venerdì 3 dicembre 2010

I cattolici sono «soci fondatori» d’Italia

In occasione del X Forum del progetto culturale, in corso a Roma (fino al 4 dicembre, sul tema: “Nei 150 anni dell’Unità d’Italia. Tradizione e progetto”), il Cardinal Angelo Bagnasco è intervenuto con un interessante discorso sul contributo fondamentale apportato dalla Chiesa e dai cattolici alla formazione dell'Italia, durante i suoi centocinquant'anni di vita. E' importante leggere questa prolusione perchè rappresenta le linee fondanti del rapporto che il cristiano può e deve avere con la politica, per apportare il suo contributo all'interesse generale:

Il tema di questo Forum – «Nei 150 anni dell’unità d’Italia. Tradizione e progetto» – costituisce un invito a fare di questo importante anniversario non una circostanza retorica, ma l’occasione per un ripensamento sereno della nostra vicenda nazionale, così da ritrovare in essa una memoria condivisa e una prospettiva futura in grado di suscitare un «nuovo innamoramento dell’essere italiani, in una Europa saggiamente unita e in un mondo equilibratamente globale» (prolusione all’assemblea generale della Cei, 24 maggio 2010).

La ricorrenza vede la Chiesa unita a tutto il Paese nel festeggiare l’evento fondativo dello Stato unitario, e già questa constatazione è sufficiente per misurare la distanza che ci separa dalla «breccia di Porta Pia», l’importanza del cammino comune percorso e la parzialità di talune letture che enfatizzano contrapposizioni ormai remote. Il contributo dei cattolici all’unità del Paese è – del resto – ben noto e non si limita al periodo pre-unitario, ma si allarga anche alla fase successiva del suo sviluppo, come è stato di recente autorevolmente sottolineato dal Presidente della Repubblica, nel telegramma a me inviato lo scorso 3 maggio: «Anche dopo la formazione dello Stato unitario l’intero mondo cattolico, sia pure non senza momenti di attrito e di difficile confronto, è stato protagonista di rilievo della vita pubblica, fino ad influenzare profondamente il processo di formazione ed approvazione della costituzione repubblicana».

Vorrei dunque rileggere il contributo dei cattolici che, a giusto titolo, si sentono «soci fondatori» di questo Paese, alla luce delle sfide che siamo chiamati ad affrontare, per consentire a ciascuno di sentirsi parte di un «noi» capace in ogni tempo di superare interessi particolaristici, e di sprigionare energie insospettate e slanci di generosità.

L’Italia «prima» dell’Italia
Cogliere il contributo cristiano rispetto al destino del nostro Paese richiede una lettura della storia scevra da pregiudizi e seriamente documentata, lontana dunque tanto da conformismi quanto da revisionismi. In effetti, ben prima del 1861 la nostra realtà italiana, per quanto frammentata in mille rivoli feudali, poi comunali, quindi statali, aveva conosciuto una profonda sintonia in virtù dell’eredità cristiana. Ne è prova assai significativa la persona di san Francesco d’Assisi, cui si lega il ripetuto uso del termine Italia, ancora poco corrente nel Medioevo. Proprio in relazione a san Francesco, all’irradiazione della sua presenza, invece comincia ad avere sostanza quella che pure per lunghi secoli resterà soltanto un’espressione geografica, viva però di una corposissima identità culturale, spirituale e soprattutto religiosa. Accanto a san Francesco sono innumerevoli le figure – anche femminili, come santa Caterina da Siena – a dare un incisivo contributo alla crescita religiosa e allo sviluppo sociale e perfino economico della nostra Penisola. Da qui si ricava la constatazione che l’unico sentimento che accomunava gli italiani, a qualsiasi ceto sociale appartenessero e in qualunque degli Stati preunitari vivessero, era quello religioso e cattolico. Affermare questa origine dell’Italia non significa ingenuamente rimarcare diritti di primogenitura, ma solo cogliere la segreta attrazione tra l’identità profonda di un popolo e quella che sarebbe diventata la sua forma storica unitaria, per altro non senza gravi turbamenti di coscienza e, per lungo tempo, irrisolti conflitti istituzionali. È qui sufficiente accennare che al fondo di tali vicende vi era anche la principale preoccupazione della Chiesa di garantire la piena libertà e l’indipendenza del Pontefice, necessarie per l’esercizio del suo supremo ministero apostolico, e più in generale di scongiurare un «assoggettamento» della Chiesa allo Stato.

L’anniversario che ci apprestiamo a celebrare è, dunque, rilevante non tanto «perché l’Italia sia un’invenzione di quel momento, ossia del 1861, ma perché in quel momento, per una serie di combinazioni, veniva a compiersi anche politicamente una nazione che da un punto di vista geografico, linguistico, religioso, culturale e artistico era già da secoli in cammino» (cfr. prolusione all’assemblea generale della Cei, 24 maggio 2010). In altre parole, veniva generato un popolo. È di tutta evidenza che lo Stato in sé ha bisogno di un popolo, ma il popolo non è tale in forza dello Stato, lo precede in quanto non è una somma di individui ma una comunità di persone, e una comunità vera e affidabile è sempre di ordine spirituale ed etica, ha un’anima. Ed è questa la sua spina dorsale. Ma se l’anima si corrompe, allora diventa fragile l’unità del popolo, e lo Stato si indebolisce e si sfigura. Quando ciò può accadere? Quando si oscura la coscienza dei valori comuni, della propria identità culturale. Parlare di identità culturale non significa ripiegarsi o rinchiudersi, ma si tratta di non sfigurare il proprio volto: senza volto infatti non ci si incontra, non si riesce a conoscersi, a stimarsi, a correggersi, a camminare insieme, a lavorare per gli stessi obiettivi, ad essere «popolo». Lo Stato non può creare questa unità che è pre-istituzionale e pre-politica, ma nello stesso tempo deve essere attento e preservarla e a non danneggiarla. Sarebbe miope e irresponsabile attentare a ciò che unisce in nome di qualsivoglia prospettiva.

L’unità del Paese si fa attorno al «retto vivere»
A questo livello dunque – quello più profondo – si pone in primo luogo la presenza dinamica dei cattolici di ieri e di oggi. L’humus popolare nasce sul territorio e nella società civile, è il frutto delle relazioni delle varie famiglie spirituali di cui la società si compone. La religione in genere, e in Italia le comunità cristiane in particolare, sono state e sono fermento nella pasta, accanto alla gente; sono prossimità di condivisione e di speranza evangelica, sorgente generatrice del senso ultimo della vita, memoria permanente di valori morali. Sono patrimonio che ispira un sentire comune diffuso che identifica senza escludere, che fa riconoscere, avvicina, sollecita il senso di cordiale appartenenza e di generosa partecipazione alla comunità ecclesiale, alla vita del borgo e del paese, delle città e delle regioni, dello Stato.

Non è forse vero che quanto più l’uomo si ripiega su se stesso, egocentrico o pauroso, tanto più il tessuto sociale si sfarina, e ognuno tende a estraniarsi dalla cosa pubblica, sente lo Stato lontano? Ma – in forma speculare – è anche vero che quanto più lo Stato diventa autoreferenziale, chiuso nel palazzo, tanto più rischia di ritrovarsi vuoto e solo, estraneo al suo popolo. Si tratta di una circolarità da non perdere mai di vista, da fiutare nei suoi movimenti profondi non per rincorrere le inclinazioni del momento in modo demagogico e inutile, ma perché non si indebolisca quella unità di fondo che non è fare tutti le stesse cose, ma è un sentire comune circa le cose più importanti del vivere e del morire. È a questo livello di base – potremmo dire non ideologico ma ontologico – che si crea, resiste e cresce un popolo come anima dinamica dello Stato.

Vorrei, a titolo esemplificativo, richiamare sommessamente quanto le comunità cristiane di ogni epoca esprimono nel variegato tessuto sociale, iniziative religiose, culturali, caritative e formative nei vari ambiti. E così ricordare con gratitudine la vasta rete di associazioni e aggregazioni cooperative sia a livello religioso che laicale. La fede certamente non può essere mai ridotta a «religione civile», ma è innegabile la sua ricaduta nella vita personale e pubblica.

La religione però non è valorizzabile nella società civile solo per le sue attività assistenziali – orizzontalmente –, ma anche proprio in quanto religione, verticalmente. L’esperienza universale, infatti, per un verso documenta che l’apertura verso la trascendenza non è né sovrastruttura né questione esclusivamente individuale e privata, e d’altro verso attesta che l’approccio al mistero di Dio dà origine a cultura e civiltà. L’autocoscienza di una società – che si esprime anche nei suoi ordinamenti giuridici e statuali – è conseguenza dell’autocoscienza dell’uomo, cioè di come l’uomo si concepisce nel suo essere e nei suoi significati, e senza la prospettiva di una vita oltre la morte, la vita politica tenderà a farsi semplicemente organizzazione delle cose materiali, equilibrio di interessi, freno di appetiti individuali o corporativi, amministrazione e burocrazia.

A nessuno sfugge come la visione dell’uomo e della vita assuma, nella luce della fede cattolica, prospettive e criteri che creano uno specifico ethos del vivere: il Vangelo invita l’uomo a guardare al cielo per poter meglio guardare alla terra, invita a rivolgersi a Dio per scoprire che gli altri non sono solamente dei simili ma anche dei fratelli, ricorda che il pane è necessario, ma che non di solo pane l’uomo vive. Infine, la dignità della persona, che oggi le Carte internazionali riconoscono come un dato che precede la legislazione positiva, trova la sua incondizionatezza solo nella trascendenza, cioè oltre l’individuo e ogni autorità umana. È questo riferimento creatore e ordinatore che origina, fonda e garantisce il valore dell’uomo e il suo agire morale. Ed è il rispetto e la promozione di questa dignità che costituisce il nucleo dinamico e orientativo del «bene comune», scopo di ogni vero Stato. E alla definizione teorica, nonché alla realizzazione pratica del bene comune, il contributo dei cattolici non è stato certamente modesto.

Com’è noto, il Concilio Vaticano II definisce il bene comune come «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente» (Gaudium et Spes, 26). Ma che cos’è la perfezione dei diversi soggetti, perfezione alla quale sono ordinate le condizioni della vita sociale? È «il vivere retto» sia dei cittadini che dei loro rappresentanti. È la comunione nel vivere bene, cioè rettamente. Benedetto XVI è stato esplicito a questo proposito: «Lo sviluppo non sarà mai garantito compiutamente da forze in qualche misura automatiche e impersonali,… Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l’appello del bene comune. Sono necessarie sia la preparazione professionale sia la coerenza morale» (Caritas in veritate, 71). Non sono le strutture in quanto tali né il semplice proceduralismo delle leggi a garantire <+corsivo>ipso facto<+tondo> il «retto vivere», ma la vita di persone rette che intendono lasciarsi plasmare dalla giustizia: giustizia che già san Tommaso definiva una «virtù generale» in quanto ha di mira l’attitudine sociale della persona, la quale non può essere circoscritta dai suoi bisogni e dalle sue esigenze particolari, ma è chiamata a farsi carico responsabilmente dell’insieme.

Nella sollecitudine per il bene comune rientra l’impegno a favore dell’unità nazionale, che resta una conquista preziosa e un ancoraggio irrinunciabile. In tale impegno, come sottolinea il presidente Napolitano, «nessuna ombra pesa sull’unità d’Italia che venga dai rapporti tra laici e cattolici, tra istituzioni dello Stato repubblicano e istituzioni della Chiesa cattolica, venendone piuttosto conforto e sostegno». È nel terreno fertile dello «stare insieme» che si impianta anche un federalismo veramente solidale: uno stare insieme positivo che non è il trovarsi accanto selezionando gli uni o gli altri in modo interessato, ma che è fatto di stima e rispetto, di simpatia, di giustizia, di attenzione operosa e solidale verso tutti, in particolare verso chi è più povero, debole e indifeso. Attenzione d’amore di cui Cristo, il grande samaritano dell’umanità, è modello, maestro e sorgente.

Lo sguardo fisso al Crocifisso, ovunque si trovi, richiama al senso della gratuità: il dono della sua vita, infatti, è la continua testimonianza del dono senza pretese. Quando in una società si mantiene la gioia diffusa dell’aiutarsi senza calcoli utilitaristici, allora lo Stato percepisce se stesso in modo non mercantile, e si costruisce aperto nel segno della solidarietà e della sussidiarietà. E da questo humus di base, che innerva i rapporti nei mondi vitali – famiglia, lavoro, tempo libero, fragilità, cittadinanza – che nasce quella realtà di volontariato cattolico e laico che fa respirare in grande e che è condizione di ogni sforzo comune, e di operosa speranza.

La Chiesa educa per il bene dell’Italia
Di questo modo di pensare, accanto alla famiglia – incomparabile matrice dell’umano - la società intera è frutto, cattedra e palestra. E in questa gigantesca ed entusiasmante opera educativa la Chiesa non farà mai mancare il suo contributo in continuità con la sua storia millenaria, consapevole di partecipare – oggi come allora – alla costruzione del bene comune. A questo proposito, gli «Orientamenti pastorali», recentemente pubblicati dalla nostra Conferenza episcopale, rappresentano una opportunità per mantenere o ricostituire il patrimonio spirituale e morale indispensabile anche all’uomo post-moderno.

L’annuncio integrale del Vangelo di Gesù Cristo è ciò che di più caro e prezioso la Chiesa ha da offrire perché non si smarrisca l’identità personale e sociale, e anche il miglior antidoto a certo individualismo che mette a dura prova la coesistenza e il raggiungimento del bene comune. «Educare alla vita buona del Vangelo» si inserisce peraltro nel cammino della Chiesa italiana che continua nel tempo la sua opera che è sempre un intreccio fecondo di evangelizzazione e di cultura. La Chiesa del resto educa sempre e inseparabilmente ai valori umani e cristiani, e oggi rappresenta, nel concreto delle nostre città e dei nostri centri, un riferimento affidabile soprattutto per i ragazzi e i giovani. A questi soprattutto il mondo degli adulti deve poter offrire un esempio e una risposta credibili, contrastando quella «cultura del nulla» che è l’anticamera di una diffusa «tristezza». Ma non dobbiamo dimenticare che la cultura non è una entità astratta, in qualche misura dipende da ciascuno di noi, singoli e gruppi.

Possiamo dire che la cultura siamo noi: se gli stili di vita, gli orientamenti complessivi, le leggi hanno un notevole influsso sulla formazione dei giovani – ma anche degli adulti! – sia in bene che in male, è anche vero che se ogni persona di buona volontà pone in essere comportamenti virtuosi, e questi si allargano grazie a reti positive che si sostengono e si propongono, l’ambiente in generale può migliorare. All’interno di questa stagione di rinnovato impegno educativo, si colloca pure quello che mi ero permesso di confidare come «un sogno», di quelli che si fanno ad occhi aperti. Infatti, senza voler affatto disconoscere quanto di positivo c’è già e anzi con la cooperazione scaturente dalle esperienze già presenti sul campo, formulavo l’auspicio che possa sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici che sentono la cosa pubblica come fatto importante e decisivo, che credono fermamente nella politica come forma di carità autentica perché volta a segnare il destino di tutti (cfr. prolusione al Consiglio permanente, 25 gennaio 2010). Alla luce di quanto determinante sia stato il contributo dei cattolici nella storia del nostro Paese torno a sottolineare questa necessità.

Puntuali e come sempre illuminanti risuonano le parole di Benedetto XVI nell’accomiatarsi dal presidente della Repubblica durante l’ultima visita compiuta dal pontefice il 4 ottobre 2008 al Palazzo del Quirinale: «Mi auguro… che l’apporto della comunità cattolica venga da tutti accolto con lo stesso spirito di disponibilità con il quale viene offerto. Non vi è ragione di temere una prevaricazione ai danni della libertà da parte della Chiesa e dei suoi membri, i quali peraltro si attendono che venga loro riconosciuta la libertà di non tradire la propria coscienza illuminata dal Vangelo. Ciò sarà ancor più agevole se mai verrà dimenticato che tutte le componenti della società devono impegnarsi, con rispetto reciproco, a conseguire nella comunità quel vero bene dell’uomo di cui i cuori e le menti della gente italiana, nutriti da venti secoli di cultura impregnata di cristianesimo, sono ben consapevoli».
 
Il Cardinal Angelo Bagnasco


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