cari al nostro popolo, o che interessano popoli fratelli. La riflessione che qui avviamo vorrebbe attivare pensieri e accendere speranze più forti delle preoccupazioni che pure li attraversano. È tutta la comunità cristiana ad essere in qualche modo chiamata a ponderare le situazioni nelle quali si incarna l’annuncio del Vangelo e che ad un tempo interpellano la coscienza di noi Pastori.

Il nostro pensiero, e soprattutto la nostra preghiera, in queste settimane si sono insistentemente rivolti a Dio, in particolare per il popolo giapponese duramente colpito da un violento sisma e ancor più devastante tsunami. Nell’ora più grave, i giapponesi hanno dato al mondo una lezione formidabile di compostezza, determinazione e solidità. È quella che, con espressione efficace, è stata definita «la disciplina del dolore». Dolore che comunque siamo chiamati ad alleviare con i mezzi in nostro possesso. Quanto ancora ci è possibile fare, tramite la Caritas e in collegamento con la Conferenza episcopale locale, lo faremo; sicuri come siamo che ogni italiano avverte il Giappone vicinissimo oggi al proprio cuore. A fronte di un simile cataclisma, dovremmo riscoprire tutti il senso della nostra costitutiva finitezza, della intrinseca fragilità delle cose, e quindi sentirci più umili, più vicini, più solidali.

1. Questa convocazione è al centro del tempo quaresimale, per antonomasia tempo «forte» perché «propizio» alla conversione a cui apre (cfr Benedetto XVI, Omelia del Mercoledì delle Ceneri, 9 marzo 2011). Il Messaggio che per l’occasione il Santo Padre ha indirizzato alla comunità credente mette in evidenza «il nesso particolare» che lega il Battesimo alla Quaresima «come momento favorevole per sperimentare la Grazia che salva» (n. 1). «Il fatto che nella maggioranza dei casi – osserva il Papa – il Battesimo si riceva da bambini mette in evidenza che si tratta di un dono di Dio: nessuno merita la vita eterna con le proprie forze» (ib). Vitae spiritualis ianua - «vestibolo d’ingresso alla vita nello Spirito»-, dice del Battesimo il Catechismo della Chiesa Cattolica (1213), evento cioè in forza del quale avviene «l’incontro con Cristo che informa tutta l’esistenza del battezzato, gli dona la vita divina e lo chiama ad una conversione sincera […], che lo porti a raggiungere la statura adulta del Cristo» (Messaggio cit.). Di questo itinerario finalizzato alla Pasqua di Risurrezione, il Papa indica le tappe fondamentali, simboleggiate negli elementi battesimali intrinseci alla liturgia quaresimale e coincidenti con le narrazioni evangeliche delle singole domeniche secondo il Lezionario dell’Anno A. Tali letture riflettono al meglio il carattere originario di questo tempo, offrendo un percorso simile al catecumenato, come palestra di fede e di vita cristiana per compiere nuovi e decisivi passi nella sequela di Cristo e nel dono più pieno a Lui. Lo sbocco coincide con l’ingresso nel «mistero», cioè nella conoscenza progressiva del piano nascosto nei secoli in Dio e che Dio stesso intende svelare ai suoi amici (cfr 1Col 1, 24-26): l’uomo è creato per la risurrezione e la vita che non muore, e non lui soltanto, ma anche il creato e la storia nelle sue esplicazioni più autentiche. Non c’è spazio per rimpianti né per nostalgie. «In linea di massima si può dire – scrive un autore orientale del XIV secolo – che la grazia infonde nell’anima la percezione dei beni divini: dando a gustare grandi cose, ne fa sperare di ancora più grandi e, fondandosi sui beni già ora presenti, ispira ferma fede in quelli ancora invisibili» (Cabasilas, La vita in Cristo, 721°, Classici Utet, 1971). Le pratiche tipiche del tempo quaresimale − il digiuno, l’elemosina, la preghiera − sono prove volte alla purificazione, in vista di un oltre, il passaggio cioè del Mar Rosso verso la Terra promessa, dall’infanzia all’adultità cristiana, conquista vera e non effetto automatico di un regalo che resta esterno a noi stessi. Con Dio si gioca sempre nel campo della libertà, e nulla può essere dato per scontato. «Il Battesimo non produce automaticamente una vita coerente: questa è frutto della volontà e dell’impegno perseverante di collaborare con il dono, con la Grazia ricevuta. E questo impegno costa, c’è un prezzo da pagare di persona» (Benedetto XVI, Lectio Divina nella visita al Seminario Romano Maggiore, 4 marzo 2011). Strana dunque l’idea che la conversione sia un atteggiamento di debolezza, per psicologie tristi. In realtà è il passaggio dall’opacità, dal grigiore, dall’ombra alla luce. Il Papa non attenua lo scarto: per attuare una conversione profonda bisogna lasciar operare dentro di noi una trasformazione che in realtà solo l’azione dello Spirito può compiere per davvero, grazie alla nostra quotidiana disponibilità per giungere ad «orientare la nostra esistenza secondo la volontà di Dio, liberarci dal nostro egoismo, superando l’istinto di dominio sugli altri e aprendoci alla carità di Dio» (Messaggio cit., n. 3). Nel cammino liturgico verso la Pasqua, quest’anno Papa Benedetto XVI ha offerto alla Chiesa un altro aiuto, promesso e atteso: la seconda parte del suo libro su Gesù di Nazaret. L’itinerario del testo, che congiunge “l’esegesi della fede” e “l’esegesi storica” completandole con le grandi intuizioni dell’esegesi patristica, va dall’ingresso di Gesù in Gerusalemme fino alla risurrezione. La temperatura delle pagine è sempre alta e vibrante pur nella pacatezza sobria della parola: la lettura attenta e continua prende l’intelligenza e alimenta la meditazione dell’anima, diventa occasione dell’incontro con Gesù, nutre la fede. Non sono forse queste le premesse e le condizioni per quel cammino di conversione a cui la Quaresima chiama e sollecita? Siamo grati a Benedetto XVI per questo dono, certi che porterà, con la grazia dello Spirito, frutti di luce e di amore.

Ci piace – particolarmente in questo tempo – pensare alle nostre parrocchie come a palestre dello Spirito, dove non si gestiscono burocraticamente incontri ed impegni, ma avvengono miracoli perché si cerca il Signore, ci si imbatte con il suo sguardo, ci si sente raccolti nella sua mano, e se ne ricava la vita trasformata, non più sottomessa al conformismo o sofferente per il giudizio altrui. Ai nostri amati Sacerdoti – che, in questo tempo e in varie parti, sappiamo essere impegnati nella benedizione delle famiglie − diciamo grazie per ciò che sono e per quel che sempre di più, nonostante l’età e il numero più contratto, assicurano alle loro comunità. Il mistero di Dio che in ogni comunità si celebra, i beni spirituali che si «amministrano», a cominciare dal perdono cercato anche nel sacramento della Penitenza, la preghiera cui si partecipa, l’accoglienza e le altre virtù che si coltivano, ci consentono di scorgere nell’ordinarietà della vita pastorale non una distesa polverosa di gesti ripetitivi, ma un campo seminato a Grazia, dunque quanto mai vitale e dinamico, perché aperto sul futuro, al Signore che sempre viene. Convertirsi, cambiare vita è verbo tra i più nobili, impegno tra i più alti, premessa la più affidabile. Vorremmo dire ai nostri connazionali che qui, a questo livello, sta anzitutto il contributo alla vita sociale a cui i credenti tengono di più, che sentono più intensamente e che meglio esprime il senso e il fervore delle loro intenzioni.

2. È noto come la nostra Conferenza abbia voluto per tempo esprimere la convinta e responsabile partecipazione della comunità ecclesiale all’evento del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, e ciò in spirito di leale collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese tutto. Sentivamo il dovere, come Vescovi, di dare pubblica attestazione del sentimento genuino e forte che lega la Chiesa, da duemila anni pellegrina su questo territorio, alla collettività italiana e alla forma statuale e nazionale che essa ha voluto darsi ad un certo punto della sua storia. E la solenne Eucaristia, vissuta il 17 marzo nella basilica romana di Santa Maria degli Angeli, concelebrata insieme ai Presidenti delle Conferenze episcopali regionali e da vari Confratelli, questo ha inteso affermare alla presenza del Capo dello Stato e delle massime Autorità della Repubblica. Non dunque un gesto di concordismo vago e sfuocato, ma l’atto che «racchiude tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo» (Presbyterorum Ordinis, n. 5) che, offrendosi al Padre quale vittima di espiazione ed intercessione, diventa pane vivo spezzato per gli uomini, in tal modo invitati a offrire – assieme a Lui – anche se stessi a bene dell’intera comunità umana. In quella Eucaristia, infatti, abbiamo inteso raccogliere le intenzioni dei credenti e, in un certo senso, dell’intero Paese, portando all’Altare il pentimento per i nostri peccati, i nostri ritardi, le nostre omissioni; e insieme la nostra offerta di grazie per la vocazione singolare che il Signore Iddio, nella sua provvidenza, ha inteso assegnare a questa terra benedetta e per i talenti elargiti alla Nazione nell’intero arco della storia. In particolare per l’unità raggiunta 150 anni or sono e da allora perseguita, tra alterne vicende eppure con partecipato impegno, fino ad oggi. Ringraziarlo altresì per il comune sentire cristiano, come per i molteplici scambi e le concrete esperienze di fraternità che assai prima del 1861 hanno tenuto insieme l’Italia quale realtà unica, e non solo per la sua configurazione geografica; e per le innumerevoli storie di dedizione laicale e sacerdotale, per le decine e decine di istituti religiosi, per le associazioni e i movimenti che, sorti dal popolo, hanno dal basso ordito il tessuto che ci mantiene uniti. E ancora lo si è ringraziato per quanti – civili e militari – hanno lungo i secoli dato la propria vita per la libertà e il riscatto del popolo italiano: per la loro eterna beatitudine supplichiamo il Signore. Abbiamo infine rinnovato l’impegno a servire l’Italia, e ad amarla nel disinteresse di parte e secondo l’esclusiva ottica del vero bene comune. Amarla ridestando l’attenzione verso i capisaldi della sua cultura, chinandoci specialmente sugli abitanti più deboli e sulle fasce di popolazione più bisognosa, e dedicando ancora le energie migliori a quel compito dell’educare che è trasmissione di vita e di visione. Il Messaggio che il Santo Padre ha, per l’occasione, indirizzato al Presidente della Repubblica, onorevole Giorgio Napolitano, è un dono per tutti e rappresenta un contributo significativo alla rilettura del processo unitario, inteso «non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo» e alla quale il cristianesimo «ha contribuito in maniera fondamentale».

Un auspicio vorremmo esprimere per il tempo che ora si apre. E riguarda quel sentimento di consapevole solidarietà che non può non legare tra loro anzitutto i cittadini della stessa nazione. Pare a noi infatti – e lo esprimiamo quasi sottovoce − che negli ultimi decenni questo sentimento sia andato affievolendosi, diventando vieppiù esile e a momenti quasi impalpabile. Come se dovesse essere fatale, ad un certo punto, lasciarsi anche noi prendere da quella sindrome degli “arrivati”, secondo cui una volta che è stata raggiunta una certa soglia di benessere e sicurezza, debba venir meno la buona tensione che ci fa essere vigili per non perdere proprio i valori che concorrono oggi a darci un volto, e in passato hanno fatto la nostra storia. E per non allentare quella capacità di sacrificio al fine – quei valori – di custodirli e alimentarli. Siamo preoccupati per ciò che sta producendo quell’idea di individualismo secondo cui il singolo si sente come chi non deve nulla ad alcuno e non ha relazioni impegnative verso gli altri, quasi fosse senza genealogia e non sentisse alcuna responsabilità generativa verso il domani. Per quanto si tenti anche con sforzo culturale onesto di riscattarlo, l’individualismo odierno − una volta entrato in commistione con la spinta narcisistica − non può non contorcersi in una versione anti-sociale. Così temiamo abbia ragione chi osserva che è oggi in gioco «un intero paradigma antropologico», quello costruito su «una relazione feconda di umanità», feconda anche di figli e di opere, «che ha il senso della provenienza e guarda avanti, perché sa che la vita si conserva solo trasmettendosi, generando e rigenerando l’umano in tutte le sue dimensioni» (Francesco Botturi, Avvenire, 20 gennaio 2011). Si comprende, tra l’altro, il motivo per cui il nostro Comitato per il Progetto culturale abbia, insieme a noi, identificato nella rarefazione demografica il tema che merita di essere considerato nell’occasione del suo prossimo Rapporto. Se vuole un suo domani, l’Italia non può non battersi per fronteggiare le derive dell’individualismo più esasperato e radicale, come non può affidarsi solamente alle relazioni di solidarietà e fecondità riscontrabili, per fortuna, tra gli immigrati.

3. Molte delle comuni preoccupazioni, in questi ultimi mesi, sono state assorbite dai fatti che stanno interessando i Paesi del Nordafrica. Eventi che neppure gli analisti più avveduti avevano previsto, si sono succeduti in quella regione, rivelandosi uno come miccia dell’altro. Dapprima la Tunisia, poi l’Algeria, quindi l’Egitto e infine, ma non ultima, la Libia. In sostanza, tutti i Paesi situati sulla costa africana del Mediterraneo, non escluso il Marocco, sono stati in un modo o nell’altro toccati quando non sconvolti da moti insurrezionali popolari, che hanno prodotto esiti per ogni situazione diversi, e comunque tuttora provvisori, perché suscettibili di evoluzioni imprevedibili come il caso libico drammaticamente dimostra. Oltre che nelle Nazioni citate, si sono registrate turbolenze in almeno un’altra decina di Paesi, coincidenti perlopiù nella penisola arabica a cominciare dallo Yemen, ma anche in Giordania e specialmente in Siria. Al Vescovo di Tripoli, S.E. Mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, ho avuto l’opportunità di esprimere personalmente – via telefono – la vicinanza dell’Episcopato italiano e delle nostre comunità: la preghiera fervente e operosa accompagna non solo i cattolici e i cristiani di quel Paese, ma tutto il popolo della Libia e oltre. Ci si è molto interrogati sull’incubazione − occulta o meno − di queste vicende, nello sforzo di individuare l’evento-detonatore in una o l’altra delle turbolenze precedenti, ma certo dovendo ammettere, da parte delle opinioni pubbliche dell’Occidente, un evidente deficit di conoscenza circa la situazione interna ai vari Paesi. In realtà, per registrare esiti tanto vasti e partecipati, deve aver a lungo covato qualche febbre non irrilevante, senza che sollevasse tuttavia particolari allarmi. Eppure, viene detto oggi, qualche crepitio si sarebbe potuto cogliere se si fosse tenuto lo sguardo rivolto sulla vitalità dei popoli più che sull’immobilità dei regimi; se si fosse stati disposti a considerare gli indici antropologici più decisivi di quelli politici. I tempi di emersione possono risultare più o meno lunghi, incerti e travagliati, ma l’aspirazione umana alle libertà fondamentali, al riconoscimento della dignità personale, prima o poi emerge nella coscienza dei singoli e dei popoli, sospingendo su percorsi non sempre univoci e ad esiti non ovunque corrispondenti a quelli auspicati. L’andamento tendenzialmente pacifico che, per impronta dei cittadini, le manifestazioni avevano all’inizio assunto, ha indotto a sperare che il mutamento potesse compiersi al riparo dalla violenza. Oggi questa illusione sembra venuta meno. In ogni caso, l’intreccio tra emergenze concretissime, obiettivi politico-ideologici ed interessi economici, rende il quadro generale non solo complesso e complicato, ma anche confuso. Nel frattempo, di evidente ed indubitabile c’è a tutt’oggi il patire di tanta povera gente! E non ci si può non rammaricare per il ricorso alla forza che, contrapponendo tra loro i figli poveri di uno stesso popolo e di uno stesso continente, provoca dolore più grande e lutti – se possibile – ancora più drammatici. L’invocato e improvviso intervento internazionale − ideato sotto l’egida dell’Onu e condotto con il coinvolgimento della Nato − ha fatto sorgere interrogativi e tensioni. Ci uniamo alle accorate parole che il Santo Padre in più occasioni ha espresso di solidarietà a quelle popolazioni e di auspicio per un immediato superamento della fase cruenta: ad intervento ampiamente avviato, auspichiamo che si fermino le armi, e che venga preservata soprattutto l’incolumità e la sicurezza dei cittadini garantendo l’accesso agli indispensabili soccorsi umanitari, in un quadro di giustizia. Noi crediamo che la strada della diplomazia sia la via giusta e possibile, forse tuttora desiderata dalle parti in causa, premessa e condizione per individuare una “via africana” verso il futuro invocato soprattutto dai giovani. Ma anche per evitare possibili spinte estremiste che avrebbero esiti imprevedibili e gravi.

4. Cosa fare, dinanzi a simili rivolgimenti? Se l’interrogativo trascende per buona parte le nostre competenze, siamo però, oltre che Pastori, anche cittadini di questa Italia che si distende come una propaggine singolare al centro del Mediterraneo, tornato ad essere nevralgico per equilibri pacifici nel mondo. Tempo addietro ci trovammo ad osservare come la lingua di terra chiamata Italia sia naturalmente disposta a ponte verso altri continenti e altri popoli. Quasi che neppure i particolari in essa siano a caso e tutto concorra a determinare una vocazione specifica di questa terra e della nazione che in essa risiede. Ed è ciò che oggi torniamo a dire ai nostri concittadini: non ci è consentito di disinteressarci di quel che avviene fuori di noi, nelle coste non lontane dalle nostre. È un’illusione pensare di vivere in pace, tenendo a distanza popoli giovani, stremati dalle privazioni, e in cerca di un soddisfacimento legittimo per la propria fame. Coinvolgerci, e sentirci in qualche modo parte, rientra nell’unica strategia plausibile dal punto di vista morale ma − riteniamo − anche sotto il profilo economico-politico. L’interdipendenza è condizione ormai fuori discussione ed essa si fa ancora più cruciale e ineluttabile in forza delle vicinanze geografiche. Che però, nel nostro caso, riguardano l’Italia alla stessa stregua con cui riguardano l’Europa, di cui siamo parte: i confini costieri della prima infatti coincidono con i confini meridionali della seconda. L’emergenza dunque è comunitaria, e va affrontata nell’ottica di destinare risorse per uno sforzo di sviluppo straordinario, che non potrà non raccogliere poi benefici in termini di sicurezza complessiva. Continuare a ritenere interi popoli poveri come fastidiosi importuni non porterà lontano. Essi domandano, a loro modo, di partecipare alla fruizione dei beni materiali, mettendo a frutto la loro capacità di lavoro, e intanto chiedono ciò che finora non hanno potuto produrre. Nei nuovi scenari, è un’illusione riuscire a piantonare le coste di un continente intero. È l’ora dunque di attuare quelle politiche di vera cooperazione che sole possono convincere i nostri fratelli a restare nella loro terra, rendendola produttiva. Non si diceva forse, nel momento in cui ci si preparava a far fronte alla crisi economica internazionale, che sarebbe stata l’occasione per ridefinire le priorità e le scale di valore, in ordine alle scelte strategiche?

L’Italia ha esigenze di sicurezza e di stato sociale che non può disattendere e vincoli di compatibilità economica che pure vanno rispettati. Dinanzi alla nuova emergenza, ci si sta muovendo tra comprensibili difficoltà e qualche resistenza, al fine di offrire una prima accoglienza a quanti arrivano dall’Africa. Ma per predisporre soluzioni minimamente adeguate per gli sfollati, i profughi o i richiedenti asilo c’è bisogno, oltre che dell’apporto generoso delle singole Regioni d’Italia, anche della convergenza dell’Europa comunitaria, chiamata a passare – come giustamente si è detto – da una «partnership della convenienza» a quella della «convivenza». Tutta l’Europa è − non da oggi − in debito verso l’Africa, e deve ora operare per non rendere fallimentari gli sforzi di questi popoli in cammino verso approdi più democratici e rispettosi dei diritti dell’uomo. Bisogna avere l'intelligenza della storia, e un senso del dovere commisurato alla svolta in atto al fine di corrispondere immediatamente alle sfide in maniera concreta e attraverso misure confacenti. Quale sarà il traguardo di tanti fratelli e sorelle in umanità, esso beneficerà o danneggerà tutti. Come Chiesa, con l’umiltà dei nostri mezzi, siamo già in campo, e in particolare attraverso la Caritas Italiana si stanno rinforzando gli aiuti alle Caritas del Nordafrica, si sostiene una presenza fissa nei principali campi di raccolta, e si dà appoggio alle strutture delle Diocesi più esposte. Una particolare, fraterna vicinanza la vogliamo esprimere all’arcivescovo di Agrigento, S.E. Mons. Francesco Montenegro, che ha la cura pastorale dell’isola di Lampedusa, avamposto sospirato di tanti profughi. È noto che gli immigrati colà superano ormai la popolazione locale determinando − involontariamente − una condizione di generalizzato, profondo disagio. L’attività lavorativa della piccola comunità rischia di finire seriamente compromessa, tra le crescenti preoccupazioni delle famiglie. Nell’esprimere cordiale ammirazione per la generosità e il senso dell’accoglienza che da sempre contraddistingue la popolazione lampedusana, chiediamo ai Responsabili un ulteriore sforzo perché, avvalendosi di tutti gli strumenti anche comunitari, si dia sollievo all’isola e ai suoi abitanti. Non devono infatti sentirsi soli.

Si ha conferma che la stragrande maggioranza di coloro che arrivano sono giovani, al pari di quanti, attraverso le immagini della televisione, si sono visti e si vedono manifestare nelle piazze. In tal modo si profila un sottile problema di interfaccia tra coloro che, vogliosi di vita, spingono per entrare e la vecchia Europa che tenta di difendere i propri bastioni. Ma proprio qui si annida anche, sotto il profilo culturale, la carica più dirompente di questa emergenza.

5. Non possiamo tacere il nostro dolore per le vittime che si sono registrate, tra la popolazione copta dell’Egitto, in scontri successivi alla caduta del regime. In ciò, il dopo Mubarak non si è presentato per ora troppo diverso dalla precedente situazione, nonostante gli incoraggianti segnali di condivisione raccolti durante le manifestazioni di piazza. L’esito peraltro del referendum che lì già si è svolto induce a molta prudenza. A ciò vanno aggiunte le condizioni di abbandono in cui restano i cristiani dell’Iraq, ai quali vengono talora fatte promesse, senza che si esplichi poi alcuna concreta tutela. Lo stesso dicasi per il Pakistan, dove grande impressione ha suscitato l’attentato nel quale è rimasto ucciso il ministro per le minoranze religiose Bhatti, un cristiano ora martire che si era a lungo impegnato per abrogare le leggi discriminatorie, di cui la più drammaticamente nota è quella sulla blasfemia, a causa della quale è a rischio anche la vita di Asia Bibi. Realmente non si riesce a comprendere come un Paese grande e importante come il Pakistan possa tollerare una situazione di illegalità tanto clamorosa e pesante. L’episcopato pakistano ha pronunciato parole ferme e inequivocabili, e solidarietà forte ed esplicita è stata assicurata dal Papa, che ha parlato dell’atto proditorio come di «commovente sacrificio» (cfr Saluto all’Angelus, 6 marzo 2011). Ci uniamo anche noi a quella Chiesa che soffre e con lei intendiamo batterci perché nel mondo non si debba più piangere e morire a motivo della propria fede religiosa. Resta questo l’indicatore più credibile per lo sviluppo civile e sociale di una nazione. Non ci stancheremo di lavorare per un’educazione al dialogo e al rispetto, mentre continuiamo a condividere l’apprensione di Benedetto XVI per le tensioni interreligiose palesatesi in diversi Paesi dell’Asia e dell’Africa (cfr ib), implorando – come si è fatto comunitariamente domenica 13 marzo – misericordia per le vittime e per tutti riconciliazione, giustizia e pace. Dopo una titubanza incomprensibile quanto amara, e grazie al marcato impegno del nostro governo, l’Unione Europea ha finalmente condannato le discriminazioni religiose e gli attacchi condotti anche contro i cristiani. Bisogna ora che ci si batta in ogni sede internazionale per rendere, di conseguenza, inaccettabili le politiche che umiliano i cittadini, schiacciando ciò che nell’uomo è più sacro. È questo il crinale che, con più precisione, segna avanzamento o regressione sulla frontiera fondamentale dei diritti dell’uomo. Sullo scenario comunitario un rilievo marcatissimo viene ad assumere la sentenza emessa dalla Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’uomo che si è pronunciata sul ricorso presentato dall’Italia per la condanna − subita nel 2009 − a proposito dell’esposizione del crocifisso nelle scuole statali. E ciò pur riconoscendo che la scuola pubblica è, nel nostro Paese, aperta a tutti, senza discriminazioni di sorta. Un pronunciamento che da una parte riconosce come ogni Paese abbia il diritto di assegnare il giusto rilievo alla propria tradizione religiosa che è un fattore vivo, con un ruolo pubblico da svolgere. Dall’altra lascia intendere che il simbolo religioso non comporta in sé una lesione dei diritti. Ed è, anzi, elemento integrante l’identità italiana e dunque, a questo punto, anche europea.

Alla scuola dei Papi, la Chiesa non cessa di gettare ponti rispetto al baratro delle ingiustizie e delle mortificazioni che ancora affliggono fin troppi popoli. La sua è una preoccupazione che non alza bandiere, e non conosce secondi fini: unicamente sollecita la società ad aprirsi alla tolleranza e alla convivenza. Ognuno di noi, insieme ai nostri fedeli, è chiamato a vivere all’altezza della testimonianza di sangue di tanti nostri fratelli sparsi nel mondo.

Nel corso dell’inverno, e in ragione delle rigide temperature stagionali, ci sono stati alcuni episodi luttuosi che hanno visto amaramente soccombere persone disagiate che avevano cercato rifugio in siti di fortuna. Si sa che non è sempre facile intervenire nelle situazioni di disagio in modo efficace e risolutivo, e tuttavia questo non basta per arrendersi, per non tentare di farsi carico fino allo spasimo di ogni singola vita, mai tanto emarginata da essere compatibile con l’abbandono inesorabile. Analogamente occorre dire per i quattro bambini che, alla periferia di Roma, hanno trovato la morte nel rogo della loro baracca, in un campo Rom. L’episodio – ha osservato il Papa – «impone di domandarci se una società più solidale e fraterna, più coerente nell’amore, cioè più cristiana, non avrebbe potuto evitare tale tragico fatto» (Saluto all’Angelus, 13 febbraio 2011). È un interrogativo che nessuno potrà permettersi di scrollarsi facilmente di dosso. Così, la circostanza non poteva non riproporre l’annoso tema dell’accoglienza, nella nostra società e nelle nostre città, delle popolazioni Rom, che non possono essere percepite come uno sorta di scarto razziale dell’evoluta Europa. Esperienze illuminanti – in cui lo Stato e gli Enti locali convergono con l’associazionismo privato-sociale – ci avvertono che un inserimento, attraverso piani graduali di accompagnamento, con tappe successive e successivi controlli sul versante della legalità, è possibile. Occorre che nei diversi territori si sappia prendere l’iniziativa, e si tratti per definire i termini di uno scambio in cui si equilibrano diritti e doveri reciproci.

6. Quanto finora richiamato, ci suggerisce di mettere a fuoco quel senso del disagio che qua e là dà prova di nascondersi nelle pieghe profonde del Paese. Nessuno può negare che delle ragioni ci siano e vadano affrontate con l’apporto intelligente, propositivo e onesto di tutti. Avere in mente solo se stessi e la propria parte, anziché il Paese, significa tradire il Paese. Ma vorremmo, altresì, scongiurare tutti affinché il senso diffuso di malessere non intacchi la fiducia della nostra gente verso le proprie capacità, la propria cultura, verso l’Italia stessa e i suoi destini. Qualcuno parla addirittura di un possibile cedimento strutturale della “casa comune”. Un contributo non irrilevante a tale lettura, a tratti depressiva, pensiamo provenga da certa rappresentazione mediatica che tende a esasperare episodi marginali, mentre tace di altri ben più importanti o rende invisibili le realtà positive di cui l’Italia è ricca. A volte il sensazionalismo o la spettacolarizzazione creano una specie di “inquinamento ambientale”.

Si tratta naturalmente di meccanismi complessi, che si influenzano a catena, ma ciò non può costituire una scusante al fine di trascurare l’impatto dei fenomeni mediatici sulle persone, sui giovani in particolare, e però non solo loro. Ci deve essere la percezione delle soglie da non superare, pena ottenere guasti superiori all’immediato guadagno. È troppo importante e vitale che il Paese accetti di riconoscersi – non come un fatto solo stagionale − in un quadro di valori sostanziali, che sarebbe poi autolesionismo accantonare per esigenze opportunistiche. Il concetto di etica pubblica, per potersi strutturare e poter reggere all’urto degli eventi, ha bisogno di radicarsi in una consapevolezza: il bene non coincide con i desideri personali, ma possiede una propria, austera oggettività. L’etica senza un proprio contenuto, autonomo dai gusti soggettivi, infiacchisce e certo non consolida le coscienze. Il bene esiste, e a partire da questa fondante esperienza trovano spiegazione l’ethos di riferimento, ma anche il criterio obbligante e la cura sapiente di sé, cioè la formazione del proprio essere.

La scuola – tutta la scuola – ha nell’ambito formativo un ruolo non surrogabile. Essa infatti non può limitarsi a riprodurre al proprio interno i tratti del clima culturale più diffuso, acconsentendo magari alle derive del tecnicismo didattico o alle lusinghe del potente mercato di verità solo relative. Gli Orientamenti Pastorali del nuovo decennio, che la Chiesa italiana si è data, ricordano che il carattere pubblico − che connota tutta la scuola − «non ne pregiudica l’apertura alla trascendenza e non impone una neutralità rispetto a quei valori morali che sono alla base di ogni autentica formazione delle persone» (Educare alla vita buona del Vangelo, n. 46). E dunque, nel contesto pluralista odierno la comunità cristiana, fermando il proprio sguardo grato sui «costruttori di vita buona» all’opera nei plessi e nelle aule scolastiche, auspica un’«alleanza educativa» tra quanti, affiancando i genitori, si spendono per la crescita intellettuale, morale e umana delle nuove generazioni.

7. L’Italia ha un estremo bisogno di ricomporsi, quasi raccogliendosi in se stessa e radunando le proprie energie migliori, per metterle tutte in circolo e produrre un passo in avanti, fuori dagli immobilismi come dai proclami apodittici. Non tocca a noi Vescovi suggerire spinte di tipo politico, e dunque neppure di misurare i tempi o cadenzare i passi della comunità civile. Possiamo invece ricordare a tutti le conclusioni tratte da quanto ogni giorno osserviamo: il Paese ha un insopprimibile bisogno che si parta dai dati della realtà. Non i dati incartati nell’enfasi propagandistica o, al contrario, nel catastrofismo più nero, ma i dati per quanto possibile semplici e netti. Anche da soli, sono eloquenti: sulla disoccupazione specialmente giovanile e femminile, sul differenziale tra Nord e Sud d’Italia, sulla produttività, sull’imposizione e sull’evasione fiscale, sulla corruzione e sull’amministrazione della giustizia, sull’insicurezza del territorio e sul fabbisogno energetico… Si potrebbe anche aggiungere che c’è, ad un tempo, urgenza di umiltà per potersi effettivamente piegare quanto serve sui dati della realtà stessa, che è l’unico modo per prenderli sul serio, saperli interrogare, applicarsi per istruire processi decisionali. C’è bisogno di una riflessione partecipata, al fine di scegliere e rispondere. C’è bisogno che tutti agiamo senza troppo reclamizzare e senza continuamente recriminare, avendo il gusto di stupire la comunità nazionale per il fervore dell’impegno, per la capacità di dialogo, per l’efficacia delle azioni, utilizzando al meglio tempi, spazi, occasioni. Più che di scomuniche reciproche, la collettività ha bisogno di una seria dialettica, che esalti i ruoli a ciascuno affidati dal cittadino-elettore. È a partire dall’applicazione alle urgenze congiunturali, che è preferibile recuperare – tessera dopo tessera – il mosaico di una visione, di cui pure si sente la necessità: la visione cioè di dove stiamo andando, e perché dobbiamo affrontare determinati sacrifici. In questa stagione, tuttavia, conviene farsi guidare anzitutto dal criterio della concretezza: essa dà credibilità. Capiremo allora probabilmente che una visione forte non può non includere la sola medicina capace di guarire alle radici: la vita, la sua cura, e la sua promozione. La vita cioè elevata a creazione sociale, dunque a orizzonte di cultura, di bellezza, di arte.

Per questo, cioè secondo questa chiave interpretativa, vorremmo dire una parola che inducesse l’opinione pubblica a ritenere che una legge sulle dichiarazioni anticipate di fine vita è necessaria e urgente. Si tratta infatti di porre limiti e vincoli precisi a quella “giurisprudenza creativa” che sta già introducendo autorizzazioni per comportamenti e scelte che, riguardando la vita e la morte, non possono restare affidate all’arbitrarietà di alcuno. Non si tratta di mettere in campo provvedimenti intrusivi che oggi ancora non ci sono, ma di regolare piuttosto intrusioni già sperimentate, per le quali è stato possibile interrompere il sostegno vitale del cibo e dell’acqua. Chi non comprende che il rischio di avallare anche un solo caso di abuso, poiché la vita è un bene non ripristinabile, non può non indurre tutti a molta, molta cautela? Per rispettare la quale è necessario adottare regole che siano di garanzia per persone fatalmente indifese, e la cui presa in carico potrebbe un domani – nel contesto di una società materialista e individualista − risultare scomoda sotto il profilo delle risorse richieste. È noto come il dolore soggettivo, con le possibilità offerte dalla medicina palliativa, debba al presente spaventare di meno. Piuttosto, sono i criteri di una sana precauzione a dover suggerire pensieri non ideologici ma informati a premura e tutela, e ispirati a vera “compassione”. Questa, infatti, non elimina la vita fragile e indifesa, ma la “com-patisce”, induce cioè a sopportarla insieme all’ammalato, si fa condivisione, sostegno, accompagnamento fino al traguardo terreno. In determinate condizioni, la paura più impertinente scaturisce dalla solitudine e dall’abbandono, mentre l’atteggiamento d’amore trova vie misteriose per farsi percepire e saper medicare. È qui, su questo versante massimamente precario e bisognoso, che una società misura se stessa. Questa mostra la sua umanità specialmente di fronte alla vita quando è troppo debole per affermare se stessa e potersi difendere; altresì quando concepisce la vita di ciascuno non solo come un bene dell’individuo, ma anche – in misura – come un bene che concorre al tesoro comune.

Un altro pensiero vorremmo dedicarlo alla famiglia, senza lasciarci prendere dall’ansia di apparire troppo insistenti. Crediamo di conoscere il popolo italiano: tutt’altro che prevenuto o chiuso anche nei confronti dei sacerdoti. Non si faticherà a intuire perché l’insistere ci appaia qui un dovere: non c’è di mezzo alcun tornaconto, vi è piuttosto l’interesse sommo della collettività. Alla quale – immaginiamo – dovrà pur premere che le difficoltà economiche, i problemi del lavoro e della casa, formando magari un tutt’uno con l’incertezza culturale, non diventino un ostacolo sempre più grande alla realizzazione del progetto di felicità e − ancora − di benessere che potenzialmente è ogni famiglia. Davvero è auspicabile che, fatto salvo il rispetto per la libertà personale, nessuno nell’ambito pubblico provveda a decisioni che mettano in ombra l’istituto familiare, architrave portante di ogni realistico futuro.

Concludo, venerati Confratelli, la mia introduzione al lavoro del Consiglio Permanente, con la quale – come di consueto – ho cercato di dare eco a sollecitazioni raccolte in interlocuzioni varie, preziose e degnissime. Vorrebbe ad un tempo aprire un confronto tra noi come sempre esplicito e fraterno. La vita delle nostre Chiese non ci abbandona mai, ed è regola ai nostri passi. Sui quali desideriamo l’ispirazione e la vicinanza di Giovanni Paolo II, presto beato per il gaudio del mondo. Insieme invochiamo l’assistenza di Guido Maria Conforti e Luigi Guanella, fondatori e figure impareggiabili del Risorgimento italiano e cattolico, che il Papa iscriverà nel libro dei Santi il prossimo 23 ottobre. Dall’alto ci protegga sempre Maria, Madre dolcissima.


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