lunedì 31 gennaio 2011

Un nuovo cammino - La Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica - X

Continua il percorso di studio della Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica: un valore importantissimo e valido per tutti gli uomini di buona volontà, il che lo rende molto trasversale e utile alla causa generale. Oggi vediamo la persona umana nella sua progressiva conformazione a discepolo di Cristo:

III. LA PERSONA UMANA
NEL DISEGNO DI AMORE DI DIO


c) Il discepolo di Cristo quale nuova creatura

41 La vita personale e sociale così come l'agire umano nel mondo sono sempre insidiati dal peccato, ma Gesù Cristo, « soffrendo per noi non solo ci ha lasciato un esempio perché ne seguiamo le orme, ma ci ha anche aperto una strada, percorrendo la quale la vita e la morte vengono santificate e acquistano un nuovo significato ».41 Il discepolo di Cristo aderisce, nella fede e mediante i sacramenti, al mistero pasquale di Gesù, così che il suo uomo vecchio, con le sue inclinazioni cattive, viene crocifisso con Cristo. Quale nuova creatura egli allora viene abilitato nella grazia a « camminare in una vita nuova » (Rm 6,4). Tale cammino, tuttavia, « vale non soltanto per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore opera invisibilmente la grazia. Poiché Cristo è morto per tutti, e poiché la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, cioè quella divina, dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo offra a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, a questo mistero pasquale ».42

42 La trasformazione interiore della persona umana, nella sua progressiva conformazione a Cristo, è presupposto essenziale di un reale rinnovamento delle sue relazioni con le altre persone: « Occorre, quindi, far leva sulle capacità spirituali e morali della persona e sull'esigenza permanente della sua conversione interiore, per ottenere cambiamenti sociali che siano realmente a suo servizio. La priorità riconosciuta alla conversione del cuore non elimina affatto, anzi impone l'obbligo di apportare alle istituzioni e alle condizioni di vita, quando esse provochino il peccato, i risanamenti opportuni, perché si conformino alle norme della giustizia e favoriscano il bene anziché ostacolarlo ».43

43 Non è possibile amare il prossimo come se stessi e perseverare in questo atteggiamento, senza la determinazione ferma e costante di impegnarsi per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti.44 Secondo l'insegnamento conciliare, « il rispetto e l'amore devono estendersi anche a coloro che pensano o agiscono diversamente da noi nelle cose sociali, politiche e persino religiose, poiché quanto più con onestà e carità saremo intimamente comprensivi verso il loro modo di pensare, tanto più facilmente potremo instaurare il dialogo con loro ».45 In tale cammino è necessaria la grazia, che Dio offre all'uomo per aiutarlo a superare i fallimenti, per strapparlo dalla spirale della menzogna e della violenza, per sostenerlo e spronarlo a ritessere, con disponibilità sempre rinnovata, la rete delle relazioni vere e sincere con i suoi simili.46

44 Anche la relazione con l'universo creato e le diverse attività che l'uomo dedica alla sua cura e trasformazione, quotidianamente minacciate dalla superbia e dall'amore disordinato di sé, devono essere purificate e portate alla perfezione dalla croce e dalla risurrezione di Cristo: « Redento da Cristo e fatto nuova creatura nello Spirito Santo, l'uomo può e deve amare le cose create da Dio. Da Dio le riceve, e le guarda e le onora come se uscissero dalle mani di Dio. Ringraziando per esse il Benefattore e usando e godendo delle creature in povertà e libertà di spirito, viene immesso nel vero possesso del mondo, come chi non ha nulla e invece possiede tutto: “Tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1 Cor 3,22-23) ».47

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Padre Gabriele Amorth insiste sul diavolo che alberga in Vaticano

Molti di noi conoscono Padre Gabriele Amorth quale uno dei più noti esorcisti della Chiesa Cattolica. L'esorcismo, oggigiorno, è vista come un qualcosa di irreale, non vero, ma purtroppo è una triste realtà. Allo stesso modo, sappiamo che il male nella figura del maligno e dei demoni suoi servitori, esiste realmente e che alberga, purtroppo, anche nella nostra Chiesa, come dimostrato dai recenti casi di pedofilia. Il male tenta da sempre di scuotere le fondamenta della Chiesa Cattolica perchè sa che essa rappresenta l'ultimo baluardo di difesa della fede e della cristianità nel mondo. Padre Amorth continua a sostenere questa realtà in questo discorso molto forte, ma profondamente significativo:

Beelzebul, Zago, Astarot, Asmodeo, Jordan. Quanti sono i nomi e le trasformazioni del Maligno? La stanza del mistero è spoglia. L’atmosfera fredda. Però padre Gabriele Amorth, l’Esorcista con la “e” maiuscola, settantamila casi affrontati in nemmeno 25 anni, sorride serafico. Lui è abituato a porte che sbattono, sedie che si rovesciano, occhi che roteano, bestemmie che volano. Ma parlare di demonio nella casa del Papa mette i brividi lo stesso. Anche se l’Esorcista non si tira indietro di fronte all’Avversario. E il Santo Padre? «Oh, Sua Santità crede in pieno nella pratica della liberazione dal Male. Perché il diavolo alberga in Vaticano. Ho confidenze di persone che lo confermano. Naturalmente è difficile trovare le prove. E, comunque, se ne vedono le conseguenze. Cardinali che non credono in Gesù, Vescovi collegati con il demonio. Quando si parla di “fumo di Satana” nelle Sacre stanze è tutto vero. Anche queste ultime storie ...

... di violenze e di pedofilia. Anche la vicenda di quella povera guardia svizzera, Cedric Tornay, trovata morta con il suo comandante, Alois Estermann, e la moglie. Hanno coperto tutto. Subito. Lì si vede il marcio». Tutti lo conoscono come l’Esorcista. Molti ne chiedono l’assistenza. Perché Gabriele Amorth, sacerdote paolino nato a Modena, laureato in Giurisprudenza, ex partigiano, medaglia al valor militare, democristiano di scuola dossettiana ed ex direttore del giornale mariano Madre di Dio, è il più famoso liberatore del demonio al mondo. Ma a 85 anni settantamila casi si fanno sentire.

E don Amorth è appena convalescente. «Da un improvviso crollo», dice lui. «Un qualcosa di inspiegabile», rivela confidenzialmente l’amico don Francesco che a 90 anni, don Gabriele considera come «il bastone della mia vecchiaia». Sebbene sia in pigiama, attorniato dalle medicine sul tavolo, da immagini della Madonna, da una copia di Avvenire che accenna al suo nuovo libro da poco in libreria (“Memorie di un esorcista”, intervista di Marco Tosatti, edito da Piemme), lo sfidante di Satana mostra un piglio energico. Osserva la propria foto in copertina ed esclama: «Che faccia da bulldozer. Invece, quando sono tranquillo, i tratti del mio volto si distendono e divento un altro. Forza, parliamo, che di là ho dei casi che mi aspettano».

Padre Amorth, com’è il diavolo?

«È puro spirito, invisibile. Ma si manifesta con bestemmie e dolori nelle persone di cui si impossessa. Può restare nascosto. O parlare lingue diverse. Trasformarsi. Oppure fare il simpatico. A volte mi prende in giro. Io però sono un uomo felice del mio lavoro, una nomina inaspettata giunta 25 anni fa dal cardinale Poletti. E né gli indemoniati, che a volte sei o sette dei miei assistenti devono tener fermi, né i chiodi o i vetri che escono dalla bocca dei posseduti, e conservo in questo sacchetto, mi spaventano. So che è il Signore a servirsi di me». Il Maligno può manifestarsi con violenza.

Nella stanza prescelta –padre Amorth ha girato 23 sedi diverse, cacciato ovunque perché i confratelli erano stufi di sentire urla fino a tarda sera, finché non ha trovato stabile dimora nel quartier generale delle edizioni San Paolo– c’è un lettino con le corde per legare l’indemoniato. E una poltrona per le persone che non urlano, e stanno tranquillamente sedute durante le preghiere di esorcismo.

«Dalla bocca può uscire di tutto –racconta– pezzi di ferro lunghi come un dito, ma anche petali di rosa. Certi posseduti hanno una forza tale che nemmeno sei uomini riescono a trattenerli. Così vengono legati. Mi aiutano i miei assistenti laici, che pregano con me. Quando gli ossessi sbavano, e allora bisogna pulire, lo faccio anch’io. Vedere la gente vomitare non mi dà nessun fastidio».

Sulla pratica dell’esorcismo, dentro la Chiesa, esistono opinioni diverse. Diffidenze. Resistenze. Dubbi.

«Ma il Papa ci crede –ribadisce padre Amorth– tanto è vero che in un discorso pubblico ha incoraggiato e lodato il nostro lavoro. Gli ho scritto, e mi ha promesso che chiederà alla Congregazione per il Culto divino un documento per raccomandare che i Vescovi abbiano almeno un esorcista in ogni diocesi, come minimo. [per il momento il documento è rimasto una promessa e le diocesi non hanno tutte almeno un esorcista. In compenso, si dà priorità all'ecologismo e si affidano le anime all'ONU... n.d.r.] Ho avuto modo di parlargli più volte anche quando era prefetto alla Congregazione per la Dottrina della fede, ci ricevette proprio come Associazione degli esorcisti. E non scordiamo che, sia del diavolo sia delle pratiche per allontanarlo, parlò moltissimo lo stesso Wojtyla». [sebbene gli esiti non furono e non sono così incoraggianti...n.d.r.]

Alcuni, addirittura, ricordano ancora la dichiarazione fatta nel 1972 da Papa Montini, quando Paolo VI parlò del “fumo di Satana”, cioè delle sètte sataniche, entrato nelle Sacre stanze. Una frase che creò un caso, seguito da un nuovo discorso papale tutto incentrato sul demonio. [che, come padre Amorth ammise nella scorsa intervista, non portò comunque effetti...n.d.r.]

Ma il Maligno può colpire anche il Pontefice?

«Ci ha già provato. Lo fece nel 1981, con l’attentato a Giovanni Paolo II, lavorando su coloro che armarono la mano di Ali Agca.

E anche adesso, la notte di Natale, con quell’ultima matta che ha buttato per terra Benedetto XVI. In fondo, è quel che accadde a Gesù attraverso Giuda, Ponzio Pilato, il Sinedrio». Don Amorth si fa serio. [a nostro giudizio, pare evadere la domanda sul Maligno che può colpire anche il Pontefice, n.d.r.] Riflette in silenzio per qualche secondo, alza la testa e dice gravemente: «Altroché. Altroché se il demonio alberga nella Santa Sede. C’è un volume, “Via col vento in Vaticano” (Kaos edizioni, ndr), che parla appunto delle lotte di potere in Curia e del “fumo di Satana”. Bene, il 99 per cento di quel che è scritto lì è vero.

I Vescovi non parlano per timore di critiche di altri Vescovi.

E sì che su questo tema le Sacre scritture sono le più salate, perché i comandi di Gesù appaiono molto chiari: “Andate, predicate il Vangelo, cacciate i demoni”. Secondo me, quando un Vescovo non nomina l’esorcista commette un peccato mortale».

Tante le figure di santi che, senza esserne investiti, erano noti come liberatori dal demonio. San Benedetto, che era un monaco. Santa Caterina da Siena, di cui si narrano effetti portentosi. Padre Pio, che secondo i fedeli liberava dall’influenza del maligno. Pure Don Bosco occasionalmente si prestava. «Io lavoro sette giorni su sette, Natale e Pasqua compresi – dice don Gabriele – e non posso materialmente correre ovunque mi chiamano.

Perciò spiego a tutti che anche i laici possono operare esorcismi con successo. È scritto in Marco, XVI, 17: “Coloro che credono in me cacceranno i demoni”. Ci sono formule ufficiali. Si può dire: “Satana, vattene”. Ma c’è anche molta libertà, con preghiere semplici: il Padre Nostro –che contiene già in sé un esorcismo: “e liberaci dal Male”– con l’Ave Maria, il Salve Regina, il Credo. Poi raccomando le orazioni quotidiane, la messa, il rosario, la confessione, la comunione, il digiuno».

Un tema, quello della figura antitetica al Messia, che per altri aspetti muove fior di scienziati. L’altro ieri a Roma, nei locali della Sapienza prima e in quelli dell’Università Roma Tre più tardi, si è svolto un convegno dal titolo “L’ultimo nemico di Dio”. Cioè l’Anticristo, il personaggio che incarna l’avversario della divinità, presente nell’immaginario giudaico e cristiano relativo agli ultimi tempi del mondo. Approccio scientifico, impronta storica, studiosi di calibro internazionale: Enrico Norelli, Jean-Daniel Kaestli, Marco Rizzi, Gian Luca Potestà, Alberto D’Anna. «Il ruolo della figura dell’Anticristo –spiegava al pubblico la docente Emanuela Valeriani, una dei coordinatori dell’evento– a prescindere dalle diverse posizioni assunte dagli studiosi, è senza dubbio un tassello tematico fondamentale all’interno del grande mosaico degli studi relativi all’identità cristiana.

L’attenzione alla strana e, diciamo pure, spettacolare fisionomia dell’Anticristo è un tema ben rappresentato nelle apocalissi cristiane di epoca più tarda, contribuendo all’elaborazione anche leggendaria di questa figura escatologica. La prima testimonianza si trova in un’opera del III secolo, “Il Testamento siriaco del nostro Signore Gesù Cristo”.

Ma se, in linea generale, il terribile aspetto dell’Anticristo si può ricondurre alla tradizione precedente al cristianesimo, che identifica l’avversario escatologico con esseri mostruosi, nel caso specifico del nostro testo, esso assume una rilevanza teologica derivante dal confronto con la visione di Dio.

Se prendiamo la sezione degli “Acta Iohannis”, un testo scritto probabilmente nel secondo secolo, vediamo che lì si afferma che Gesù può essere visto sotto diverse forme (bambino, giovane adulto, vecchio) e apparire contemporaneamente anche a più testimoni». Nella sua stanza al terzo piano della sede paolina, padre Amorth si prepara ad affrontare il Nemico nell’ennesimo caso difficile.

Ma il diavolo chi sceglie di colpire? «Non lo sappiamo –risponde– eppure al 90 per cento le vessazioni diaboliche sono conseguenze di malefici, cioè sono causate da persone che per vendetta o per rabbia si rivolgono a maghi e occultisti legati a Satana i quali, pagati profumatamente, si attivano per far intervenire il maligno.

È dunque la cattiveria degli uomini a chiamare il Male.

[Fonte email Arrigo Muscio]
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domenica 30 gennaio 2011

Il punto della settimana - Comunicato finale CEI

Il punto della settimana è abbastanza avaro: una settimana tutta incentrata su casi che nulla hanno a che fare con la politica e in definitiva l'unica cosa che sta scuotendo interesse è la nascita del Terzo Polo su cui aspettiamo a pronunciarci. Vista questa moria di argomenti (il che dimostra la crisi del sistema politico berlusconiano ormai ridotto all'ordinaria amministrazione e alle quotidiane esternazioni di esponenti politici che pensano solo a difendere il loro premier), diamo spazio al comunicato finale della CEI: in particolar modo vediamo i punti principali del comunicato che si sofferma sulla situazione politica attuale, ma anche su questioni meramente clericali:


Conferenza Episcopale Italiana
CONSIGLIO PERMANENTE
Ancona, 24 – 27 gennaio 2011


COMUNICATO FINALE 

Per bocca del Consiglio Episcopale Permanente – riunito ad Ancona dal 24 al 27 gennaio 2011, sotto la presidenza del Card. Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova – la Chiesa che vive in Italia ha parlato al Paese con riconosciuta autorevolezza e credibilità. Ha saputo farlo dimostrando unità di giudizio, anche nella disamina delle delicate problematiche che ne stanno segnando la vita politica e sociale.
I Vescovi sono intervenuti in quanto pastori, animati da una chiarezza morale lontana da ogni faziosità, capaci di una parola di fiducia e d’incoraggiamento, sostenuti dal desiderio dei credenti e di tutti i cittadini di superare le difficoltà del momento presente. I giovani hanno rappresentato la lente, attraverso la quale leggere la realtà: di qui l’attenzione alle loro attese, prima fra tutte quella dell’accesso al mondo del lavoro. I Vescovi, consapevoli del fatto che il vincolo religioso è stato la radice da cui è scaturita la prima coscienza dell’identità nazionale, hanno riaffermato con convinzione l’impegno educativo della Chiesa, orizzonte che abbraccia i suoi diversi ambiti di azione nel Paese.
In tale prospettiva, alla luce degli Orientamenti pastorali per il decennio, hanno individuato il tema principale della prossima Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, che si terrà a Roma dal 23 al 27 maggio 2011: “Introdurre e accompagnare all’incontro con Cristo nella comunità ecclesiale: soggetti e metodi dell’educazione alla fede”, e hanno tratteggiato le linee di approfondimento della tematica educativa nel corso del decennio.
            È stato presentata e discussa la bozza del documento conclusivo della 46a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, celebrata a Reggio Calabria dal 14 al 17 ottobre scorso. Il testo sarà pubblicato nelle prossime settimane a firma del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali. Nel medesimo contesto, i Vescovi si sono confrontati sulle scuole e le esperienze di formazione socio-politica di ispirazione cattolica e sulle prospettive di un loro sviluppo.
            Ampio spazio è stato dedicato al confronto sulla formazione umana, spirituale e teologica offerta nei circa cento seminari maggiori esistenti in Italia: è stata una preziosa occasione di condivisione su un tema cruciale per la vita e il futuro delle comunità ecclesiali.
            Il Consiglio Permanente ha approvato i nuovi parametri per l’edilizia di culto per il 2011 e il Messaggio d’invito al XXV Congresso Eucaristico Nazionale, che si terrà proprio ad Ancona dal 3 all’11 settembre prossimi, per accompagnare il cammino di preparazione delle diocesi italiane a tale importante appuntamento.

1. Una prolusione condivisa

Una forte unità di giudizio da parte dei membri del Consiglio Permanente è emersa nell’articolato dibattito seguito alla prolusione del Cardinale Presidente. Si è registrata in tutti gli interventi una profonda condivisione del tono e ancor prima dei contenuti del suo intervento.
I Vescovi hanno apprezzato la pacatezza, la profondità e l’equilibrio di una lettura della realtà né reticente né aggressiva, e nel contempo capace di dar conto del disagio morale che serpeggia nel nostro Paese. In particolare – è stato rilevato – la posizione espressa dal Cardinale Presidente ha saputo tener conto della complessità dei fattori in gioco, senza prestarsi a interpretazioni di parte e riconducendo la questione a un livello culturale ed etico che chiama in causa la responsabilità di tutti, in particolare di quanti hanno maggiori responsabilità in vista del bene comune.
I Vescovi hanno anche condiviso l’apertura al futuro che ha connotato l’intervento del Cardinale Presidente, soprattutto laddove egli ha rilanciato come un’opportunità la sfida educativa, rappresentata in primo luogo dal mondo giovanile. Proprio questa dimensione – è stato ribadito – necessita di venir assecondata e orientata dalla società intera, che dovrà essere sempre più “comunità educante”, e dalla comunità cristiana nel suo sforzo evangelizzatore, per superare quel cinismo e quel disincanto che sempre più si fanno strada nelle pieghe del sentire comune.

2. Il decennio sull’educazione: obiettivi e priorità

 In vista della programmazione del decennio alla luce degli Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano, Educare alla vita buona del Vangelo, i Vescovi hanno fatto tesoro delle indicazioni emerse dai gruppi di studio dell’Assemblea Generale tenuta ad Assisi nel novembre scorso, circa gli obiettivi e le priorità su cui investire. Il confronto ha permesso di rivisitare i momenti salienti dell’azione educativa delle comunità ecclesiali, in vista di un nuovo slancio della loro missione evangelizzatrice. Si tratta, è stato sottolineato, di adattare l’ideale al reale, senza rinunciare a far tendere quest’ultimo all’ideale. Concentrandosi sulle attività direttamente indirizzate all’educazione della persona, i Vescovi hanno portato l’attenzione sull’iniziazione cristiana, la catechesi, la pastorale giovanile, l’insegnamento della religione cattolica, la formazione iniziale e permanente dei presbiteri e degli operatori pastorali, la preparazione al matrimonio, la formazione permanente degli adulti e quella all’impegno sociale e politico.
È emersa la consapevolezza che l’iniziazione cristiana dei bambini e dei ragazzi costituisce una chiave di accesso a una realtà pastorale più ampia, che abbraccia in primo luogo i genitori e le famiglie.
Alla luce di queste considerazioni, è stato definito il tema principale della prossima Assemblea Generale, che si svolgerà a Roma dal 23 al 27 maggio: “Introdurre e accompagnare all’incontro con Cristo nella comunità ecclesiale: soggetti e metodi dell’educazione alla fede”.
Guardando al decennio nel suo insieme, si è deciso di dedicarne la prima metà l’approfondimento tematico intorno al tema “Comunità cristiana ed educazione alla fede”, mentre la seconda parte sarà dedicata al tema “Comunità cristiana e città”. A fare da spartiacque quasi tra le due fasi, si porrà il Convegno ecclesiale nazionale di metà decennio. Sin da ora si è deciso di demandare alla Presidenza la costituzione di un gruppo di lavoro con il compito di avviare la riflessione sul Convegno nazionale. 

3. Sale e luce: il documento conclusivo 46a della Settimana Sociale

Nelle prossime settimane sarà pubblicato, a cura del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani, il documento conclusivo della 46a Settimana Sociale, celebrata a Reggio Calabria dal 14 al 17 ottobre scorso.
            La bozza del documento è stata esaminata dal Consiglio Permanente, che ne ha autorizzato la pubblicazione. Tra i motivi di speranza evidenziati in esso, vi è anzitutto l’esperienza di quanti hanno condiviso la volontà e l’impegno di adoperarsi per il conseguimento del bene comune, ponendo l’amore cristiano a fondamento del loro essere e del loro agire. Sono persone attente a promuovere una cultura dell’uomo, della vita e della famiglia, quale fonte di autentico sviluppo. Per loro la fede cristiana è chiave di lettura della storia e via di conoscenza sapienziale e costruttiva.
            Il documento riconduce la questione sociale alla questione antropologica nella sua integralità e la declina riprendendo le sessioni tematiche della Settimana Sociale: intraprendere (ambito nel quale la crisi economica è stata analizzata e ricondotta alle sue cause più profonde); educare (dove si ribadisce la centralità del ruolo dell’adulto e l’importanza di strumenti con cui sostenere famiglia e scuola e dove non manca una lettura della realtà giovanile, colta quale risorsa che chiede di trovare uno sbocco); includere (con attenzione al fenomeno migratorio, ai percorsi di cittadinanza e alle condizioni dei rifugiati); slegare (valorizzando le opportunità che ciascuno può offrire, come anche le opportunità del mercato, all’interno di un nuovo patto sociale); completare la transizione istituzionale (evitando di escludere i giovani, i poveri e i non qualificati, come pure di snaturare l’impianto della Costituzione).
            I Vescovi, in particolare, hanno sottolineato l’importanza di promuovere il volontariato in tutte le sue forme; la necessità di declinare il tema del federalismo alla luce dei principi di sussidiarietà e di solidarietà; l’importanza di additare figure emblematiche nell’impegno impegno sociale, quali Giuseppe Toniolo e don Pino Puglisi.
            In questa prospettiva, i Vescovi hanno condotto anche un’articolata riflessione sulle scuole e le esperienze di formazione all’impegno sociale e politico presenti sul territorio. Le motivazioni che le hanno originate e la loro ampia diffusione negli anni Ottanta hanno contribuito a far conoscere e apprezzare la dottrina sociale della Chiesa e a sensibilizzare alla partecipazione democratica alla vita del Paese. Nel contesto della prospettiva educativa e in sintonia con il costante richiamo del Santo Padre Benedetto XVI all’impegno dei cattolici a essere ovunque luce e sale, è stata riaffermata l’importanza dell’azione di formazione delle coscienze, attraverso il veicolo di una cultura politica che, nel mutare dei tempi, aspiri alla ricerca del bene comune. Si intendono, perciò, sostenere le diocesi che hanno avviato tali luoghi formativi e incoraggiare chi è disponibile a suscitarne di nuovi.

4. La formazione dei futuri presbiteri

Il Consiglio Episcopale Permanente si è ampiamente soffermato sulla situazione dei circa cento seminari maggiori presenti in Italia e destinati alla formazione dei futuri presbiteri. Si tratta di soggetti spesso diversi fra loro per età, percorsi di studio, provenienze ed esperienze pregresse. Come è naturale, essi condividono le risorse e le fragilità che caratterizzano i loro coetanei. Curarne la formazione significa anzitutto evitare un approccio meramente funzionale al ministero, riconducendo la figura del sacerdote alla sua radice sacramentale e combinando opportunamente la crescita umana, spirituale e intellettuale dei candidati. Affinché l’essere prete non si riduca a un atteggiamento esteriore, ma sia una forma mentis in grado di caratterizzare tutta l’esistenza, i Vescovi avvertono la necessità di un cammino di fede adeguato al profilo sacerdotale, unito a un’affettività matura e equilibrata. Sono queste le condizioni irrinunciabili per vivere con serenità l’appartenenza alla communio presbiterale, per un’obbedienza non formale alla Chiesa nella persona del proprio Vescovo, per impostare relazioni adulte con i laici e per non soccombere di fronte alle inevitabili difficoltà dell’esperienza pastorale. La responsabilità primaria di assicurare la qualità dei preti di domani richiede a ogni diocesi l’investimento di adeguate risorse nella formazione dei formatori dei seminari, perché siano all’altezza del compito che la Chiesa affida loro.
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Il Grande Fratello va chiuso

L'articolo 21 della Costituzione Italiana, al settimo comma recita: "Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume".
Penso che basti questo per capire che il problema Grande Fratello trascende l'aspetto religioso, seppur esso è il più violato dalla trasmissione. Le continue bestemmie, che avevamo ampiamente commentato in articoli precedenti, hanno persino spinto il quotidiano Avvenire a questo invito esplicito: "Chiudete il Grande Fratello": "Non ci sono più alibi. Non ci sono più scuse. Il «Grande fratello» è arrivato a fine corsa."
Come non condividere quest'invito? E' sotto gli occhi di tutti la deriva morale rappresentata da questa trasmissione che quotidianamente propina modelli per i più giovani, assolutamente volgari e sbagliati. Se l'Italia vuole riconquistare l'onore e il prestigio che la contraddistinguevano tempo fa, devi cominciare dal basso, attraverso un'opera di educazione ai valori civili, morali e al buon costume. Proprio quel buon costume profondamente violato negli ultimi tempi, con comportamenti al limite della decenza (se di decenza si può ancora parlare).

Ora, a quest'invito cristiano, se ne affiancano altri, provenienti da persone dello spettacolo disgustate dal trend di questo format: dall'associazione di consumatori Adoc a Renzo Arbore, da Paolo Limiti ad Albano Carrisi. L'Adoc definisce il format  in aperta violazione dell'articolo 21 della costituzione, cioè "il divieto di spettacoli contrari al buon costume".
Renzo Arbore  dichiara: "Condanno queste terribili bestemmie" dice "anche perché sono una mancanza di rispetto per tutto il pubblico non solo quello cattolico. Non bisogna offendere nessuna religione". Continua poi così: "Purtroppo gli addetti ai lavori mi spiegano che ogni volta che c'è una parolaccia l'audience sale. Tutta questa idolatria verso l'ascolto non mi piace affatto, capisco le ragioni di vendere la pubblicità ma qui si è toccato il fondo, è una vergogna". 
Anche Carlo Conti la pensa così: "Occorre sottolineare la gravità di questi episodi. La tv ha le sue responsabilità e dovrebbe evitare di far passare messaggi sbagliati soprattutto ai giovani: come se fosse normale offendere gli altri".

Per Limiti è il formar stesso del Grande Fratello ad aver fatto il suo tempo: "Ormai per attirare interesse si è andati alla deriva nella volgarità".
 Massimo Giletti sostiene di essere stato tra i primi a denunciare la deriva dei reality, come il Grande Fratello o L'isola dei famosi. Infine Al Bano: "Il Grande Fatello è un programma che non deve stare in tv. E' troppo volgare, di una volgarità ammaestrata, squallida". 

Queste opinioni provenienti dal mondo dello spettacolo, dimostrano che anche tra gli addetti ai lavori c'è insofferenza verso questo reality che possiamo ritenere uno dei fenomeni che sta contribuendo alla volgarizzazione della televisione e alla diseducazione del mondo giovanile, sempre più propenso a cercar il lavoro "facile", sdegnando il lavoro serio svolto da un comune mortale. 
La domanda è se si vuole privilegiare l'aspetto educativo oppure, come sempre, l'aspetto prettamente economico. Conoscendo le persone "dietro le quinte", propendiamo con dispiacere per la seconda risposta. 

(N.B. Il contenuto delle interviste è de ilsussidiario.net)
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sabato 29 gennaio 2011

La Chiesa nel mondo contemporaneo - VII parte

Continuiamo il nostro cammino di lettura della Costituzione Pastorale "Gaudiem et spes" di Papa Paolo VI. Siamo ancora nella parte in cui Paolo VI tenta di rispondere ai quesiti più importanti della vita sociale e cioè chi è l'uomo e qual è la sua dimensione all'interno della società e dell'universo. Oggi vediamo la dimensione immateriale dell'uomo costituita dalla sua intelligenza e dalla sua coscienza. L'intelligenza è partecipazione della mente umana alla Luce della mente di Dio ed è tramite essa che l'uomo riesce davvero a formarsi, giungendo ad indagare ciò che lo circonda ed ad indagare la sua natura su questa terra. Nessuno dubita del valore fondamentale rappresentato dall'intelligenza, dalla sapienza, capace di portare il mondo ad evolversi in maniera incredibile. Purtroppo quest'evoluzione socio-tecnologica non è stata sempre supportata dall'apporto della coscienza: la coscienza è la parte più intima dell'uomo, si può definire come la Voce di Dio che aiuta nel discernimento quotidiano tra bene e male. Paolo VI rileva quanto poco ascolto l'uomo abbia dato alla coscienza nell'evoluzione: e molto probabilmente è stata questa mancanza a costruire gli aspetti negativi dello sviluppo che si stanno ripercuotendo ancora oggi, soprattutto sulle popolazione più deboli. Se l'uomo avesse combinato intelligenza e coscienza, avremmo sicuramente avuto uno sviluppo molto più lineare, più equo, meno discriminatorio e meno sfruttatore. Pur sapendo che il gioco dei sé è fine a sé stesso, siamo certi che un futuro accompagnato dall'ascolto di una coscienza morale universalmente riconosciuta, potrà essere la base per un nuovo sviluppo umano, maggiormente attento alle fasce deboli e alle questioni etiche più delicate. Proseguiamo dunque con la prosecuzione del primo capitolo:

CAPITOLO I

LA DIGNITÀ DELLA PERSONA UMANA

15. Dignità dell'intelligenza, verità e saggezza.

L'uomo ha ragione di ritenersi superiore a tutto l'universo delle cose, a motivo della sua intelligenza, con cui partecipa della luce della mente di Dio.

Con l'esercizio appassionato dell'ingegno lungo i secoli egli ha fatto certamente dei progressi nelle scienze empiriche, nelle tecniche e nelle discipline liberali Nell'epoca nostra, poi, ha conseguito successi notevoli particolarmente nella investigazione e nel dominio del mondo materiale.

E tuttavia egli ha sempre cercato e trovato una verità più profonda.

L'intelligenza, infatti, non si restringe all'ambito dei soli fenomeni, ma può conquistare con vera certezza la realtà intelligibile, anche se, per conseguenza del peccato, si trova in parte oscurata e debilitata. Infine, la natura intelligente della persona umana può e deve raggiungere la perfezione. Questa mediante la sapienza attrae con dolcezza la mente a cercare e ad amare il vero e il bene; l'uomo che se ne nutre è condotto attraverso il visibile all'invisibile.

L'epoca nostra, più ancora che i secoli passati, ha bisogno di questa sapienza per umanizzare tutte le sue nuove scoperte. È in pericolo, di fatto, il futuro del mondo, a meno che non vengano suscitati uomini più saggi. Inoltre va notato come molte nazioni, economicamente più povere rispetto ad altre, ma più ricche di saggezza, potranno aiutare potentemente le altre.

Col dono, poi, dello Spirito Santo, l'uomo può arrivare nella fede a contemplare e a gustare il mistero del piano divino (16).

16. Dignità della coscienza morale.

Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell'intimità del cuore: fa questo, evita quest'altro.

L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato (17). La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità (18).

Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell'amore di Dio e del prossimo (19). Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità.

Ma ciò non si può dire quando l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato.

17. Grandezza della libertà.

Ma l'uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà.

I nostri contemporanei stimano grandemente e perseguono con ardore tale libertà, e a ragione. Spesso però la coltivano in modo sbagliato quasi sia lecito tutto quel che piace, compreso il male.

La vera libertà, invece, è nell'uomo un segno privilegiato dell'immagine divina.

Dio volle, infatti, lasciare l'uomo « in mano al suo consiglio » (20) che cerchi spontaneamente il suo Creatore e giunga liberamente, aderendo a lui, alla piena e beata perfezione.

Perciò la dignità dell'uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e determinato da convinzioni personali, e non per un cieco impulso istintivo o per mera coazione esterna. L'uomo perviene a tale dignità quando, liberandosi da ogni schiavitù di passioni, tende al suo fine mediante la scelta libera del bene e se ne procura con la sua diligente iniziativa i mezzi convenienti. Questa ordinazione verso Dio, la libertà dell'uomo, realmente ferita dal peccato, non può renderla effettiva in pieno se non mediante l'aiuto della grazia divina.

Ogni singolo uomo, poi, dovrà rendere conto della propria vita davanti al tribunale di Dio, per tutto quel che avrà fatto di bene e di male (21).
 
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Approvata mozione in difesa della libertà di religione

Nel passato vi abbiamo mostrato i segni della persecuzione che i nostri fratelli cristiani stanno subendo soprattutto nelle terre medio-orientali. Oggi vi vogliamo aggiornare sulla risposta che le istituzioni europee stanno finalmente dando per tentare di difendere la libertà di religione in quelle terre che conoscono solo il dominio e la violenza. Prima c'è stato un intervento dell'Europarlamento e l'altro giorno abbiamo finalmente avuto una netta presa di posizione del Consiglio d'Europa che ha votato quasi all'unanimità la mozione in favore della libertà religiosa. Si registrano purtroppo anche dei voti contrari che mostrano certamente come ci sia ancora chi non ha compreso che la libertà di religione è la base di ogni relazione pacifica. Non si tratta solo di tutelare i cristiani, ma di tutelare tutti coloro che professano liberamente la propria fede. Non si può, nel 2011, continuare a reprimere con la violenza i credi altrui e le professioni di religione. Dunque finalmente una giusta iniziativa da parte delle istituzioni che approfondiamo tramite una parte dell'articolo di Avvenire:

L’assemblea del Consiglio d’Europa si schiera a grandissima maggioranza nel condannare le violenze contro i cristiani in Medio Oriente e nell’auspicare precise iniziative in loro difesa: chiede ai governi europei un elenco di misure contro i Paesi che «deliberatamente non tutelano la libertà di religione, compresa la libertà di cambiare la propria»; li invita a istituire un «organismo permanente di vigilanza» e a varare «d’urgenza» una vera «strategia» di difesa di questo elemento essenziale dei diritti dell’uomo; li incita a tenere conto del problema con una «clausola di democrazia» quando negoziano o gestiscono accordi di cooperazione.
La risoluzione infatti invita i governi a tener ben presente che «se non vengono adeguatamente affrontati i problemi della bassa natalità e dell’emigrazione, aggravati in alcune zone dalla discriminazione e dalle persecuzioni, le comunità cristiane rischiano di sparire dal Medio Oriente, regione nella quale ha avuto origine il cristianesimo». D’altro canto, si legge testo, «la scomparsa delle comunità cristiane dal Levante metterebbe in pericolo anche l’islam perché sarebbe un segnale di vittoria del fondamentalismo».
Nel ricordare che il 75% delle violenze anti-religiose sono patite dai cristiani, il documento cita i massacri di fedeli nella cattedrale cattolica siriana di Baghdad e in una chiesa copta di Alessandria d’Egitto come «eventi particolarmente tragici» in una catena di «attacchi contro le comunità cristiane che si stanno moltiplicando in tutto il mondo».

Tra i primi a commentare il voto, il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione ha detto che «cominciamo a passare dalle parole ai fatti» e ha constatato che, grazie al Ppe, l’Europa riconosce la «centralità di questo problema impegnando i Paesi membri ad agire concretamente». Per le senatrici Idv, Patrizia Bugnano e Giuliana Carlino, l’importanza del testo «sta nel riaffermare che lo sviluppo dei diritti umani, della democrazia e delle libertà civili deve essere la base comune per tutte le relazioni internazionali»

La delegazione turca ha votato contro dopo aver tentato inutilmente di far eliminare un paragrafo che invita Ankara a «chiarire appieno le circostanze» dell’interruzione di Messe di Natale nel Nord di Cipro e di far processare i responsabili. «Chi mi conosce sa quanto io apprezzi gli sforzi che si stanno facendo in Turchia – ha commentato Volontè – e mi dispiace che i colleghi turchi abbiano votato in questo modo: quel paragrafo non era un attacco ma piuttosto un incoraggiamento da cogliere in positivo ma purtroppo così non è stato».

Franco Serra
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venerdì 28 gennaio 2011

La rivolta che unisce cristiani e mussulmani

In molti Paesi si sta diffondendo aria di rivolta: la gente sembra stanca di pagare la crisi economica creata da altri e allo stesso modo è stanca delle corruzioni, delle pratiche di regime e della politica inesistente. Ma ciò che oggi ci interessa maggiormente è vedere mussulmani e cristiani insieme. La rivolta egiziana, che purtroppo ha provocato una risposta molto dura da parte del regime di Mubarak, sembra, infatti, aver unito cristiani e mussulmani:

Il Cairo (AsiaNews) – Oggi, subito dopo la preghiera musulmana del venerdì, in diverse zone della capitale si sono formate manifestazioni contro il governo egiziano. Ma le dimostrazioni che scuotono il regime non hanno carattere confessionale. Esse nascono dalle piaghe che tutti, cristiani e musulmani, devono sopportare: prezzi cresciuti fino a 50 volte; salari senza valore; miseria, fame, mancanza di medicine e cure mediche; anzi, questa crisi colpisce i cristiani ancora di più, a causa dell’emarginazione a cui sono soggetti. È il quadro che racconta un sacerdote copto , Boulos Garas (non il suo vero nome, per motivi di sicurezza) ad AsiaNews. P. Boulos sottolinea anche i problemi politici del Paese, con una quasi-dinastia che dura da 30 anni e un parlamento senza opposizione. Le prospettive sono ancora oscure, ma è importante che i Paesi amici dell’Egitto spingano il governo a fare le riforme necessarie. Senza timore di “intromettersi negli affari interni”, perché è in gioco la dignità dell’uomo. Ecco l’intervista completa a p. Boulos.

Chi sono quelli che manifestano?

Nelle manifestazioni che ingrossano le strade del Cairo e di altre città dell’Egitto, cristiani e musulmani sono uniti. Per le dimostrazioni i luoghi di ritrovo e di raduno sono chiese e moschee. Ciò che spinge la gente a sollevarsi non è un problema religioso, ma di giustizia sociale: la corruzione, il carovita, la mancanza di democrazia... Queste piaghe toccano tutti quanti, cristiani e musulmani.
Il problema più urgente è il carovita. Per fare un esempio, il pane costa 5 piastre, ma è immangiabile. Per un pane “umano”, da mangiare, occorrono 25 piastre. Un chilo di zucchero, che era a 50 piastre (0,5 lire egiziane), ora ha raggiunto il prezzo di 5 lire egiziane. I prezzi aumentano fino a 50 volte, e i salari sono aumentati solo del 10%. Vi è tanta gente che non riesce nemmeno a curarsi per il costo alto delle medicine. Conosco malati che si lasciano morire perché non hanno i soldi per comprare le medicine o farsi operare. La povertà è sentita più nelle città. Nei villaggi i contadini si accontentano di poco; nelle città invece, oltre alla disoccupazione, vi sono i prezzi troppo alti. Ogni mattina si vedono persone che rovistano fra i rifiuti in cerca di qualcosa da mangiare.
Purtroppo, almeno per ora, le manifestazioni sono poco organizzate: c’è sì un movimento di popolo, ma senza leader, se non quelli locali. Anche l’opposizione – i Fratelli musulmani – è divisa. Tutto questo rende difficile fare delle previsioni su come andrà a finire. L’ondata aumenta però di giorno in giorno, come oggi, dopo la preghiera del venerdì.

C’è un’influenza islamica in queste rivolte?

In Tunisia – da cui è partito questo “effetto domino” - le rivolte sono avvenute in modo “laico”, senza riferimento alla fede e alla preghiera islamica. Qui in Egitto c’è anche un legame con la moschea e con la religione. Ma la Tunisia è un Paese laico da 60 anni; qui siamo in un Paese dove l’Islam – per costituzione - è la religione ufficiale. Ma nelle rivolte non c’è alcuna rivendicazione islamica. É il popolo che sente il peso della vita, della corruzione economica. D’altra parte, qui i leader religiosi sono pagati dallo Stato e quindi spesso devono dire quello che il governo vuole.

Che futuro hanno queste manifestazioni?

La gente vuole una riforma generale: politica, economica, sociale perché non si può continuare così.
Per ora non è possibile oracoli o profezie: nessuno sa verso quali prospettive ci dirigiamo. L’unica cosa certa è che è necessario cambiare questo sistema che si è ossificato negli ultimi 30 anni. Pensi che nelle ultime elezioni parlamentari, su oltre 400 legislatori, solo uno è dell’opposizione, gli altri sono tutti del partito di Mubarak. E questa è democrazia?
Abbiamo qualche piccola speranza in Muhammad El Baradei, l’ex capo dell’Aieia [l’ente nuclare dell’Onu] che è stato all’estero e non è coinvolto nelle beghe locali. Ma una persona sola non è sufficiente per garantire i cambiamenti necessari.

Vi sono preoccupazioni verso i cristiani?

In questo momento le manifestazioni non sono contro i cristiani. Il patriarca Shenouda ha invitato alla calma. Ma molti, cristiani e non, gli hanno risposto: Non è questo il momento di essere calmi, perché anche i cristiani sono colpiti dalla crisi. Anzi, per i cristiani la crisi economica è ancora più forte: poiché essi sono discriminati, fanno più fatica a trovare un lavoro; nelle promozioni, un impiegato più giovane, musulmano, lo scavalca nella carriera; se un cristiano ha un negozio, da lui va meno gente.

L’occidente è implicato o sta a guardare?

La situazione è molto difficile. Noi speriamo che i Paesi amici dell’Egitto possano influenzare il governo per varare alcune riforme urgenti. Forse in occidente non si ha voglia di “intervenire negli affari interni” di un altro Stato. Ma qui non è un problema di “affari interni”: c’è di mezzo la dignità umana di ogni egiziano.
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Divisioni

Da qualche tempo come ormai sappiamo, aleggia nelle sedi politiche non più la concordia, ma la divisone proposta dall'arroganza di elementi chiaramente disinteressati allo scenario di precarietà dell'Italia. Dai partiti si alza vicendevolmente una parola: "dimettiti". E' una situazione rovente nella quale i capo partiti si attaccano attraverso le esposizioni di vita privata dell'avversario come per esempio presunti appartamenti comprati con i soldi del partito, presunte donne di malaffare a domicilio. Insomma, con una situazione così è urgente cambiare rotta, verso la rotta della condivisione, dell'unione e della vita onesta praticata da ciascun individuo chiamato ad impegnarsi per il benessere del popolo.


Oggi a tutti questi disordini risponde un uomo concreto e coerente con il Vangelo, mons. Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei) e lo fa con parole assennate, parole che dovrebbero uscire dalla bocca dei nostri politici:


“Dobbiamo concorrere a mantenere questa pacatezza e questo equilibrio di giudizio, perché non si compiano passi sulla spinta di atteggiamenti non ponderati adeguatamente. Una delle cose che più manca in questo momento - e a tanti livelli - è quella serenità che fa vedere lucidamente le cose, per capire che cosa fare”.


Dice poi sulle minacce del federalismo:


“L’ambito fiscale è un ambito in cui questo rischia di produrre degli effetti di divaricazione. Noi auspichiamo che il dibattito, che si sta svolgendo proprio in questi giorni, riesca ad ottenere un risultato che non lasci nessuna parte del Paese - diciamo così - abbandonata a se stessa”.


Ci auguriamo che d'ora in avanti la politica porga l'orecchio a uomini intelligenti di Chiesa e ascolti i consigli che le vengono dati, allora potremmo cominciare a vedere qualche buon risultato.
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giovedì 27 gennaio 2011

La piaga della mafia - Riflessioni di Paolo Borsellino

 Nel nostro appuntamento settimanale contro la mafia, torniamo a parlare di Paolo Borsellino. Abbiamo visto la sua storia, abbiamo visto il suo coraggio e la forza dell'esempio che egli rappresenta. Ma è giusto ascoltare i suoi insegnamenti, ascoltare le parole dettate dall'esperienza vissuta. I suoi discorsi sono tutti di grande importanza, alcuni anche profetici. In particolar modo, basti pensare ai discorsi sulle collusioni tra mafia e politica. Proprio su questo ci soffermeremo settimana prossima mentre oggi ci limitiamo a leggere alcune osservazioni e riflessioni storiche che hanno dato l'impulso a quella rivoluzione socio-culturale, soprattutto giovanile, ancora in atto. Nonostante questo, però, la situazione è ancora difficile perchè l'omertà è pressante, le collusioni sempre più diffuse e la mafia sempre più silenziosa. Speriamo che l'eco di queste parole possa sortire l'effetto di una maggior partecipazione a questo processo rivoluzionario a cui si spera, possa partecipare anche lo Stato, oltre i proclami e le propagande: 


“Se la gioventù le negherà il consenso anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”.
“Davanti alle difficoltà non bisogna arrendersi. Al contrario devono stimolarci a fare sempre di più e meglio, a superare gli ostacoli per raggiungere i risultati che ci siamo prefissati”.
“Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”.
“La lotta alla mafia deve essere un movimento culturale e morale che coinvolga tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità, quindi complicità”.
“La paura è normale che ci sia, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti”.
“Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”. “È bello morire per ciò in cui si crede. Chi ha paura muore ogni giorno, chi ha coraggio muore una volta sola”.
"Ti dico solo che loro possono uccidere il mio corpo fisico e di questo sono ben cosciente. Ma sono ancora più cosciente che non potranno mai uccidere le mie idee e tutto ciò in cui credo! Si erano illusi che uccidendo il mio amico Giovanni, avrebbero anche ucciso le sue idee e quel gran patrimonio di valori che stava dietro a lui. Ma si sono sbagliati, perché il mio amico Giovanni tutto ciò che amava e onorava, lo amava così profondamente da legarselo nel suo animo, rendendolo dunque immortale”.

“Devo fare in fretta perché adesso tocca a me”.

“I giovani e la mafia? È un problema di cultura, non in senso restrittivo e puramente nozionistico, ma come insieme di conoscenze che contribuiscono alla crescita della persona. Fra queste conoscenze vi sono quei sentimenti, quelle sensazioni che la cultura crea e che ci fanno diventare cittadini, apprendendo quelle nozioni che ci aiutano a identificarci nelle Istituzioni fondamentali della vita associativa e a riconoscerci in essa”.

“Purtroppo i giudici possono agire solo in parte nella lotta alla mafia. Se la mafia è un Istituzione antistato che attira consensi perché ritenuta più efficace dello Stato, è compito della scuola rovesciare questo processo perverso formando giovani alla cultura dello Stato e delle Istituzioni”.

“Sono ottimista perché vedo che verso di essa (la mafia, ndr) i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarantanni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta”.
“La maggior parte della gente rispetta le leggi dello Stato non perché le tema, non perché tema la sanzione penale o civile che sia, lo fa perché ritiene che sia giusto non uccidere o non sorpassare in curva. E se così non fosse, cioè se la gente rispettasse le leggi solo perché le teme, non basterebbero tanti carabinieri per il numero di persone che ci sono nel nostro paese; la maggior parte di noi rispetta le leggi perché SENTE il dovere di osservarle”.
“Tanto più il cittadino si sente parte integrante dello Stato, con tutte le sue ramificazioni di Regione, Comune e Provincia, tanto più sente il dovere di rispettare le leggi”.
“Questo è ciò che accaduto storicamente nel Meridione d’Italia, dove il cittadino si è sentito estraneo allo Stato; non ha sentito l’impulso istintivo a rispettare le leggi. Ciò è accaduto principalmente nelle tre grandi regioni del sud: Campania, Calabria e Sicilia, dove si è venuta a creare una vera e propria disaffezione verso lo Stato e le sue leggi”.
“Questo è il motivo della nascita delle grandi organizzazioni criminali che conosciamo come Camorra e Mafia.”. “Perché?”
“Perché ci sono i bisogni che il cittadino chiede, quelli economici, quelli sociali, i bisogni di sicurezza, che il cittadino chiede gli siano assicurati dalla Stato in tutte le sue articolazioni regionali, comunali e provinciali; quando il cittadino non si identifica più nello Stato, quando non ha più fiducia in quest’ultimo, cerca di trovare dei surrogati. L’errore è pensare che la mafiaabbia colmato il mancato sviluppo economico di queste parti disagiate del paese, quindi sbagliamo se crediamo di risolvere il problema inviando più risorse economiche in quelle zone. Lo Stato ha sì il dovere di sostenere le zone con ampie sacche di disoccupazione, di emarginazione e di miseria, ma se non capterà la fiducia dei cittadini sull’imparziale ed equa distribuzione delle risorse, le organizzazioni sfrutteranno questo profluvio di risorse per meglio lucrare. L’esempio è che quando in Sicilia arrivano delle risorse dallo Stato centrale, la prima cosa che si pensa è che queste verranno spartite dalla mafia”.
“Se queste sono le ragioni di fondo della nascita e dello sviluppo della mafia, non illudiamoci che le azioni giudiziarie da sole, possano fare piazza pulita dell’intero fenomeno. Potermo prendere questo o quel capo-mafia potremo accertarne la colpevolezza, ma se non andremo a fondo nel problema,alla radice, la mafia si ripresenterà sempre più forte di prima: abbiamo tutti assistito al grande clamore intorno al maxiprocesso di Paleremo, ma finito quello, eravamo punto e a capo”.
“Quando un’azione è soltanto giudiziaria e repressiva, ma non incide sulle cause del fenomeno è chiaro che non è efficace”.
“Vi è stata una delega totale ed inammissibile nei confronti della magistratura e della forze dell’ordine ad occuparsi essi solo del problema della mafia. Lo Stato non ha fatto nulla per creare le condizioni per una migliore amministrazione , per esempio, della giustizia civile, alla quale il cittadino si rivolge per piccoli fatti o piccole cause civili; un processo civile dura non meno di dieci anni”.
“Infine c’è l’equivoco di fondo: si dice che quel politico era vicino alla mafia, che quel politico era stato accusato di avere interessi convergenti con la mafia, però la magistratura, non potendone accertare le prove, non l’ha condannato, ergo quell’uomo è onesto. …e no!”
“Quanti di voi conoscono qualcuno che seppure mai condannato sanno che non è uomo onesto?”
“Questo discorso non va, perché la magistratura può fare solo un accertamento giudiziale, può dire, beh, ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest’uomo è un mafioso”:
“Però i consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarne le dovute conseguenze da certe vicinanze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella gestione della cosa pubblica”.
“Ci si è nascosti dietro lo schema della sentenza, cioè quest’uomo non è stato condannato quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto!” “Questo dovrebbe spingere i partiti a fare pulizia al proprio interno”.

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Mai più la violenza umili la dignità dell'uomo

Anche noi della Vigna del Signore oggi ricordiamo i terribili avvenimenti causati dall'odio nazista, per far sentire la nostra vicinanza ai nostri fratelli ebrei. Il dolore causato da quel terribile eccidio, talmente è immenso che non si può descrivere né immaginare. Lo conoscono benissimo invece quanti hanno vissuto in prima persona quelle terribile giornate inghiottite dall'odio umano. L'uomo può diventare simile ad angeli se ama fino in fondo o simili a demoni se odia profondamente come nel caso dei nazisti. Chi nega quei terribili fatti vuol dire che non ha capito nulla, vuol dire che condivide lo stesso odio che colmava il cuore di Hitler. Non si può dimenticare né rinnegare quanto accaduto, ma è dovere di ogni cittadino del mondo ricordare perché simili cose non accadano mai più.


Pubblichiamo di seguito un articolo dal sito italiano di Radio Vaticana:


Benedetto XVI e le sue parole sulla Shoah: mai più la violenza umili la dignità dell’uomo



Ricorre oggi la Giornata internazionale in memoria delle vittime della Shoah, adottata nel 2005 dalle Nazioni Unite. Benedetto XVI è intervenuto più volte su questa tragedia che ha segnato la storia del XX secolo. Storiche e commoventi, inoltre, le visite del Papa al campo di sterminio di Auschwitz nel 2006 e al Memoriale dello Yad Vashem a Gerusalemme, nel 2009. Il servizio di Alessandro Gisotti:

“La Shoah induca l’umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell’uomo”: è uno dei tanti pensieri che Benedetto XVI ha dedicato allo sterminio degli ebrei per mano dei nazisti. Intensa e memorabile la visita del Papa ad Auschwitz, al culmine del suo viaggio apostolico in Polonia, nel maggio del 2006:


“Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l'uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile – ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio: un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto?” (Visita ad Auschwitz-Birkenau, 28 maggio 2006)


“Non potevo non venire qui”, afferma il Papa commosso. “Era – soggiunge – ed è un dovere di fronte alla verità e al diritto di quanti hanno sofferto, un dovere davanti a Dio, di essere qui come successore di Giovanni Paolo II e come figlio del popolo tedesco”. Il Pontefice sottolinea quindi che con la distruzione degli ebrei, i nazisti volevano edificare un mondo senza Dio: 


“I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall'elenco dei popoli della terra. Allora le parole del Salmo: ‘Siamo messi a morte, stimati come pecore da macello’ si verificarono in modo terribile. In fondo, quei criminali violenti, con l'annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell'umanità che restano validi in eterno”. (Visita ad Auschwitz-Birkenau, 28 maggio 2006)


Della Giornata della Memoria, Benedetto XVI parla specificamente all’udienza generale del 28 gennaio 2009. Il Papa ribadisce che la Shoah è “monito contro l’oblio, contra la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti”:


"La Shoah insegna specialmente, sia alle vecchie sia alle nuove generazioni, che solo il faticoso cammino dell’ascolto e del dialogo, dell’amore e del perdono conduce i popoli, le culture e le religioni del mondo all’auspicato traguardo della fraternità e della pace nella verità. Mai più la violenza umili la dignità dell’uomo!” (Udienza generale, 28 gennaio 2009)


Una violenza che Joseph Ratzinger ha visto con i suoi occhi. Il Papa ricorda l’inizio della furia nazista contro gli ebrei nella cosiddetta “Notte dei Cristalli” tra il 9 e il 10 novembre 1938:


“Ancora oggi provo dolore per quanto accadde in quella tragica circostanza, la cui memoria deve servire a far sì che simili orrori non si ripetano mai più e che ci si impegni, a tutti i livelli, contro ogni forma di antisemitismo e di discriminazione, educando soprattutto le giovani generazioni al rispetto e all’accoglienza reciproca”. (Angelus, 9 novembre 2008)


Negli ultimi due anni, Benedetto XVI compie due visite storiche in cui commemora i sei milioni di ebrei uccisi nella Shoah e ancora una volta rivolge un accorato appello a non dimenticare la tragedia dell’Olocausto. Nel maggio del 2009, durante il viaggio in Terra Santa, il Papa si reca allo Yad Vashem di Gerusalemme. I nomi di coloro che persero la vita nella Shoah, afferma al Memoriale dell’Olocausto, “sono stabilmente incisi nei cuori dei loro cari, dei loro compagni di prigionia e di quanti sono decisi a non permettere mai più che un simile orrore possa disonorare ancora l’umanità”. Quindi, il 17 gennaio dell’anno scorso, Benedetto XVI visita la Sinagoga di Roma e riconosce con rammarico che molti cattolici rimasero indifferenti al dramma della Shoah. Il Pontefice ribadisce l’irrevocabilità del cammino di amicizia tra ebrei e cattolici intrapreso col Concilio Vaticano II e chiede perdono per le sofferenze inflitte dai cristiani al popolo ebraico:


“La Chiesa non ha mancato di deplorare le mancanze di suoi figli e sue figlie, chiedendo perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo. Possano queste piaghe essere sanate per sempre!” (Visita alla Sinagoga di Roma, 17 gennaio 2010)

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mercoledì 26 gennaio 2011

Carità e Verità: Caritas in Veritate - VIII

Continuiamo la lettura della nuova Enciclica di Papa Benedetto XVI "Caritas in veritate". Al centro dell'attenzione oggi ci sono due temi fondamentali: il rispetto della vita e il rispetto della libertà religiosa. Papa Benedetto XVI traccia un quadro preoccupante comportato dallo sviluppo umano in relazione con il rispetto della vita, nelle sue varie forme. Si denuncia un forte e ingiustificato ricorso a pratiche contraccettive, a pratiche di aborto e persino a pratiche di sterilizzazioni e di controllo delle nascite. Il più delle volte queste cosiddette pratiche vengono imposte o attuate senza che il soggetto passivo sia a conoscenza di quanto sta avvenendo. Ecco la barbarie dell'epoca odierna, di una società che si autoproclama evoluta, ma che si trasforma in barbara ogni volta che ha a che fare con i popoli sottosviluppati. Predisporre politiche di controllo delle nascite e di diffusione di pratiche contraccettive è assurdo, ingiustificato e degno di un popolo barbaro e incivile, oltreché inumano.
L'altro aspetto fondamentale è il rispetto della libertà religiosa, sempre meno rispettata a causa anche dei popoli economicamente sviluppati che non esportano solo il progresso economico, ma anche un forte sottosviluppo morale: 

CAPITOLO SECONDO

LO SVILUPPO UMANO
NEL NOSTRO TEMPO

28. Uno degli aspetti più evidenti dello sviluppo odierno è l'importanza del tema del rispetto per la vita, che non può in alcun modo essere disgiunto dalle questioni relative allo sviluppo dei popoli. Si tratta di un aspetto che negli ultimi tempi sta assumendo una rilevanza sempre maggiore, obbligandoci ad allargare i concetti di povertà [66] e di sottosviluppo alle questioni collegate con l'accoglienza della vita, soprattutto là dove essa è in vario modo impedita.

Non solo la situazione di povertà provoca ancora in molte regioni alti tassi di mortalità infantile, ma perdurano in varie parti del mondo pratiche di controllo demografico da parte dei governi, che spesso diffondono la contraccezione e giungono a imporre anche l'aborto. Nei Paesi economicamente più sviluppati, le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato il costume e la prassi, contribuendo a diffondere una mentalità antinatalista che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale.

Alcune Organizzazioni non governative, poi, operano attivamente per la diffusione dell'aborto, promuovendo talvolta nei Paesi poveri l'adozione della pratica della sterilizzazione, anche su donne inconsapevoli. Vi è inoltre il fondato sospetto che a volte gli stessi aiuti allo sviluppo vengano collegati a determinate politiche sanitarie implicanti di fatto l'imposizione di un forte controllo delle nascite. Preoccupanti sono altresì tanto le legislazioni che prevedono l'eutanasia quanto le pressioni di gruppi nazionali e internazionali che ne rivendicano il riconoscimento giuridico.

L'apertura alla vita è al centro del vero sviluppo. Quando una società s'avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell'uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l'accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono [67]. L'accoglienza della vita tempra le energie morali e rende capaci di aiuto reciproco. Coltivando l'apertura alla vita, i popoli ricchi possono comprendere meglio le necessità di quelli poveri, evitare di impiegare ingenti risorse economiche e intellettuali per soddisfare desideri egoistici tra i propri cittadini e promuovere, invece, azioni virtuose nella prospettiva di una produzione moralmente sana e solidale, nel rispetto del diritto fondamentale di ogni popolo e di ogni persona alla vita.

29. C'è un altro aspetto della vita di oggi, collegato in modo molto stretto con lo sviluppo: la negazione del diritto alla libertà religiosa. Non mi riferisco solo alle lotte e ai conflitti che nel mondo ancora si combattono per motivazioni religiose, anche se talvolta quella religiosa è solo la copertura di ragioni di altro genere, quali la sete di dominio e di ricchezza. Di fatto, oggi spesso si uccide nel nome sacro di Dio, come più volte è stato pubblicamente rilevato e deplorato dal mio predecessore Giovanni Paolo II e da me stesso [68]. Le violenze frenano lo sviluppo autentico e impediscono l'evoluzione dei popoli verso un maggiore benessere socio-economico e spirituale. Ciò si applica specialmente al terrorismo a sfondo fondamentalista [69], che genera dolore, devastazione e morte, blocca il dialogo tra le Nazioni e distoglie grandi risorse dal loro impiego pacifico e civile. Va però aggiunto che, oltre al fanatismo religioso che in alcuni contesti impedisce l'esercizio del diritto di libertà di religione, anche la promozione programmata dell'indifferenza religiosa o dell'ateismo pratico da parte di molti Paesi contrasta con le necessità dello sviluppo dei popoli, sottraendo loro risorse spirituali e umane. Dio è il garante del vero sviluppo dell'uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad “essere di più”. L'uomo non è un atomo sperduto in un universo casuale [70], ma è una creatura di Dio, a cui Egli ha voluto donare un'anima immortale e che ha da sempre amato. Se l'uomo fosse solo frutto o del caso o della necessità, oppure se dovesse ridurre le sue aspirazioni all'orizzonte ristretto delle situazioni in cui vive, se tutto fosse solo storia e cultura, e l'uomo non avesse una natura destinata a trascendersi in una vita soprannaturale, si potrebbe parlare di incremento o di evoluzione, ma non di sviluppo. Quando lo Stato promuove, insegna, o addirittura impone, forme di ateismo pratico, sottrae ai suoi cittadini la forza morale e spirituale indispensabile per impegnarsi nello sviluppo umano integrale e impedisce loro di avanzare con rinnovato dinamismo nel proprio impegno per una più generosa risposta umana all'amore divino [71]. Capita anche che i Paesi economicamente sviluppati o quelli emergenti esportino nei Paesi poveri, nel contesto dei loro rapporti culturali, commerciali e politici, questa visione riduttiva della persona e del suo destino. È il danno che il « supersviluppo » [72] procura allo sviluppo autentico, quando è accompagnato dal « sottosviluppo morale » [73].
 
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Antonio Socci a Domenica In

Domenica scorsa, a Domenica In, è andata in onda un'intervista molto bella e toccante ad Antonio Socci, il nosto giornalista cattolico che abbiamo più volte citato durante la nostra attività. Antonio Socci è sicuramente un giornalista molto bravo, ma più di ogni cosa, è un buon cristiano, coerente con la sua fede, capace di esser un padre molto forte e coraggioso, come vedrete attraverso l'intervista.
Per vedere l'intervista, cliccate sull'immagine qui a destra:
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martedì 25 gennaio 2011

Prolusione del card. Bagnasco: "Per l'Italia è l'ora di saggezza e virtù"

Pubblichiamo il testo integrale della Prolusione del card. Angelo Bagnasco nella quale si sofferma sul caso Ruby senza fare espliciti riferimenti, riflettendo sullo stato attuale della politica italiana con grande intelligenza e garbo (rinviamo l'appuntamento con la Rerum Novarum a settimana prossima):

Venerati e cari Confratelli,

ci ritroviamo insieme, all’inizio del nuovo anno 2011, per la sessione invernale del nostro Consiglio Permanente, mentre nubi ancora una volta preoccupanti si addensano sul nostro Paese. Già la convocazione nella sede di una delle nostre Diocesi dice i propositi che ci muovono, l’attendere cioè all’attività della Conferenza, compresi gli appuntamenti che interessano comunitariamente le Chiese particolari che sono in Italia. Salutiamo, quindi, con grande cordialità l’Arcivescovo di Ancona-Osimo, Sua Eccellenza Monsignor Edoardo Menichelli, e lo ringraziamo per l’ospitalità che unitamente alla sua comunità diocesana ci offre, assicurandolo fin d’ora della nostra corale partecipazione al Congresso Eucaristico Nazionale che qui avrà luogo dal 3 all’11 settembre 2011. Sappiamo che da tempo, e d’intesa con il Comitato per i Congressi Eucaristici Nazionali, è in atto un’accurata preparazione all’evento che – non fatichiamo ad immaginarlo – si rivelerà non solo impegnativo, ma anche prezioso e corroborante per la vita di questa Diocesi, nonché di tutte le Diocesi marchigiane.

Al Santo Padre Benedetto XVI vogliamo subito esprimere il nostro filiale pensiero e la cordiale gratitudine per l’imminente beatificazione del Servo di Dio Giovanni Paolo II: l’annuncio di questo evento ha colmato di gioia non solo l’animo dei credenti, ma il mondo intero che con ammirazione e riconoscenza custodisce il ricordo di questo straordinario pastore del nostro tempo. Contemporaneamente, autorizzando la pubblicazione di altri nove decreti, il Papa ha aperto la strada della beatificazione per il professor Giuseppe Toniolo, fondatore delle Settimane Sociali, laico caro all’Azione Cattolica Italiana e all’Università Cattolica del Sacro Cuore, e per suor Antonia Maria Verna, fondatrice delle Suore della Carità dell’Immacolata Concezione di Ivrea. Ci rallegriamo per la compagnia di questi nuovi modelli che la Chiesa ci propone sulla strada della santità.

1. Conserviamo come preziosa in noi l’eco delle celebrazioni natalizie, con il loro corredo di tradizioni e di clima intensamente familiare, in coincidenza delle quali s’è potuto ancora una volta constatare il fascino benefico che la tradizione cristiana continua a far sentire ovunque nel nostro Paese. E ciò sembra muoversi in un quadro interpretativo nel quale una de-cristianizzazione progressiva apparirebbe ad alcuni ineluttabile. In realtà, sugli esiti possono influire una serie non interamente ponderabile di cause, che determinano situazioni in continua evoluzione. La fede religiosa può far fronte alle intemperie, e ciascuno di noi è testimone di esperienze positive, capaci di rinvigorire e proporre una concezione della vita tipicamente cristiana. C’è, d’altra parte, un legame personale con lo spazio e il tempo che solo la religione riesce ad assicurare. Conosciamo il fascino che esercita il mistero di un Dio mai stanco degli uomini, che si fa loro incontro nella forma scandalosamente più dimessa, fino a permettere alla nostra presuntuosa libertà di ignorarlo o addirittura sentirlo come rivale (cfr Benedetto XVI, Omelia nella Solennità dell’Epifania, 6 gennaio 2011).

Dio supera il nostro metro di misura  e lo sorprende, non in astratto però, bensì  nel Bimbo deposto in una grotta. Pur inerme, è la Verità per contemplare la quale è indispensabile «invertire la rotta» e «uscire dall’autonomia del pensiero arbitrario verso la disposizione all’ascolto, che accoglie ciò che è» (Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al convegno sull’Eredità spirituale e intellettuale di Romano Guardini, 29 ottobre 2010). Certo, nel mistero del Natale riusciamo ad avvertire nitidissimo anche lo strazio per chi si tiene lontano, e non vuol essere raggiunto neppure da un Dio Bambino; ma anche per chi è talmente compreso di sé e della sua propria intelligenza, da non lasciarsi insidiare dallo stupore né ghermire dal sorriso, gratuito e totale che, dalla grotta di Betlemme, si spande sul mondo. Nell’umiltà di quella carne, troviamo le parole più preziose, le verità più decisive per l’uomo peccatore e il destino eterno del tempo e del cosmo. Il mistero colà annunciato si svilupperà nel corso dell’anno liturgico, dispiegando le profondità della fede. Verità e parole che sono il corpo del Vangelo, quale risuona costantemente sulle labbra dei Pastori ed è alla base di ogni gesto che appartiene alla missione della Chiesa amica dell’uomo, ma non solo, amica della società e del mondo.
Nel periodo natalizio, ad esempio, com’è consuetudine siamo stati, noi e i nostri Confratelli Vescovi, in visita alle carceri presenti nei rispettivi territori. Ed insieme alla calorosa accoglienza del gesto e del messaggio, si è riscontrato il persistere amaro dei problemi legati principalmente al sovraffollamento, di cui già dicemmo nella prolusione dello scorso settembre.

2. La strage avvenuta ad Alessandria d’Egitto il primo giorno del 2011, che ha causato la morte di ventitré cristiani copti e il ferimento di altri novanta, è stato probabilmente l’episodio oltre il quale l’opinione pubblica non poteva più far finta di non vedere, ossia lo stillicidio di situazioni persecutorie, che nell’ultimo periodo si erano verificate in diverse zone del mondo, e avevano avuto i cristiani come vittime designate. Questi da tempo sono diventati il gruppo religioso che deve affrontare il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede. Un crescendo di episodi sanguinosi che nel corso dei mesi aveva interessato India, Pakistan e Filippine, Sudan e Nigeria, Eritrea e Somalia. Ma i fatti più gravi sono avvenuti in Iraq ed infine in Egitto; in entrambe le situazioni, a precedenti episodi di sangue trascurati o non chiariti, ne sono seguiti altri sempre più gravi. Impressiona che il momento di preferenza scelto per condurre gli agguati contro i cristiani sia il giorno di festa, durante la celebrazione liturgica o all’uscita di chiesa. E ciò non fa che aggiungere orrore ad orrore. Naturalmente ciascun episodio fa caso a sé, così come ciascuna Nazione ha uno scenario proprio. Il Medio Oriente è di sicuro la regione a più alta tensione; lì la cristianofobìa, che è la versione più corrente dell’intolleranza religiosa, non è lontana dal porsi ormai nelle forme della pulizia etnica o religiosa, benché i cristiani siano colà una componente certo non aggiuntiva né importata, e per secoli quella terra sia stata laboratorio di convivenza tra fedi ed etnie diverse.

Per i cattolici, e probabilmente non solo per loro, la coincidenza della strage di Alessandria d’Egitto con la 44ª Giornata mondiale della Pace ha gettato una luce ulteriore sul tema che quest’anno è stato scelto dal Papa, ossia «Libertà religiosa, via per la pace». Un’indicazione questa – si ricorderà – che aveva avuto un’ampia trattazione negli anni Ottanta del secolo scorso, allorché si trattava di far maturare oltre-cortina la situazione interna ai Paesi dell’Est europeo, dove i regimi comunisti non potevano tollerare la libertà religiosa. Come non ricordare Giovanni Paolo II e la sua penetrante azione, volta a iscrivere – dinnanzi al mondo – il principio della libertà religiosa tra i diritti fondamentali dell’uomo, e a farne anzi il coronamento oltre che il criterio veritativo? Il suo Successore, Benedetto XVI, ha inteso riprendere esplicitamente quel magistero e nel Messaggio pubblicato per la Giornata del 1° gennaio 2011 ne offre la trattazione – ad oggi – più consequenziale ed organica. «Nella libertà religiosa, infatti – scrive il Papa – trova espressione la specificità della persona umana, che per essa può ordinare la propria vita personale e sociale a Dio, alla cui luce si comprendono pienamente l’identità, il senso e il fine della persona».

E continua: «Negare o limitare in maniera arbitraria tale libertà significa coltivare una visione riduttiva della persona umana; oscurare il ruolo pubblico della religione significa generare una società ingiusta, poiché non proporzionata alla vera natura della persona» (n. 1). E se il diritto alla libertà religiosa è radicato nella dignità umana (n. 2), e sta all’origine della libertà morale (n. 3), significa anche che la stessa libertà religiosa gode di uno statuto speciale giacché quando essa «è riconosciuta, la dignità della persona è rispettata nella sua radice, e si rafforzano l’ethos e le istituzioni dei popoli» (n. 5). La libertà religiosa – ancora – «è un bene essenziale: ogni persona deve poter esercitare liberamente il diritto di professare e di manifestare, individualmente o comunitariamente, la propria religione o la propria fede, sia in pubblico che in privato, nell’insegnamento, nelle pratiche, nelle pubblicazioni, nel culto e nell’osservanza dei riti. Non dovrebbe incontrare ostacoli se volesse eventualmente aderire ad un’altra religione o non professarne alcuna» (ib).

Per questo motivo ai diritti di natura religiosa, l’ordinamento internazionale assegna «lo stesso status del diritto alla vita e alla libertà personale, a riprova della loro appartenenza al nucleo essenziale dei diritti dell’uomo, a quei diritti universali e naturali che la legge umana non può mai negare […]. È elemento imprescindibile di uno Stato di diritto» (ib). La mia, qui, è un’evocazione solo per rapidissimi cenni, desiderando piuttosto incoraggiare i credenti ad una lettura approfondita del testo, notevole davvero per compattezza ed ispirazione, e che va meditato unitamente all’Omelia tenuta nella solennità di Maria Madre di Dio, e al Discorso pronunciato dinanzi al Corpo Diplomatico il 10 gennaio 2011. Anche per gli osservatori e opinionisti laici si va, per fortuna, diffondendo la consapevolezza che la religione, elemento personale e interiore più di ogni altro, non va intesa in senso privato, e dunque isolabile, rispetto al quale assumere atteggiamenti apparentemente neutri, seppur in realtà indifferenti, quando non scettici.

3. Nessuno Stato accetta oggi tranquillamente condizioni di disuguaglianza nei rapporti economici, politici e culturali: se questo è vero, ed è fatto valere nelle sedi internazionali, occorre che il problema delle più elementari garanzie negate alle minoranze religiose – in non poche situazioni nazionali – venga posto con la lucidità e l’energia necessarie. Si apre qui, è noto, un problema drammatico di reciprocità, che non si risolve minacciando ritorsioni o attenuando, in Italia e in Occidente, le garanzie dei cittadini provenienti dagli Stati che non assicurano parità di trattamento. Anziché procedere con mezzo passo in avanti, se ne farebbe uno indietro.

Questo però non può essere un alibi per incrementare colpevoli acquiescenze o finti pragmatismi. Si può e si deve urgentemente porre la questione della libertà religiosa nelle sedi internazionali – Unione Europea, Onu…– al fine di aprire gli occhi e mantenerli aperti, insistendo affinché nei singoli Stati vi sia un sistema minimo di garanzie reali per la libertà di tutte le fedi. Esiste la possibilità di istituire degli osservatori internazionali in grado di controllare quello che concretamente avviene nei singoli territori. È ragionevole presumere ci siano, in ogni Paese, settori di opinione pubblica sufficientemente maturi da comprendere che l’estinguersi delle minoranze interne non può non segnare un’involuzione massimalista, quando non totalitaria. Ciò spiega il dibattito magari sottotraccia che esiste anche nelle situazioni più blindate, come pure gli appoggi che i cristiani ricevono sempre di più anche da esponenti di religione diversa. La questione tuttavia, di una fondamentale libertà religiosa, è da sollevarsi opportunamente nelle sedi multilaterali, come nelle relazioni bilaterali, e nei rapporti informali tra rappresentanti di Paesi diversi, avendo cura che l’interessamento puntuale non abbia a scatenare ritorsioni sulle spalle già oberate di chi soffre. Passi molto importanti in questo senso sono stati compiuti dall’Italia, e di ciò noi Vescovi non possiamo non essere grati.

Saremmo – per così dire – ancora più soddisfatti se tutti i nostri stimati interlocutori prendessero atto che subdole minacce ad un’effettiva libertà religiosa esistono anche nei Paesi di tradizione democratica, a partire da quelli europei. Dovremmo guardarci infatti dai sottili tranelli dell’ipocrisia, che induce a cercare lontano ciò che invece è riscontrabile anche vicino. Il Papa nel suo Messaggio non manca di rilevarlo (cfr n. 13; e anche il Saluto all’Angelus, 1 gennaio 2011, e il Discorso cit.), e dal canto nostro, al pari di Confratelli di altri Paesi, non manchiamo di ripeterlo quando serve, ad esempio nella vicenda del Crocifisso esposto nelle scuole o in ambito pubblico. Convinti come siamo che la libertà religiosa è un perno essenziale e delicatissimo, compromesso il quale è l’intero meccanismo sociale a risentirne, solitamente anche oltre le previsioni. C’è talora un argomentare infastidito sulla neutralità dello Stato che si rivela non poco capzioso.

E c’è un’aggressività laicista dalle singolari analogie con certe ossessioni ideologiche che ci eravamo lasciati alle spalle senza rimpianti. Colpisce, in questo senso, la denuncia che nel mese scorso è stata diffusa durante un convegno viennese dell’Osce secondo la quale un’astratta applicazione del principio di non discriminazione finisce paradossalmente per comportare un’oggettiva limitazione al diritto dei credenti a manifestare pubblicamente la propria fede. Un male sottile insomma sta affliggendo l’Europa, provocando una lenta, sotterranea emarginazione del cristianesimo, con discriminazioni talora evidenti ma anche con un soffocamento silente di libertà  fondamentali. Il caso su cui ci si sofferma è quello dell’obiezione di coscienza sui temi di alta rilevanza etica che, in più nazioni, si tenta ormai di ridimensionare. Ciò segnerebbe un regresso sul crinale della libertà. Emarginare simboli, isolare contenuti, denigrare persone è arma con cui si induce al conformismo, si smorzano le posizioni scomode, si mortificano i soggetti portatori di una loro testimonianza in favore di valori cui liberamente credono.

Osiamo con ciò chiedere, come Vescovi, un esame di coscienza per tutti impegnativo. C’è infatti qualcosa che ciascuno può fare per determinare miglioramenti concreti. Chi non comprende come l’invito rivolto dal Papa alle popolazioni bersagliate a «non cedere allo sconforto e alla rassegnazione» (Saluto all’Angelus, 1 gennaio 2010) suoni più efficace se quanti vivono in situazioni di libertà mettono in campo gesti concretamente volti alla solidarietà e alla condivisione? Intanto, poiché cittadini di altre religioni sono già in mezzo a noi, dobbiamo imparare a vivere con la diversità prossima a noi stessi, dando all’altro considerazione, facendolo esistere nell’attenzione e nel rispetto. In questo modo si può diventare quasi degli ambasciatori informali che, nelle forme della ferialità, danno un apporto significativo per modellare positivamente le relazioni tra gruppi etnici e contribuiscono a determinare l’inflessione dei rapporti tra i popoli.

Nel contempo, dobbiamo interpretare a tutto tondo i dettami della nostra religione, senza subire inibizioni striscianti, e ritenendo a nostra volta che vivere fino in fondo la fede, oltre a non essere uno stato di minorità, è un modo eccellente per rendere migliore il mondo. È il momento, come cristiani, di vincolarci di più alla Parola di Dio, in un approccio orante, personale e comunitario: è quanto ci chiede l’esortazione apostolica Verbum Domini (cfr ad esempio i nn. 86 e 87), pubblicata il 30 settembre scorso, e proposta alla coscienza ecclesiale come un’eredità condivisa dell’ultimo Sinodo mondiale dei Vescovi. In occasione del viaggio papale in Gran Bretagna ci furono osservatori, solitamente non proprio favorevoli alla Chiesa cattolica, che riservarono a Benedetto XVI apprezzamenti non formali a proposito del suo modo di porsi, di essere convincente, di indurre negli interlocutori interrogativi non scontati. Proprio questo stile, mite ma anche coraggioso e insieme persuasivo, vorremmo raccomandare a noi stessi e alle nostre Chiese.

È noto, inoltre, che su invito di Papa Benedetto nell’ottobre prossimo avrà luogo ad Assisi un Incontro interreligioso tra i rappresentanti delle Religioni mondiali, a venticinque anni da quello promosso da Giovanni Paolo II. Gesto tuttavia che nel contesto odierno rivelerà non solo la pertinenza della religione nel mondo di oggi ma il potenziale di pace e di sviluppo connesso alle relazioni interreligiose. E qui verrebbe spontanea una considerazione sul profilo del nostro Paese, chiamato ancora una volta a vivere da testimone privilegiato eventi di grande e universale significato simbolico. Ebbene, in vista di questo appuntamento, ci piacerebbe che i nostri fedeli mettessero fin d’ora in moto il cuore e l’anima così da preparare spiritualmente e culturalmente l’Italia ad accoglierlo come conviene. Per questa convocazione del Santo Padre, le comunità parrocchiali e quelle religiose sono chiamate infatti a pregare in modo speciale, sulla scia della giornata di preghiera indetta per domenica 21 novembre, affinché il Dio di ogni misericordia voglia far scendere da essa frutti copiosi di concordia e di pace. Domani, nella festa della Conversione di San Paolo, si conclude la Settimana dedicata all’unità dei cristiani: è stata l’occasione per interiorizzare ancora meglio che il cammino verso l’unità «abita nella preghiera» e che, dispiegandosi nella «comune responsabilità verso il mondo, dobbiamo rendere un servizio comune» (Benedetto XVI, Discorso all’Udienza Generale, 19 gennaio 2011).

4. Accennavo un attimo fa al profilo interiore dell’Italia. Più precisamente, vorrei riferirmi a ciò che ancora oggi la fa essere qualcosa di più della somma di tanti singoli individui, ossia un popolo, e tale in forza non dello Stato, il quale viene dopo, ma di una comunità di destino che cammina con gli altri popoli, e tra gli altri ha una sua indole, un suo carattere, una sua vocazione, potremmo dire  una sua anima. Quando, ad esempio, san Francesco e santa Caterina evocavano nei loro scritti l’Italia – molti secoli prima dell’unità raggiunta nel 1861, di cui si sta felicemente celebrando il 150° anniversario – si riferivano con ogni evidenza ad un’entità geografica che con quel nome era già identificabile, tant’è che sul territorio circolava, oltre alle parlate locali, anche una lingua comune, c’erano scambi e commerci, c’erano letterati, giuristi ed artisti che lavoravano per le diverse corti, e in qualche modo anzi le accomunavano.

E potevano farlo in ragione di una predicazione cristiana che, toccando le varie città e contrade, aveva dato forma agli archetipi fondamentali di base. Intendo dire che il vincolo religioso è stato realmente l’incunabolo da cui è scaturita la prima coscienza di una identità italiana. E ciò non per rimarcare diritti o primati, ma per ricordare che nella storia dei popoli vi sono caratteristiche «che non possono essere negate, dimenticate o emarginate», e che quando è accaduto «si sono causati squilibri e dolorose fratture» (Benedetto XVI, Discorso al nuovo Ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede, 17 dicembre 2010). Va da sé che la fede, nella misura in cui punta all’interiorità, non possa ridursi al fenomeno di «religione civile»; nello stesso tempo non si può negare che abbia una ricaduta nella vita comunitaria e pubblica. La religione è certo apprezzabile nella società civile per le sue attività caritative e assistenziali, dunque per la sua dimensione orizzontale. Essa però prospera nella misura dell’intensità della dimensione verticale. L’apertura al trascendente, che pure è indisponibile allo Stato, non può essergli tuttavia indifferente, in quanto struttura la persona, la mette in grado di interpretare ciò che la circonda, le dona quell’idealità e quella forza morale che la materialità non garantisce. Soprattutto, la rende capace di scegliere il bene anziché il male. Che per una società è la direzione primordiale e insostituibile.

Vale anche nella nostra attualità, in cui non è difficile riscontrare – osserva il Papa – «una perversione di fondo del concetto di ethos» (Discorso per gli auguri alla Curia romana, 20 dicembre 2010). In una situazione in cui «esisterebbe soltanto un “meglio di” e un “peggio di”. […] tutto dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male» (ib). In una situazione del genere, quando in certi momenti sembra che a vacillare siano i fondamenti stessi di una civiltà, si comprende forse meglio quale sia «il patrimonio di principi e di valori espressi da una religiosità autentica […]. Essa parla direttamente alla coscienza e alla ragione degli uomini e delle donne, rammenta l’imperativo della conversione morale, motiva a coltivare delle virtù e ad avvicinarsi l’un l’altro con amore, nel segno della fraternità, come membri della grande famiglia umana» (Messaggio cit. n. 9). È la religione ad aiutare la persona a distinguere tra l’assenza di costrizioni e il comportarsi secondo i doveri della coscienza. Non è un caso che la cultura moderna abbia indotto a sovrapporre i due concetti. Scriveva Newman: «Al giorno d’oggi, per una buona parte della gente, il diritto e la libertà di coscienza consistono proprio nello sbarazzarsi della coscienza, nell’ignorare il Legislatore e Giudice, nell’essere indipendenti da obblighi che non si vedono. […] La coscienza è una severa consigliera, ma in questo secolo è stata rimpiazzata da una sua contraffazione, di cui i diciotto secoli passati non avevano mai sentito parlare o dalla quale, se ne avessero sentito, non si sarebbero mai lasciati ingannare: è il diritto ad agire a proprio piacimento» (Lettera al Duca di Norfolk, Milano 1999).

Ora, a parte il rilievo che il secolo in cui viveva Newman sembra essersi d’incanto prolungato fino ad oggi, com’è possibile non farsi aiutare dal nuovo Beato a identificare proprio nello stravolgimento del concetto di coscienza la causa di tanti equivoci? Forse non è vero che l’origine di troppe scelte sbagliate sta nello scambiare l’opzione di coscienza con la pretesa di essere padroni di agire come ci pare? Oppure com’è, sul momento, più conveniente e redditizio? Troppe volte, nella cultura come nella vita, si confonde il concetto di coscienza, ossia la capacità della persona di riconoscere la verità e decidere di incamminarsi in essa, con l’ultima perentorietà dell’istanza soggettiva (cfr anche Benedetto XVI, Discorso ai Dirigenti e Agenti della Questura di Roma, 21 gennaio 2011). In pratica, è lo stordimento attorno al falso concetto di autonomia ciò che incrina la cultura odierna, quella secondo cui la persona si pensa tanto più felice quanto si sente prossima a fare ciò che vuole. Peccato, tuttavia, che da lì in poi scoprirà che la felicità è altrove, e la si conquista in ben altro modo. Si può cogliere da qui il senso degli Orientamenti pastorali che l’Episcopato ha deciso, per questo decennio (2011-2020), in ordine all’emergenza educativa, «il cui punto cruciale sta nel superamento di quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un “io” completo in se stesso, laddove invece egli diventa “io” nella relazione con il “tu” e il “noi”» (n. 9). Più di quanto non si pensi oggi è avvertito – seppur non ammesso – il bisogno di un’educazione coerente e duratura, che dia cioè gli ormeggi oggettivi, essendo in se stessa anche morale (cfr Benedetto XVI, Messaggio alla 62a Assemblea Generale della CEI, 4 novembre 2010).

5. La crisi economica e finanziaria che, a partire dal 2009, ha investito in pratica il mondo intero non è finita. E che non sia esaurita lo dicono studiosi ed economisti, ma del fatto abbiamo conferma anche nella concreta vicinanza alla gente, nostra e dei nostri cari sacerdoti, ai quali indirizziamo il pensiero grato e fraterno. Non mancano germi di nuovo, segnali di ripresa e di innovazione, con esperimenti rilevanti nelle relazioni lavorative, ma persistono varie situazioni impaludate.

E dentro ciascuna di esse ci sono persone e, di conseguenza, famiglie in grande allarme e in comprensibile sofferenza. Noi siamo anzitutto con loro. Contribuisce poi ad impensierirci ulteriormente il senso di spaesamento che perdura, non come un’atmosfera evidentemente artificiosa e momentanea, ma come stato d’animo concreto, affatto passeggero. Per questo resta sempre necessario ascoltare per meglio comprendere e opportunamente decidere. Ad esempio, la contestazione studentesca, sviluppatasi nelle settimane precedenti il Natale, è un fatto che merita una riflessione non scontata.

Non si è trattato di un evento ripetitivo del passato; troppo diverse le situazioni e le condizioni. Certo, hanno inquietato gli innesti di violenza e di grave devastazione che si sono registrati. Si è parlato di infiltrazioni improprie, e non tutti né ovunque sono stati pronti a dissociarsi dalla violenza. Ma in ogni campo bisogna dare ascolto alle preoccupazioni reali e ai dubbi sinceri per meglio capirsi e per poter procedere con l’apporto più ampio e onesto possibile. Riconoscendo anche, come è accaduto non di rado, che l’esperienza diretta e concreta del nuovo ha riservato sorprese positive, magari non subito colte nella concitazione degli animi e degli eventi. Resta l’esigenza evidente, comunque, che ogni riforma richiede risorse indispensabili.

La prospettiva infatti del ridimensionamento di quello che ai giovani appare come il più consistente cespite di spesa che lo Stato stanzia in loro favore, deve essere apparsa incomprensibile. Ma oltre a queste motivazioni psicologiche – di impellenza immediata – ci sono quelle lunghe, ossia la consapevolezza che essi hanno di arrivare alla ribalta in cui dovrebbe cominciare la vita adulta e autonoma, quando una serie di condizioni sono diventate sfavorevoli. Si dice che questa sia la prima generazione della decrescita, e la si chiama generazione inascoltata o non garantita. La disoccupazione giovanile è un dramma per l’intera società, e non solo per i giovani direttamente interessati. Stando alle statistiche, ci sono oltre due milioni di giovani tra i 15 e 34 anni che non studiano, non lavorano, né ormai cercano più un impiego. Dicono di saper già di non trovarne uno stabile e sono poco disponibili ad abbracciarne uno qualsiasi. La svalutazione del lavoro manuale, anche specializzato, è evidente. E questo non è un bene. Il mondo degli adulti, secondo le diverse responsabilità, è in debito nei confronti delle nuove generazioni, “in debito di futuro”. I giovani non vogliono certo essere accarezzati come degli eterni adolescenti, desiderano essere considerati responsabili e quindi trattati con serietà, ma chiedono di non sentirsi soli, gettati nella vita e privi di possibilità.

6. In un documento del nostro Episcopato pubblicato trent’anni or sono e che ebbe a suo tempo una notevole accoglienza (La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 1981), si diceva icasticamente: «Il consumismo ha fiaccato tutti» (n. 11). Ed eravamo appena agli inizi di quel processo di trasformazione che interesserà l’Italia e l’Occidente nei decenni a seguire, e troverà rappresentazione nella cosiddetta “modernità liquida” dominata da quella che alcuni hanno definito “ideologia del mercato”. Colpisce l’efficacia di quella predizione, dove ad apparire centrato è in particolare il verbo usato: “fiaccare”. La desertificazione valoriale ha prosciugato l’aria e rarefatto il respiro.

La cultura della seduzione ha indubbiamente raffinato le aspettative ma ha soprattutto adulterato le proposte. Ha così potuto affermarsi un’idea balzana della vita, secondo cui tutto è a portata di mano, basta pretenderlo. Una sorta di ubriacatura, alle cui lusinghe ha – in realtà – ceduto una parte soltanto della società. Però il calco di quel pensiero è entrato sgomitando nella testa di molti, come un pensiero molesto che pretende ascolto. Un ascolto peraltro che diventava sempre più improbabile, considerato il nuovo clima sociale, determinato da un volano economico che senza tanti complimenti si era messo a girare all’incontrario. Noi siamo testimoni della dignità con cui la nostra gente sta normalmente reagendo alle difficoltà che si sono presentate, arrivando a configurare un andamento diverso nel passo del mondo. Sembrava che il trend della crescita dovesse tutto sommato aumentare sempre, in un movimento espansivo che avrebbe via via incluso sempre nuove fette di popolazione. Invece la crisi si è presentata come una sorta di drenaggio generale, obbligando un po’ tutti a rivedere le proprie ambizioni.

C’è una verità, forse non troppo detta, ma che la gente ha intuito abbastanza presto: si stava vivendo al di sopra delle proprie possibilità. Bisogna allora imprimere una moderazione complessiva dell’andamento di vita, senza dimenticare – anzi! – tutti coloro che già prima vivevano sul filo e oggi si trovano sotto. Con bilanci meno ambiziosi, occorre far fronte a tutte le necessità di una società moderna, per di più senza poter più contare sullo sfogo del debito pubblico che invece dovrà rientrare. Ma che fare se ognuno difende a spada tratta il livello di vita già acquisito? Questo è il punto in cui i problemi dei giovani vengono a coincidere con le questioni di ordine generale: bisogna infrangere l’involucro individualista e tornare a pensare con la categoria comunitaria del “noi”, perché tutto va ricalibrato secondo un diverso soggetto.

Anziché una somma di tanti “io”, sicuramente legittimi e forse un po’ pretenziosi, occorre insediare il plurale che abita in ogni famiglia, il plurale di cui si compone ogni società. Non sarà un’operazione facile, ma occorrerà convertire una parte di ciò che eravamo abituati a considerare nella nostra esclusiva disponibilità, e metterlo nella disponibilità di tutti. E naturalmente chi nel frattempo aveva accumulato di più, qualcosa di più ora deve mettere a disposizione. Quando un anno e mezzo fa cercavamo di trovare il senso di ciò che la crisi poteva richiedere, si parlò ad un certo punto di una necessaria conversione degli stili di vita. Ora ci siamo arrivati.

C’è un’alfabetizzazione etica su questa nuova stagione che occorre saper alimentare anche al livello dei nostri gruppi, delle nostre associazioni, dei nostri movimenti. Se una parte di reddito va ridistribuita per poter corrispondere alle essenziali attese delle ultime generazioni, che diversamente rimarrebbero sul lastrico, ecco che c’è un lavoro di rimotivazione da compiere per dare un orizzonte convincente alla dose di sacrifici che bisogna affrontare. Si torna qui alla sfida educativa che ci siamo prefissi. Nella mentalità più diffusa, la sofferenza è l’ambito oscuro della vita che è meglio mettere tra parentesi, e da cui in ogni caso è necessario preservare i più giovani. Ma questo, pur scaturito dalle migliori intenzioni, è l’autoinganno più fatale che si sia indotto nei figli, nei nipoti, nei discepoli. Tentando di preservarli dalle difficoltà e dalle durezze dell’esistenza, si rischia di far crescere persone fragili, poco realiste e poco generose. Se a questo si aggiunge una rappresentazione fasulla dell’esistenza, volta a perseguire un successo basato sull’artificiosità, la scalata furba, il guadagno facile, l’ostentazione e il mercimonio di sé, ecco che il disastro antropologico in qualche modo si compie a danno soprattutto di chi è in formazione. «Non esiste una vita senza sacrificio», ammoniva il Papa parlando proprio ai giovani (Omelia nella Domenica delle Palme, 5 aprile 2010), non si può diventare liberi da sé «senza osare il grande Sì» (ib). E poi spiegava : «Se getto uno sguardo retrospettivo sulla mia vita personale, devo dire che proprio i momenti in cui ho detto “sì” ad una rinuncia sono stati momenti grandi ed importanti della mia vita» (ib).

Anche la crescente allergia che si registra nei confronti dell’evasione fiscale è un segnale positivo, che va assecondato. Adesso più che mai è il momento di pagare tutti nella giusta misura le tasse che la comunità impone, a fronte dei servizi che si ricevono. Bisogna snellire e semplificare, ma nessuno è moralmente autorizzato ad autodecretarsi il livello fiscale. Chi fa il furbo non va ammirato né emulato. Il settimo comandamento, «Non rubare», resiste con tutta la sua intrinseca perentorietà anche in una prospettiva sociale.

7. L’intelligenza collettiva ha il dovere di riscattare l’istituto familiare dalle visioni ristrette e impacciate in cui è stato relegato. I riconoscimenti che nell’ultimo periodo sono giunti da istituzioni insospettabili alla famiglia italiana quale soggetto-baluardo della finanza nazionale e salvadanaio in grado di riequilibrare la finanza pubblica agli occhi delle autorità europee, acquistano oggi il valore di una riabilitazione culturale della famiglia stessa dinanzi a quei grandi poteri da cui è stata spesso ignorata. Conviene appena ricordare che tale esito non nasce accidentalmente, ma è il risultato paziente dell’antropologia di riferimento della nostra cultura, per la quale da sempre noi viviamo anzitutto in una società di famiglie. Questa è la campata sotto la quale l’Italia vive, avendo − sotto il profilo sociologico − una connotazione sua propria, la quale ha ripercussioni decisive a livello educativo, nel contenimento dei disagi giovanili, nella resa scolastica, nelle strategie di prevenzione sociale, nel recupero dalle dipendenze, nella comunicazione intergenerazionale.

Va da sé che una ricognizione lucida della condizione nazionale deve portare il Paese a darsi una politica familiare preveggente, che mantenga la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, e aperta alla vita, quale base per rilanciare il Paese, e rilanciarlo sul proprio caratteristico equilibrio esistenziale, dunque senza ossessivi cedimenti alla struttura del «soggetto singolare». Le risultanze della Conferenza nazionale sulla Famiglia, svoltasi di recente a Milano, vanno indubbiamente in questa direzione e meritano – sia per il versante culturale sia per il versante politico-fiscale – la pronta considerazione delle forze politiche. L’individuazione del “fattore famiglia” come criterio ad oggi più evoluto, in quanto più equilibrato rispetto ad ipotesi precedenti, suggerisce che l’auspicata, urgente riforma del fisco dispone già di un elemento centrale di grande convergenza. Diremo anche noi con Benedetto XVI che tutto ciò che si fa per sostenere il matrimonio e la famiglia accresce la grandezza dell’uomo, rafforzando nel contempo la società (cfr Benedetto XVI, Discorso all’Udienza Generale, 10 novembre 2010; e anche Discorso agli Amministratori della Regione Lazio, del Comune e della Provincia di Roma, 14 gennaio 2011).

Come ho già più volte auspicato, bisogna che il nostro Paese superi, in modo rapido e definitivo, la convulsa fase che vede miscelarsi in modo sempre più minaccioso la debolezza etica con la fibrillazione politica e istituzionale, per la quale i poteri non solo si guardano con diffidenza ma si tendono tranelli, in una logica conflittuale che perdura ormai da troppi anni. Si moltiplicano notizie che riferiscono di comportamenti contrari al pubblico decoro e si esibiscono squarci – veri o presunti – di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza, mentre qualcuno si chiede a che cosa sia dovuta l’ingente mole di strumenti di indagine. In tale modo, passando da una situazione abnorme all’altra, è l’equilibrio generale che ne risente in maniera progressiva, nonché l’immagine generale del Paese. La collettività, infatti, guarda sgomenta gli attori della scena pubblica, e respira un evidente disagio morale. La vita di una democrazia – sappiamo – si compone di delicati e necessari equilibri, poggia sulla capacità da parte di ciascuno di auto-limitarsi, di mantenersi cioè con sapienza entro i confini invalicabili delle proprie prerogative. «Muoversi secondo una prospettiva di responsabilità − ammoniva il Papa in occasione dell’ultima Settimana Sociale − comporta la disponibilità ad uscire dalla ricerca del proprio interesse esclusivo per perseguire insieme il bene del Paese» (Benedetto XVI, Messaggio alla 46a Settimana Sociale dei cattolici italiani, 12 ottobre 2010).

Come ho già avuto modo di dire, «chiunque accetta di assumere un mandato politico deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che esso comporta, come anche la nostra Costituzione ricorda (cfr art. 54)» (Prolusione al Consiglio Permanente, 21-24 settembre 2009, n. 8). Dalla situazione presente – comunque si chiariranno le cose – nessuno ricaverà realmente motivo per rallegrarsi, né per ritenersi vincitore. Troppi oggi – seppur ciascuno a modo suo – contribuiscono al turbamento generale, a una certa confusione, a un clima di reciproca delegittimazione. E questo − facile a prevedersi − potrebbe lasciare nell’animo collettivo segni anche profondi, se non vere e proprie ferite.

La comunità nazionale ha indubbiamente una propria robustezza e non si lascia facilmente incantare né distrarre dai propri compiti quotidiani. Tuttavia, è possibile che taluni sottili veleni si insinuino nelle psicologie come nelle relazioni, e in tal modo – Dio non voglia! – si affermino modelli mentali e di comportamento radicalmente faziosi. Forse che questo non sarebbe un attentato grave alla coesione sociale? E quale futuro comune potrà risultare, se il terreno in cui il Paese vive rimanesse inquinato? È necessario fermarsi − tutti − in tempo, fare chiarezza in modo sollecito e pacato, e nelle sedi appropriate, dando ascolto alla voce del Paese che chiede di essere accompagnato con lungimiranza ed efficacia senza avventurismi, a cominciare dal fronte dell’etica della vita, della famiglia, della solidarietà e del lavoro. Come Pastori che amano la comunità cristiana, e come cittadini di questo caro Paese, diciamo a tutti e a ciascuno di non cedere al pessimismo, ma di guardare avanti con fiducia. È questo l’atteggiamento interiore che permetterà di avere quello scatto di coscienza e di responsabilità necessario per camminare e costruire insieme.

Così, non possiamo non porre mente particolare alle giovani generazioni e al dovere educativo che investe in primissimo luogo la famiglia, e irrinunciabilmente i genitori, sostenuti dai parenti, in particolare dai nonni. La Chiesa è consapevole di questo diritto, primordiale perché naturale, dei genitori quali essenziali educatori dei loro figli, e si concepisce anzitutto al loro servizio, e questo fa con profondo rispetto e la premura che viene da un patrimonio umano e religioso a tutti noto. A sua volta, la Chiesa stessa ha un irrinunciabile mandato educativo, che intende assolvere con dedizione assoluta e santità di vita.

Certamente l’istituzione scolastica fa tutto quello che può, specialmente attraverso l’impegno serrato di una moltitudine di docenti e operatori, competenti e generosi. Eppure, questo dispiegamento di disponibilità pare non bastare, tanto è grande e delicata oggi «la sfida educativa». Per questo deve entrare in campo la società nel suo insieme, e dunque con ciascuna delle sue componenti e articolazioni. Se la scuola – come oggi si intende – dev’essere «comunità educante», bisogna convincersi con una maggiore risolutezza che la società nel suo complesso è chiamata ad essere «comunità educante». Affermare ciò, a fronte di determinati «spettacoli», potrebbe apparire patetico o ingenuo, eppure come Vescovi dobbiamo caricarci sulle spalle anche, e soprattutto, questo onere di richiamare ai doveri di fondo, di evidenziare le connessioni, di scoprire i pilastri portanti di una comunità di vita e di destino. Se si ingannano i giovani, se si trasmettono ideali bacati cioè guasti dal di dentro, se li si induce a rincorrere miraggi scintillanti quanto illusori, si finisce per trasmettere un senso distorcente della realtà, si oscura la dignità delle persone, si manipolano le mentalità, si depotenziano le energie del rinnovamento generazionale.

È la speranza, pane irrinunciabile sul tavolo dei popoli, a piegarsi e venire meno. Il cuore dei giovani tende − per natura − alla grandezza e alla bellezza, per questo cerca ideali alti: bisogna che essi sappiano che nulla di umanamente valevole si raggiunge senza il senso del dovere, del sacrificio, dell’onestà verso se stessi, della fiducia illuminata verso gli altri, della sincerità che soppesa ogni proposta, scartando insidie e complicità. In una parola, di valori perenni. Gesù è il modello affascinante, l’amico che non tradisce e viene sempre incontro, che prende per mano e riaccende ogni volta la forza sorgiva che sostiene la fiducia verso la realizzazione di sé e la vera felicità. Questo – come adulti e come giovani − abbiamo bisogno di vedere e di sentire sempre, oltre ogni moralismo ma anche oltre ogni libertarismo, l’uno e l’altro spesso dosati secondo le stagioni.

Bisogna che nel suo complesso il Paese ringiovanisca, torni a crescere dal punto di vista culturale e quindi anche sociale ed economico, battendo i catastrofismi. Cambiare in meglio si può e si deve. Le cortine fumogene svaniscono, arroganze e supponenze portano a poco. I sacrifici che i cittadini stanno affrontando acquistano un senso se vengono prospettati obiettivi credibili e affidabili. Tra questi, c’è l’orizzonte di una maggiore giustizia sociale e di una modernizzazione effettiva in ogni articolazione pubblica, anche quella a beneficio dell’utenza più larga, specialmente se perseguita nel rispetto delle regole, e respingendo il malaffare e le intimidazioni di ogni mafia. Come è obiettivo inderogabile l’avvio delle riforme annunciate, applicandosi in un’ottica puntigliosamente coinvolgente tutte le forze politiche, ciascuna secondo la misura intera nella parte assegnata dai cittadini. Bisogna avere fiducia nelle nostre qualità e potenziare la capacità elaborativa di ogni sede responsabile, affinando l’attitudine a captare umori e orientamenti per poterli comporre in vista di una mediazione d’insieme la più alta possibile. Un Paese complesso richiede saggezza e virtù.

Vi ringrazio, Confratelli cari, per il Vostro paziente ascolto e per l’accoglienza ragionata che vorrete riservare a queste considerazioni. Con la discussione, entriamo già nel vivo dell’ordine del giorno, mentre ci attendono argomenti importanti in merito alla vita cristiana del nostro popolo e all’efficacia della nostra Conferenza. Ci assista Maria, che il popolo anconetano venera come Regina di tutti Santi, e che dalla sacra Casa di Loreto ci segue e ci protegge. E ci assistano i Santi Patroni, san Ciriaco e san Leopardo, san Giuseppe da Copertino e san Francesco di Sales: la loro compagnia ci incoraggia e ci sostiene. Grazie.



Angelo Card. Bagnasco
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