Il rapporto speciale che legava Karol Wojtyla ai giovani, nel ricordo di mons. Mauro Parmeggiani
Ieri tante celebrazioni si sono svolte in tutto il mondo, soprattutto in Polonia, per ricordare il sesto anniversario della morte di Giovanni Paolo II, nell’imminenza ormai della sua Beatificazione che avverrà il prossimo primo maggio. Molti i giovani che hanno partecipato agli eventi in memoria di Papa Wojtyla. Tra quanti lo ricordano con particolare affetto è mons. Mauro Parmeggiani, vescovo di Tivoli, che ha avuto modo di conoscere da vicino Giovanni Paolo II quando ricopriva l’incarico di responsabile della pastorale giovanile a Roma. Tiziana Campisi lo ha intervistato:
R. - Ricordo di essere stato un giovane di 17 anni che pensava di entrare in seminario, studiavo da geometra e stavo facendo un piccolo progetto per il giorno dopo a scuola, i compiti e alla televisione uscì questo Karol Wojtyla e mi impressionò subito la sua immediatezza con le prime parole che disse al popolo in Piazza San Pietro. Diventai sacerdote, nell’85 arrivai a Roma come segretario di mons. Ruini, allora segretario generale della Cei, e incominciai a interessarmi alla Cei e anche delle Giornate della Gioventù. Nel ’91 mons. Ruini diventò cardinale vicario e io lo seguii in Vicariato, e lì l’incontro con Giovanni Paolo II. Durante la festa della Madonna della Fiducia, al Seminario Romano, il suo segretario, ora cardinale Dziwisz, mi disse: “Qui bisogna fare qualcosa per i giovani della diocesi di Roma!”, poi mi portò dal Papa e mi disse: ”lui ha attitudine!” e da allora cominciarono quelle che poi sono diventate le Giornate diocesane della Gioventù, tutti i giovedì prima della Domenica delle Palme e dove il Papa voleva che i giovani di Roma, della sua diocesi si incontrassero con lui.
D. - Quali ricordi, in particolare, custodisce?
R. - Una cosa che mi colpiva molto era che prima di ogni incontro il Papa insieme al cardinale vicario chiamava anche il sottoscritto, mons. Frisina, mons. Leuzzi, che preparavamo insieme questi incontri e ci domandava, ci domandava il programma, ci domandava su cosa doveva insistere, ci chiedeva consigli sul cosa dire e ci dava grandi suggerimenti. Ricordo sempre “i giovani devono evangelizzare i giovani”, questo era il suo ritornello.
D. - Come ci può descrivere questo rapporto tra Giovanni Paolo II e i giovani?
R. - Era un rapporto personale. Lui cercava di entrare in dialogo con loro, mentre parlava, voleva parlare al cuore di ciascuno di loro. Lui era anticonformista per questo, cioè il santo è sempre un ottimista, non crede che i giovani siano solo negativi, siano solo incapaci di percepire il bello, il giusto, il buono che vuol dire Dio, per lui nessuno era uno dei tanti, ma era uno al quale dare attenzione, dare una risposta anche piccola, semplice, immediata, ma con cui voleva entrare in relazione. Questo i giovani lo hanno percepito.
D. - Da Papa dei giovani a Beato dei giovani ...
R. - Prima lo sentivano - i giovani - un Papa vicino a loro, che li comprendeva, che gli dava sicurezza nelle scelte che dovevano fare, che dava loro il senso che Dio c’è. Ora che diventa Beato, credo che i giovani percepiscono che lui è ancora più vicino a loro e anche i giovani lontani che lo hanno visto, che ne hanno sentito parlare. Ricordo ancora la sera della sua morte, tornai a casa tardi logicamente quella notte e sotto casa mia trovai dei giovani che non erano dei nostri giri e mi chiesero vedendomi vestito da sacerdote se era vero che era morto il Papa e io gli dissi: “Si è vero, purtroppo” e si misero a piangere e mi chiesero: “ma lei lo ha conosciuto, lei sapeva chi era?”. Non sapevano loro chi ero e gli raccontai un po’, non mi lasciavano più. Io credo che i giovani sentendo parlare di questi testimoni dell’amore anche per loro, della fiducia verso di loro, anche oggi possono sentire Giovanni Paolo II vicino. (ma)
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